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Petrolio, carbone e gas salveranno il lavoro?

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi 2015. Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni fa, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l’incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo. Vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve che, secondo l’Ipcc, non può andare oltre i prossimi 15 anni.

Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni – senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Donald Trump Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali a essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella Laudato Si’ e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma (mi auguro) già capace di segnali al prossimo congresso Cgil. L’accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare la strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (Tav) o lungo un litorale marino (Tap) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all’eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine “giusta transizione”, che non può che basarsi su un’attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5°C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. È d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati a una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone, petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice un’ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione Ue è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all’Ue. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Val di Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

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Libertà di parola, la solitudine del mondo operaio

Sentenza sui licenziamenti a Pomigliano

Mario Agostinelli ex segretario Gen. CGIL Lombardia

La vicenda del rilicenziamento dei cinque operai di Pomigliano da parte di FCA è noto per l’esposizione, da parte di manifestanti fuori dal loro orario e luogo di lavoro, di un fantoccio di Marchionne, che in effige si impicca da sé, dicendosi pentito per i suicidi che erano seguiti alle angherie sui dipendenti da lui segregati in un reparto confino a Nola. All’immediato licenziamento degli operai aveva fatto seguito una sentenza di reintegro da parte del tribunale di Napoli, contro cui FCA ha fatto ricorso in Cassazione.

La sentenza di questo autorevole organo della Magistratura, che ha articolato senza pretese di equidistanza le motivazioni a sostegno dell’allontanamento dei cinque dal lavoro e dal salario maturato, va considerata come un segno amaro e preoccupante dei tempi. Un segnale che va contrastato nella sostanza, per i valori di cui si fa interprete contro l’autonomia del lavoro e a favore della supremazia dell’impresa. E questa asimmetria avanza giorno dopo giorno nella solitudine del mondo operaio e proprio anche quando i contendenti continuano a confliggere aspramente. Questo avviene nella disattenzione dell’opinione pubblica e, purtroppo, in assenza, dopo l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, di un arbitro che restituisca simmetria al diritto al lavoro rispetto agli interessi dell’impresa. Vengono oggi ridefiniti nella pratica – e anche purtroppo nella più recente giurisprudenza – vincoli non più in sintonia con l’art.1 o l’art. 21 della Costituzione, come nel caso del malinteso “obbligo di fedeltà” da parte della lavoratrice o del lavoratore cui ha fatto riferimento la sentenza della Cassazione.

Diciamolo con nettezza: un obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro che non sia quello della segretezza o del know-how dell’impresa, appare come un “valore apocrifo”, tale per cui l’adesione ad un contratto di lavoro consegnerebbe le convinzioni personali al giudizio dell’impresa. Nel caso in questione si è innalzato il potere dell’azienda al di sopra dello Statuto dei Lavoratori e in contrasto con l’art. 21 della Costituzione, che tutela la libertà di opinione in ogni sua manifestazione, attuando così la rinuncia di condizionare il mercato a tutela dei lavoratori come corpo sociale dotato di diritti inalienabili una volta conquistati.

Vero è che il caso del licenziamento in ultima istanza dei cassintegrati Fiat, colpevoli di aver espresso, anche in modo brusco, dolore e rabbia per il suicidio di tre compagni di lavoro, si presenta a noi tutti come un fatto di straordinaria importanza sul piano della libertà e di quella democrazia “che ha varcato – come ripeteva Vittorio Foa – i cancelli della fabbrica”. Non si tratta, quindi, di uno sgradevole episodio di relazioni industriali o di provvedimenti attinenti ai comportamenti di questa o quella organizzazione sindacale.

 Ormai trova corso anche in settori della magistratura la rimozione dell’intralcio che il cuneo dell’art.18 della legge 300 poneva tra l’impresa e il lavoro, affidando il ruolo di arbitro nei licenziamenti senza giusta causa al potere e al rispetto della Costituzione, assicurato non dall’impresa o dal sindacato, ma dalla garanzia statuale messa in atto dal Giudice. Nella sentenza della Cassazione, che cassa, su ricorso della FCA, le decisioni del tribunale di Napoli sul reintegro dei 5 manifestanti licenziati, rimane in ombra quella responsabilità sociale fatta valere dal “terzo potere” dello stato contro il sistema delle imprese e il dispotismo padronale in fabbrica.

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“Una vita nel pallone”, di Bruno Ravasio

a cura di Piero Lucia

Una bella storia, quella raccontata da Bruno Ravasio, fluida e scorrevole che, fin dalle prime pagine, per l’efficacia e l’essenzialità, riesce a captare l’attenzione del lettore. E che forse coinvolge maggiormente in quanto non si snoda né si consuma dentro il recinto parziale della sua narrazione.

Una vita nel pallone

Non è solo la vicenda, storicamente datata, sportiva ed umana, di molti decenni fa, di Virginio Ubiali, “Gepì”, rievocata da un lembo di terra bergamasca, spicchio di un’Italia semplice, in bianco e nero, che faticosamente inizia a riprendere un cammino e ormai prossima ad epocali cambiamenti. E’ uno sguardo, quello dell’autore, che spazia con agilità – contemporaneamente e in parallelo – su altre dimensioni, su più diversi fronti. Tra fatti e vicende, politiche e sociali di quel tempo, mischiate nella trama con equilibrio e con misura. Una miscela, ben riuscita, che si collega a quanto già vissuto, negli anni appena antecedenti, in una realtà del nostro bel paese sfregiata – come tante – nell’anima e nelle carni, dal trauma lacerante della guerra.

Una ferita profonda, ancora aperta e non cicatrizzata, che è necessario ad ogni costo saturare. Impresa ardua, che avrà bisogno del massimo e appassionato impegno collettivo. Dopo l’agghiacciante fragore delle bombe, s’inizia finalmente a respirare un’aria nuova, di gaia spensieratezza, e come di vivida sorpresa, per la riconquistata libertà. Un clima nuovo, denso di un’energia vitale dirompente, che in varie direzioni si rimette in moto.

Rinascono inedite forme di partecipazione collettiva, e di socialità, iniziano a dileguarsi le angosce e le paure disseminate ovunque nel lungo tempo della dittatura e poi acuite dall’esplosione feroce e  rovinosa della guerra, che col suo enorme carico di morte, di lutti e di rovine, ha sfigurato in lungo e in largo il Bel Paese. C’è una nuova, prorompente gioia di vivere e di agire che, convulsamente, riesplode tra chi è sopravvissuto a quella dura prova! Rimuovere le macerie, materiali e morali. E’ questo l’imperativo! E’ come una frenesia, volta a rimpadronirsi di getto del pezzo di esistenza che si è perso!

Il calcio, in quello specifico contesto, sviluppa una funzione di attrazione e di collante, un ruolo diffusamente coinvolgente capace di realizzare, dentro l’immaginario collettivo, un’originale forma di coesione.  E’ uno degli strumenti, più semplici e immediati, per rimettere insieme una socialità scomposta, per ricomporre identità smarrite, uscendo dalla solitudine e dalla disgregazione, in modo da ridare una nuova vitalità alla Nazione. Una modalità, rapida e sicura, per far riemergere un grumo di speranze da troppo tempo compresse e sullo sfondo tristemente relegate.

E’ questa una possibile visione in filigrana, per ripercorrere la trama e la vicenda umana del protagonista della storia, il suo  integrale confondersi col gioco del pallone, il suo mischiarsi agli amici sui campi di gioco di provincia impolverati.

Ma  la forza del racconto  è anche nel suo essere una storia per così dire “dilatata”, non comprimibile nell’esclusiva e parziale dimensione territoriale di un piccolo, marginale borgo di provincia. Tra i vari temi, che insieme si sfiorano e convivono, a volte quasi sovrapponendosi tra loro, centrale appare quello del lavoro, strumento decisivo di riscatto per superare antiche ingiustizie e incrostazioni di un mondo e di una realtà territoriale al proprio interno ancora troppo diseguale. Sullo sfondo il contesto ambientale, le case popolari, i quartieri operai, le grandi fabbriche, il Cotonificio Legler, in cui col sudore della fronte di migliaia di uomini ci si impegna a costruire un futuro, migliore, diverso e più avanzato, per una comunità che si è rimessa in moto!

Il segno peculiare della ricerca di un possibile riscatto, umano e materiale. Tracce che s’identificano e s’integrano a pieno con l’uomo che gioca col pallone, a cui si affidano speranze inconfessate, aspirazioni di vita ed ansie di riscatto. Nella comunità di Ponte San Pietro non c’è ragazzo che non vorrebbe anche solo in parte identificarsi in lui!

Il testo di Ravasio è in tal senso – e non a caso – denso di  molteplici, successive suggestioni. Un campo di calcio di provincia, uno dei tanti, sterrati e polverosi di un angolo d’Italia degli anni ’50, su cui per ore ciurme di ragazzini scalzi e impolverati rincorrono un pallone. Ponte San Pietro, nella lontana provincia bergamasca, un campo minore della Serie D, nella stessa zona della maggiore squadra locale, l’Atalanta, con le orgogliose casacche nerazzurre. La squadra di Ponte San Pietro non può certo essere eguale alla squadra maggiore di Bergamo e tuttavia nelle sue fila annovera Virginio Ubiali, il “Gepì”, autentico, inarrivabile funambolo.

E’ un numero 10 naturale, capace delle più impensate acrobazie, che intercetta la sfera col sinistro fatato di una calamita, e che disegna molteplici parabole di una bellezza rara. Nelle giornate di particolare ispirazione finanche irride senza ritegno l’avversario. Un giocoliere, che si esibisce con l’abilità degna di un virtuoso acrobata di circo. Ricorda in miniatura uno dei più grandi giocatori di calcio di quei tempi, un altro 10, un argentino vestito di casacca bianconera, che con Maschio e Angelillo comporrà  l’ineguagliabile trio degli “Angeli dalla faccia sporca”.

L’estroso gioiello di Ponte San Pietro era assurto agli onori della cronaca locale piuttosto tardi nel tempo, a 30 anni di età. Proveniva da una famiglia povera e modesta e per vivere era stato costretto a fare l’operaio alla Caproni. La sua vera, inesauribile passione era però quella di tirare calci ad un pallone, nei modi più imprevedibili e impensati, mirando da ogni direzione verso la porta con precisione estrema.

Ponte San Pietro, ed il legame fortissimo col luogo in cui era nato e dove era cresciuto, un rapporto profondo e indissolubile, col tempo rafforzato e mai venuto meno. Aveva bighellonato, da calciatore con scritto nel destino di diventare un gran campione, tra i più diversi luoghi, Novara, Biella, Crema, Lecco. E tuttavia ogni esperienza vissuta da professionista, pur ripagandolo dal punto di vista materiale, finiva per riportarlo al punto di partenza, nel luogo da cui aveva mosso i primi passi.

Una calamità, e forse un’autentica condanna, da cui misteriosamente non riuscirà mai a sottrarsi in alcun modo. Un punto dello spazio, che occupa in ogni poro la tua anima, da cui più ti allontani più ti richiama a sé. Fuori dal suo contesto “ Gepì” finiva puntualmente preda della tristezza e della malinconia! Per questo, alla fine, ritornava sempre al suo paese!

In conclusione, una storia semplice, una storia vera. Ed un insegnamento. La felicità non ha prezzo e non la si può acquistare solo col danaro! E’ più importante l’armonia col proprio io, attraversare il tempo che ci è dato con gli amici cari della gioventù, coi quali continuare a condividere, con naturalezza, le esperienze e le scelte di vita più importanti. E non ha prezzo il vivere  dentro le strade ed i quartieri del tuo piccolo borgo cittadino, dove conosci tutti, in quella dimensione che ti è cara, di cui respiri a pieno l’aria ed il valore col vero significato di ogni cosa. Nell’angolo di mondo, per davvero tuo, che è sempre pronto a raccoglierti di nuovo. E’ questo  ciò che vale, e che ti consente di sentirti ancora vivo e vero! Altro è superfluo, se ne può fare a meno. E’ questo l’ancoraggio di realtà, più intima e più piena, che mai nessuno in alcun modo ti potrà sottrarre! Il lieve sogno, che dentro di te continua ininterrotto a vivere e a pulsare, neanche il più grande mare burrascoso lo può portare via….

Bruno Ravasio, Una vita nel pallone, Lubrina Editore, 2014

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Reddito minimo: appello al Parlamento

Come cittadini ci rivolgiamo al Parlamento che ci rappresenta. Amiamo il nostro paese, vorremmo una società giusta e solidale. Non è quella che ci circonda. Nella Repubblica fondata sul lavoro il tasso di disoccupazione ufficiale (ben superiore è quella reale) a gennaio 2015 era pari al 12,6 %, quella dei giovani tra i 15 e i 24 anni è in Calabria al 56,1% , in Basilicata al 55,1% e in Sardegna al % 54,2 ( dati istat del 2013), al 41,4% per le donne, di 2,4 punti superiore a quella degli uomini.

Come ignorare che in quelle terre del Sud un giovane su due non ha lavoro, non ha futuro? Nel Mezzogiorno è quasi 5 volte superiore al resto del paese. Non sono numeri, fredde percentuali, sono sofferenze esistenziali, di persone reali private di diritti e di ogni possibile strategia di vita. Per loro sono abrogati gli articoli della Costituzione: 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale… E’ compito della Repubblica (cioè vostro, di voi parlamentari che fate le leggi) rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo delle persona umana…” e 4 “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Come è possibile ignorare questa drammatica realtà, rimuoverla .

Come non vedere, non sentire quanto grava sulla coscienza di tutti noi (e vostra che fate le leggi e del governo) il dramma della povertà, che è la conseguenza della disoccupazione?
E’ a rischio povertà (dati Istat del 2013) il 28,4 % della popolazione. Il 12,6% era i condizioni di povertà relativa (10 milioni e 48 mila) e 9,9 % (6milioni e 200mila) assoluta. Cresce la speranza di vita, ma declina la speranza di pensione. Che vita sarà?
Per loro non c’è democrazia, se non c’è per loro, non c’è per nessuno. Per loro non c’è Costituzione. Non c’è libertà se non c’è libertà dal bisogno. E non c’è dignità.

Noi, cittadini, non vogliamo tacere, non vogliamo girare lo sguardo altrove, noi sappiamo che l ‘indifferenza è complicità. Non vogliamo essere complici della crisi della democrazia e della convivenza civile, del tradimento dei valori della Costituzione.
Per questo ci rivolgiamo a voi, che fate le leggi. Leggi che dovrebbero a tutti garantire vita dignitosa e libera. Leggi che non ci sono, perché domina la dura legge dell’oligarchia delle multinazionali e del mercato, che rafforza privilegi e cancella i diritti. Leggi, che invece, come proposte, ci sono, nascoste nei polverosi cassetti di Camera e Senato.

Sono le proposte di legge per garantire sussistenza dignitosa a chi è in attesa del lavoro. Le hanno espresse forze sociali e politiche che con partecipazione civile sentono proprie le difficoltà di una parte tanto vasta della popolazione, del nostro paese. E’ stata presentata una legge di iniziativa popolare, oltre 100 mila firme, per il reddito minimo garantito (raccolsero le firme il Prc, Sel , la Fiom e altre forze) , senza nessun riscontro vostro, che ci rappresentate. Il Movimento 5 stelle ha presentato una legge dal titolo “Reddito di cittadinanza (“riguarda 10 milioni di cittadini sotto la soglia di povertà. Libera l’Italia dal voto di scambio. Non è una misura assistenzialista. In 3 anni formiamo il cittadino. E se rifiuta 3 proposte di lavoro, perde il reddito.” Di Maio, vice presidente della Camera). Anche SEL ha presentato una legge. SEL e M5S hanno inoltre avviato un confronto sulle rispettive proposte orientato alla convergenza con la proposta di Libera, segno assai positivo di superamento delle divisioni tanto frequenti in passato.
La Fiom ha elaborato una proposta che rilancia il valore del lavoro, contrasta la precarietà, tende a ricomporre unità tra chi non ha lavoro e tra lavoratori e lavoratrici. La proposta di Libera si colloca all’interno di una campagna contro la povertà e si propone di introdurre “la misura del reddito minimo, in quanto misura di intervento sociale pro attiva.”
Analogo impegno su questo terreno è espresso da esponenti della minoranza PD. E molte altre forze sociali e politiche sostengono questo obiettivo. Ciò che manca è la volontà del Parlamento di affrontare questo ordine di problemi.

A voi ci rivolgiamo, a voi che dovreste fare buone leggi, chiedendo che le proposte nel merito vengano discusse, confrontate e venga finalmente varata una legge che dia soluzione a questo dramma, il più grave tra tutti, che sta scuotendo le fondamenta stesse della tenuta sociale ed erode la democrazia. E’ vostro compito, eletti dal popolo, “adempiere con disciplina ed onore… alle funzioni pubbliche che vi sono state affidate “(art. 54) nel rispetto della Costituzione. Noi non vogliamo tacere, e voi ? I valori della dignità della persona e dell’eguaglianza sono i cardini della Costituzione. Fate che siano rispettati e non traditi. Fate una buona legge, voi che fate le leggi.

Vittorio Agnoletto, Mario Agostinelli, Roberto Biorcio, Franco Calamida, Paolo Cagna Ninchi, Mattia Calise, Anna Camposampiero, Beppe Caravita , Luciana Castellina, Luigi Ferrajoli, Dario Fo, Francesco Forcolini, Massimo Gatti, Luca Gibillini, Giulio Leghissa, Emilio Molinari, Dijana Pavlovic, Silvano Piccardi, Paolo Pinardi, Matteo Prencipe, Anita Sonego, Guglielmo Ragozzino, Basilio Rizzo, Erica Rodari.

Per adesioni, collettive o individuali : redditoedeguaglianza@gmail.com

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Lavoro, precarietà e nuovo schiavismo: quale Europa?

11maggio201411 maggio 2014, ore 16.00
Nova Milanese (Monza) – Auditorium Comunale – Piazza Gio.I.A. – via Giussani

Gianni Rinaldini, Scenari e prospettive del lavoro in Italia

Argiris Panagopoulos, La distruzione del lavoro in Grecia

Daniela Padoan, Il razzismo contro i poveri e la nuova schiavitù

Stefano Sarti, Ambiente e lavoro – oltre la contraddizione

Pino Viola, Precariato in Italia

Guido Viale, Lavoro e riconversione ecologica

Mario Agostinelli, Scenari per l’Europa

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