Il 17 aprile 2016 saremo chiamati alle urne per un referendum contro la durata indefinita delle trivellazioni per combustibili fossili a mare, entro le dodici miglia marine.
Breve nota per approfondire il tema a cura di Roberto Meregalli
IL QUESTITO REFERENDARIO
“Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ‘Norme in materia ambientale’, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: ‘per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale’ ?”
L’art. 6, comma 17°, del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i. stabilisce:
“Ai fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, all’interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in virtù di leggi nazionali, regionali o in attuazione di atti e convenzioni internazionali sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonchè di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare, di cui agli articoli 4, 6 e 9 della legge 9 gennaio 1991, n. 9.
Al di fuori delle medesime aree, le predette attività sono autorizzate previa sottoposizione alla procedura di valutazione di impatto ambientale di cui agli articoli 21 e seguenti del presente decreto, sentito il parere degli enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle attività di cui al primo periodo. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano ai procedimenti autorizzatori in corso alla data di entrata in vigore del presente comma. Resta ferma l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati alla stessa data. Dall’entrata in vigore delle disposizioni di cui al presente comma è abrogato il comma 81 dell’articolo 1 della legge 23 agosto 2004, n. 239”
Cara Eleonora, il prossimo 17 aprile per la prima volta avrai la possibilità di esprimere attraverso il voto la tua opinione. Mi hai spiegato che la politica non ti affascina e che non sai se andrai a votare perché hai l’impressione che non serva granché. Non posso darti torto. Spesso anch’io ho l’impressione di vivere in una finta democrazia, ma resto convinto che qualsiasi altra forma di governo sia peggiore e che la sensazione di disgusto sia causata dalle scelte sbagliate della maggioranza che non ha saputo scegliere gli uomini giusti da cui farsi rappresentare. Questo, però, è un discorso complesso, riguarda demagogia, rappresentatività, onestà intellettuale, opportunismo e integrità dei vari candidati. Lo affronteremo, se vorrai, quando si tratterà di votare per eleggere il sindaco o per le elezioni politiche.
L’appuntamento del 17 aprile è diverso. Si vota per un referendum, anche se a differenza di quanto è successo per quelli sul divorzio, sull’aborto e sul nucleare questa volta il tema è marginale e c’è un significato nascosto. Il referendum è la più alta forma di democrazia perché siamo chiamati a esprimere un’opinione su un aspetto specifico, un po’ come se fossimo tutti in parlamento a votare per l’introduzione o l’abolizione di un articolo di legge. Grazie ai referendum è possibile divorziare, sono scomparsi gli aborti clandestini e abbiamo evitato la costruzione di costosissime e inutili centrali nucleari. Questa volta il quesito è marginale e riguarda la possibilità di concedere proroghe alle concessioni per l’estrazione di gas e petrolio alle poche piattaforme che operano entro le dodici miglia dalla costa. I quantitativi di gas e petrolio estratti da queste piattaforme sono talmente irrisori da rendere quasi insignificante l’esito della consultazione popolare, ma, come ti dicevo, questa volta c’è un significato nascosto.
Una vittoria del sì darebbe un ulteriore chiaro segnale al governo della volontà dei cittadini di accelerare la transizione verso le energie rinnovabili. Una transizione oggi ritenuta inevitabile anche dai sostenitori del no e questo è un grande risultato. Chi sosteneva il nucleare nel 2011, in gran parte gli stessi che oggi invitano all’astensione o a votare no sulle trivelle, ritenevano, infatti, che le fonti rinnovabili avrebbero potuto rappresentare al massimo una quota marginale del fabbisogno energetico di qualsiasi nazione. Cinque anni sono bastati a dimostrare che avessero torto. Come sai, ritengo che energia e acqua rappresentino i temi fondamentali per lo sviluppo dell’umanità. Questioni che riguardano ciascuno di noi molto più da vicino di quanto si possa immaginare. Ti faccio soltanto un esempio per non tediarti. In Siria per conquistare una città agli infami terroristi dell’Isis è bastato assetarla e controllare i pozzi di petrolio e le centrali elettriche. Chi può gestire energia e acqua ha un immenso potere.
Lo sviluppo economico in occidente è stato possibile grazie alla rivoluzione industriale, con lo sfruttamento del carbone per produrre energia all’inizio, del petrolio e del gas in seguito. Questo modello di sviluppo non appare più sostenibile e ha smesso di generare benessere diffuso da tempo. Sono in pochi a raccontare questa verità, che pure è sotto gli occhi di tutti. Tra questi pochi ci sono due personaggi, diversissimi tra loro, capaci di proporre una visone alternativa, papa Francesco e l’ex presidente dell’Uruguay Josè “Pepe” Mujica. Il papa ha scritto un’enciclica rivoluzionaria, nella quale individua con chiarezza le cause dell’imbarbarimento umano e del degrado ambientale. Il secondo, che prima di essere a capo della piccola nazione sudamericana è stato un combattente dei Tupamaros, uno che si è sporcato le mani, non un intellettuale tutto teorie e riconoscimenti accademici, ha invitato a sostituire l’indice di benessere economico con l’indice di felicità. Fai uno sforzo. Leggiti l’enciclica Laudato sì (in allegato trovi il pdf con evidenziate le parti che reputo più significative) e documentati su Pepe (qui uno dei suoi discorsi per me più convincenti https://youtu.be/3SxkMKTn7aQ).
Non sto divagando. Come ho già avuto modo di spiegarti, la democrazia impone alcuni sacrifici. Per esempio informarsi. Sì, perché anche nell’epoca di Internet spesso è difficile informarsi. Richiede tempo, attenzione e presuppone la volontà di non accontentarsi di proclami e slogan. Alcuni diritti che oggi diamo per scontati hanno richiesto grandi battaglie civili e impegno per affermarsi. Pensa alla condizione delle donne, per esempio, o alla cosiddetta rivoluzione sessuale di fine Anni ’60. Conquiste non ancora universalmente valide nonostante la globalizzazione. Le tue coetanee nel mondo arabo non godono delle tue stesse libertà. Ecco, libertà è la parola chiave, il principio dal quale per me derivano tutti gli altri. Libertà non significa fare quello che ti pare, significa soprattutto poter lottare per rendere più giusta e migliore la società, significa poter esprimere il proprio dissenso nei confronti di ciò che ci appare ingiusto.
Tornando al referendum del 17 aprile, ritengo occorra andare oltre la specificità del quesito. Fondamentalmente sono in ballo due visioni contrapposte sul tema dello sfruttamento delle risorse e sulla distribuzione dell’energia. La contrapposizione tra fonti fossili e rinnovabili non è l’unica questione sul tavolo e, forse, è la meno importante, anche perché le prime sono destinate a esaurirsi e tra non molto i costi per il loro sfruttamento diverranno talmente alti da risultare economicamente insostenibili. La questione a mio avviso più significativa riguarda i modelli di sviluppo: centralizzati o diffusi. Con le fonti fossili e con il nucleare era inevitabile avere grandi centrali che smistassero l’energia a chi ne ha bisogno. Dal controllo delle centrali e dei pozzi deriva, inevitabilmente, un grande potere. Oltre all’esempio della Siria che ti ho fatto poco fa, vorrei che tu riflettessi sul fatto che tutte le guerre in Medio Oriente sono avvenute, di fatto, in funzione del petrolio. Lo stesso è capitato nei paesi dell’ex Unione Sovietica, principalmente in funzione del gas. Lo sviluppo delle rinnovabili ha aperto nuovi scenari con la possibilità di produrre energia esattamente nei luoghi dove deve essere consumata. Tante piccole centrali decentrate, invece di pochi grandi impianti centralizzati. Capisci da sola che questo rappresenterebbe una rivoluzione. Renderebbe autonomo dal punto di vista energetico qualsiasi Paese e quasi impossibile il controllo della distribuzione da parte di un’unica entità. Risulterebbero perfino inutili molti conflitti bellici, perché sole, acqua e vento non si possono fermare.
Se domani tutta l’energia necessaria fosse prodotta grazie alle fonti rinnovabili, ma restasse centralizzata, avremmo fatto un grande passo in avanti sul fronte della sostenibilità, ma una rivoluzione a metà. La gestione del potere resterebbe sempre nelle mani di pochi. Ecco, credo che il vero quesito da porsi domenica 17 aprile sia: voglio che in un futuro non troppo lontano la gestione dell’energia diventi più democratica e non resti concentrata nelle mani di pochi?
Io la vedo così. Domenica 17 aprile mi verrà posta una domanda apparentemente insignificante, con risvolti immediati quasi totalmente ininfluenti, che nasconde una questione di fondo fondamentale per la libertà di mia figlia.
I dati definitivi del bilancio energetico italiano, preparato dal Ministero per lo sviluppo economico Mise, mostrano che anche nel 2014 si è verificata una diminuzione della domanda di energia, pari al 4%; un dato che si inserisce nel percorso che dal 1995 ha fatto costantemente calare i consumi di energia primaria. Il contributo delle fonti rinnovabili è salito al 21%.
2015: inversione di tendenza
Nel 2015 è però avvenuta una inversione di tendenza, secondo le prime stime dell’Unione Petrolifera risulta una crescita dei consumi di energia del 3%. Questa crescita non ha influito nel trend di diminuzione dei costi della bolletta energetica totale italiana, che sempre secondo le stime UP, dovrebbe essere calata di quasi 10 miliardi di euro rispetto al 2014.
Questo calo è dovuto quasi totalmente al calo del costo del petrolio che è stato pari a circa il 47% se espresso in dollari, il costo del greggio importato in Italia nel 2015 è però diminuito un po meno, del 36%, per effetto dell’indebolimento dell’euro nei confronti del dollaro.
L’obiettivo principale della decarbonizzazione dell’economia, così duramente discusso nelle riunioni preparatorie e sottolineato come priorità dall’IPCC, è stato ridotto alla conferenza Cop 21 di Parigi a un vago riferimento. Il picco di emissioni potrebbe raggiungere qualsiasi grandezza, raggiungere il suo massimo in un periodo di tempo indefinito, scendere a zero solo a fine secolo. Non si menziona neanche una volta che i combustibili fossili abbiano termine. Qui è evidente la resistenza delle industrie del settore fossile e dei padroni del petrolio, del gas e del carbone. Secondo un’analisi congiunta dell’Istituto per lo Sviluppo Internazionale e dell’ODI, solo i paesi del G20, le prime 20 economie, canalizzano ogni anno oltre 600 miliardi di dollari di fondi pubblici sotto forma di sussidi alle compagnie dell’energia fossile. In questi sussidi non sono considerati i 1200 miliardi all’anno che gli Emirati Arabi mettono a bilancio per tenere basso il prezzo del petrolio e combattere la loro guerra contro i concorrenti di USA, Iran e Russia, con qualche complicità tollerata con l’esecrato ISIS.
Un notevole gruppo di 32 personalità, guidato da Stiglitz e altri premi Nobel ha chiesto l’introduzione di tasse per le emissioni di carbonio, sia per coprire i costi ambientali e sociali che sono ora trasferiti alla società che per ridurre le emissioni e investire in sistemi energetici senza emissioni di carbonio. Uno straordinario contributo ad affrontare la crisi togliendo soldi e armi alle multinazionali del passato e investendo in occupazione, risanamento del clima, redistribuzione del reddito. Ma di questa misura così necessaria non se ne discute a Davos o nei consessi dei banchieri che, pur di mantenere una rendita finanziaria, agitano lo spread e deprimono i listini delle borse terrorizzando i risparmiatori.
Cosa può succedere se, dopo la conferenza di Parigi, che ha fissato ad 1.5 °C il limite dell’innalzamento della temperatura del pianeta, l’economia e la politica, anziché rivolgersi al sole, al rifiuto dello spreco e all’intelligenza continueranno a ruotare attorno ai prezzi dei combustibili da bruciare nelle caldaie e nei motori? La Banca Mondiale avanza una interessante previsione: i prezzi all’ingrosso dell’energia elettrica in Europa rimarranno depressi e la curva dei prezzi dell’energia elettrica per il futuro nella maggior parte dei mercati manterrà una tendenza al ribasso. Se anche il prezzo del gas scenderà anche a seguito del calo del petrolio, non ci sarà recupero rispetto all’avanzamento delle rinnovabili, che saranno l’unica quota elettrica in crescita a prezzi convenienti. Di fatto, il rapido afflusso di energie rinnovabili, che hanno un costo marginale zero nella generazione e nell’accesso prioritario alla rete, ha rotto (BMI usa proprio la parola “BROKEN”) il business tradizionale dell’energia, mettendo in difficoltà le grandi utilities che, avendo investito in centrali a turbogas, producono in eccesso e sono costrette a tenere in stand by interi impianti, nonostante che il prezzo del gas che viene dai gasdotti dalle navi metaniere sia in discesa. La prospettiva è quella di una ulteriore irreversibile penetrazione economicamente conveniente dell’energia da sole, vento e acqua.
A meno che si rilanci il carbone, che è l’unica fonte in grado di reggere la pressione al ribasso delle fonti a bassa emissione e rimane la carta sporca del sistema energetico centralizzato, messo in discussione a livello innanzitutto ambientale, ma ora a livello anche economico e geopolitico.
Carbon tax e una decarbonizzazione a favore di un sistema energetico decentrato e rinnovabile sono carte ineliminabili per affrontare la crisi e, a lungo termine, per non subire, impotenti, gli shock di borsa. Perché non ce ne parla il cupo ministro Padoan e non prendono decisioni al riguardo i leader europei, che preparano ancora una volta missioni di guerra?
Strano a dirsi, ma l’accordo della cop 21 di Parigi è presto sparito dai radar della stampa. Chi ne parla più? Che c’entrino non poco petrolieri e industria militare? Vediamo un po’.
Una delle conseguenze riconosciute delle attività umane è l’accumulo nell’atmosfera di enormi quantità di gas che destabilizzano l’equilibrio energetico globale e causano un aumento della temperatura globale, superando i 50 Gigaton (miliardi di tonnellate) di CO2 equivalente l’anno, e una concentrazione in atmosfera di 400 parti per milione (ppm) già nel 2015. Le attuali tendenze portano ad un aumento della temperatura media del pianeta tra 3,7 e 4,8 °C entro la fine secolo, rappresentando un’emergenza planetaria senza precedenti nella storia dell’umanità. Per affrontare questa emergenza 180 rappresentanti dei governi di tutto il mondo hanno sottoscritto a Parigi un accordo storico… con qualche trucco di troppo, così da rendere arrendevole all’assalto di petrolieri e militari la soglia concordata di 1,5°C di aumento massimo di temperatura. Facciamo qualche esempio.
Innanzitutto la terminologia tutt’altro che irrilevante in un protocollo. Un team specializzato di avvocati e contrattualisti dei paesi industrializzati ha fatto pressione in sede di estensione dell’accordo perché entrassero clausole conformi a dilazionare i tempi. Parole chiave sono state attentamente selezionate per proteggere interessi settoriali: in particolare Big Oil e interessi militari hanno fatto sentire la loro voce. Così, mentre nel preambolo c’era scritto, fino a due giorni prima della data finale, che il rispetto dei diritti umani, il diritto allo sviluppo e l’equità intergenerazionale “devono” orientare la lotta all’abbattimento delle emissioni, nel documento conclusivo, su insistenza delle delegazioni degli Stati Uniti, dell’Unione europea, del Giappone e del Canada, “devono” si è trasformato in “dovrebbero”, con una componente dichiarativa priva di valore giuridico. Nella stessa stesura finale ci si limita a rilevare, anziché “riconoscere” l’importanza della tutela della biodiversità “riconosciuta da alcune culture” e l’importanza del concetto di giustizia climatica “per alcuni”.
Una volta fissata la soglia di 1,5°C – pur importante sul piano indicativo – non si sono definiti né la strategia né il percorso per garantire quel risultato. Di fatto l’accordo di Parigi si basa su un collage di contributi volontari, determinati da ciascun paese per se stesso, senza il coordinamento tra le parti, senza condizioni o sanzioni per non conformità. Pur riconoscendo che c’è incoerenza tra l’obiettivo auspicato e i contributi volontari presentati, la Conferenza delle Parti ha rilevato con preoccupazione “che i livelli stimati di emissioni aggregate di gas serra nel 2025 e nel 2030 risultante dai contributi previsti stabiliti a livello nazionale non sono coerenti nemmeno con lo scenario 2 °C”.
In ballo ci sono soprattutto le fonti fossili e l’imponente impiego delle armi. L’obiettivo principale della decarbonizzazione dell’economia, così duramente discusso nelle riunioni preparatorie e sottolineato come priorità dall’IPCC, è stato ridotto a un vago riferimento a: “le parti intendono fare in modo che le emissioni raggiungano un picco al più presto possibile” per poi “rapidamente ridurre i gas climalteranti” al fine di “raggiungere un equilibrio tra emissioni antropiche dalle fonti e l’assorbimento dei cosiddetti serbatoi nella seconda metà del secolo” (articolo 4). Di conseguenza, il picco di emissione potrebbe essere di qualsiasi grandezza, con un periodo di tempo indefinito perché si realizzi, mentre la portata del saldo tra emissioni e livelli di temperatura potrebbe essere esteso fino alla fine del secolo.
In ogni caso, l’accordo di Parigi non menziona neanche una volta che i combustibili fossili abbiano termine. Anzi, mentre il paragrafo 7 dell’articolo 6, incluso nel documento del 5 Dicembre 2015, dichiarava: “Le parti dovrebbero ridurre gli investimenti di sostegno internazionali con alti livelli di emissioni e aumentare il sostegno internazionale per gli investimenti volti a soluzioni a basso tenore di carbonio”, nella versione finale, 7 giorni dopo, quel riferimento non esiste più.
Quel che è ancor più sorprendente è che l’accordo esclude dal computo le emissioni generate dalla attività militare, dall’aviazione e dal trasporto marittimo, privilegiando soprattutto gli interessi strategici e commerciali dei paesi industrializzati. Le trattative sul riscaldamento globale hanno alla fine rimandato nel tempo che i paesi industrializzati siano vincolati all’impegno a fornire 100 miliardi di dollari ai paesi in via di svluppo, in cui vi è l’80% dell’umanità, per sostenere il loro contributo agli obiettivi dell’accordo. Eppure, secondo il SIPRI la spesa militare globale è superiore a 1.700 miliardi di dollari ogni anno. Solo gli Stati Uniti superano i 650 miliardi e l’Europa i 450 miliardi. Nel suo discorso a Parigi, John Kerry è stato particolarmente generoso nel raddoppiare l’eventuale contributo degli Stati Uniti al Fondo verde per il clima, da 400 a 800 milioni!
Secondo un’analisi congiunta dell’Istituto per lo Sviluppo Internazionale e dell’ODI, solo i paesi del G20, le prime 20 economie, canalizzano ogni anno 450 miliardi di dollari di fondi pubblici sotto forma di sussidi alle compagnie petrolifere. Durante la legislatura 2013-2014, le compagnie petrolifere USA hanno contribuito con 326 milioni di dollari ai membri del Congresso degli Stati Uniti per finanziare le loro campagne elettorali e per influenzarne le decisioni. Tra i favori ricevuti in cambio per lo stesso periodo, il Congresso ha fornito sussidi alle compagnie petrolifere per 34 miliardi di dollari.
Non desterà quindi meraviglia se l’accordo della Cop 21, nonostante sia stato diluito, non tiene più banco sulle pagine e nelle rubriche televisive e se è stato ignorato l’appello di un gruppo di 32 personalità, guidato da quattro premio Nobel, che ha suggerito di introdurre una carbon tax e di eliminare i sussidi che ora premiano l’estrazione e l’utilizzo di fonti di energia ad alta intensità di carbonio. I radar dei militari e delle agenzie di stampa “oil sensitive” registrano solo segnali sintonizzati sulla loro lunghezza d’onda.