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Liguria e Genova nel mirino della procedura europea di infrazione per inquinamento

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Anche Liguria e Genova finiscono nel mirino della procedura europea di infrazione per livelli troppo elevati di inquinamento. A questa notizia si aggiunge l’incidenza di malattie e decessi non distribuiti con regolarità sul territorio comunale: nelle periferie, infatti, si registra una percentuale di tumori molto più alta di quella dei quartieri abitati da persone più abbienti.

Di fronte a questa situazione le maggioranze che governano la Regione e il Comune sono inerti. La Regione Liguria non finanzia da anni l’anagrafe delle emissioni che è ferma al 2011. I dati non aggiornati dimostrano che per gli ossidi di azoto e le polveri sottili (principali fonti in merito alle quali scatterà la pesante multa della Ue) proviene da attività portuali e aeroportuali. Situazione che non ha subito una modifica sostanziale se non nel periodo in cui la centrale Enel in Porto è stata chiusa e che ora si vorrebbe addirittura riavviare.

Di fatto le misure elaborate dalla giunta Doria per limitare l’inquinamento a Genova, non solo non sono mai entrate in vigore, ma si sono concentrate sulla circolazione di motori vetusti: problema certamente da affrontare, ma che riguarda solo marginalmente il problema dell’inquinamento. La stessa ordinanza della Civica Amministrazione al riguardo ammette che le misure contenute non avrebbero avuto riflessi consistenti su porto, aeroporto, traffico autostradale e extraurbano, e tanto meno sui cantieri di Grandi Opere.

Le incongruenze non finiscono qui: il Seap (Piano d’Azione Strategico per l’Energia) del Comune di Genova affronta solo marginalmente il tema del trasporto pubblico e contempla – catalogandolo come intervento per la riduzione dei gas serra – la costruzione di un gassificatore alternativo agli inceneritori. Peccato però che tutti gli ultimi piani industriali per la gestione dei rifiuti non prevedano mai la chiusura del ciclo attraverso un gassificatore…. La situazione, oltre che grave in sé per la salute dei cittadini, è talmente oltre limite da venire sanzionata e drammatizzata da una multa europea.

Anzi, proprio in relazione al ciclo dei rifiuti si è svolto il 7 febbraio un drammatico consiglio comunale che ha bocciato la proposta di fusione tra Iren Ambiente (multiutility interregionale) e Amiu (agenzia dei rifiuti comunale) che avrebbe avuto come conseguenza la privatizzazione di quest’ultima e l’implicita destinazione dei rifiuti genovesi agli inceneritori di Parma e Reggio gestiti da Iren.
Marco Doria ha minacciato le sue dimissioni: un errore che speriamo non venga messo in atto, dato che coprirebbe in tal modo un gioco che per primo dovrebbe rifiutare. Privatizzazioni e inceneritori sembrano l’arma che le multiutility ex pubbliche sfoderano di fronte alla crisi dei cicli energetici e ambientali una volta controllati dalle amministrazioni sul territorio. E’ il caso anche di A2A in Lombardia, sempre più avviata a consolidare “termovalorizzatori” e teleriscaldamento in contraddizione con la raccolta differenziata e l’abbandono dei combustibili fossili.

In qualità di ufficiale sanitario del governo, di sindaco di Genova, di presidente della Città Metropolitana, è urgente che Doria indichi un tavolo permanente e partecipato per affrontare in termini globali il problema, e sulla base di risultati e proposte chieda con forza interventi straordinari governativi, oltre ad adottare misure urgenti (come ad esempio bloccare lo stillicidio di eliminazione di corsie riservate per i bus) e mettere in campo tutte le ordinanze necessarie a migliorare la qualità dell’aria (ma anche dell’acqua e del suolo) a tutela della salute degli abitanti.

C’è poi una disorganizzazione tipica della sovrapposizione degli enti locali nell’attuale incertezza di ruoli dovuti alla soppressione alquanto caotica delle Province. Per conto proprio, la neonata Città Metropolitana fornisce dati provenienti dalle sue centraline di monitoraggio, spesso posizionate per accertare solo le emissioni stradali e non quelle delle industrie e dell’attività del Porto. Una palese inefficienza, che si aggrava nel momento in cui vengono messi in mobilità 19 dipendenti della ex-polizia provinciale, sguarnendo pesantemente l’attività di controllo ambientale.

Purtroppo questa è una situazione che non riguarda solo la Liguria, ma tutte le aree italiane affette da un inquinamento strutturale, che proprio in questa stagione si fa più tragico.

E’ urgente una decisa conversione ecologica e sociale dell’economia, che stenta non solo a partire, ma anche ad essere presa in considerazione dalla politica e dalle amministrazioni. Finanziare, aiutare produzioni di energia non inquinanti, sviluppare una città dove le ricchezze (e i ritmi di vita) vengano sottoposti a redistribuzione è un sogno che era perfino delineato nel piano energetico presentato a Bruxelles dalla città di mare. Genova, tra i progetti esaminati, risultò la metropoli italiana più attenta ad affrontare una difficile eredità di polo industriale, al punto di meritare il premio per il Seap migliore d’Italia.

Ma senza un inventario aggiornato delle fonti di inquinamento e un piano di azione scandito da priorità e da coinvolgimento pieno della popolazione, dei lavoratori e dei soggetti responsabili, i buoni propositi non si realizzano mai e rimangono sulla carta.

di Mario Agostinelli e Antonio Bruno

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Referendum: rottamare gas e petrolio? Ma scherziamo?!

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015L’impegno di quegli accaniti sostenitori delle installazioni in mare che, ancora anneriti dai fumi del petrolio e del gas pompato dalle trivelle, sbraitano in TV per i posti di lavoro che andrebbero persi, male si attaglia all’ammirazione che gli stessi manifestano per un futuro fatto di smartphone di ultima generazione e per la “manifattura 4.0”, tutta impreziosita – a loro dire – di robot luccicanti, di software inodori e di pochi addetti, abbigliati in tute impeccabili con il brand della ditta. Una incoerenza, la loro, che si spiega col fatto che dietro l’oro nero che sgorga dal mare si cela la prosaica e sempiterna propensione a cercare affari attraverso le lobby attrezzate a stabilire le connessioni tra economia e politica mediante il familismo e l’intramontabile geometria del cerchio magico.

Non si direbbe il momento giusto per procrastinare la filiera delle fonti fossili dopo l’ammonimento della Cop21 di Parigi che, pur con limiti evidenti per mancanza di controlli e di vincoli cogenti per il contenimento delle emissioni, auspica un limite di 1,5 gradi di aumento della temperatura media terrestre entro il 2050. E ancor più temeraria si direbbe l’insistenza per l’estrazione di gas e petrolio in un mare tra i più belli e fruibili d’Europa, così come l’ammodernamento della più estesa e voluminosa piantagione idrocarburica di terraferma in Europa, con la disseminazione di pozzi di Total e Shell per le colline che circondano il Monte Vulture, scavando e perforando accanto ai filari dell’Aglianico, ai fagioli di Sarconi, le melanzane rosse di Rotonda, i peperoni gialli di Senise e il caciocavallo (lo dicono tutti i visitatori) più buono del mondo.

Ma, se le emissioni di climalteranti vanno ridotte, il petrolio è ai minimi e le royalties che può riscuoterne il governo pure e, per di più, si rischia su paesaggio e qualità dell’ambiente in cambio di pochi, improbabili e temporanei posti di lavoro, che vantaggio ci sarà mai per giustificare lo sconquasso dovuto a pozzi e trivelle? E se, oltre l’esiziale questione ambientale, ci sono sospetti e indagini che riguardano elementi di corruzione, diventa allora commendevole, dopo gli ipocriti apprezzamenti rivolti alla Laudato Sì e la condivisione dell’allarme lanciato da 135 Paesi sottoscrittori dell’accordo di Parigi, la difesa a tutto campo del sito petrolifero di Tempa Rossa. E, nondimeno, di un emendamento, oggetto di una tempestiva e disonorevole comunicazione del ministro dello Sviluppo al fiduciario della Total.

Le attenzioni per il greggio italiano non rappresentano semplicemente un ‘caso Guidi’, come è stato frettolosamente catalogato dai media. C’è tutta una successione di eventi che dà il segno di una politica energetica del governo estranea agli interessi del paese, subalterna a vecchie logiche e interessi e contrapposta alla svolta invocata dalla crisi climatica in corso. Il passaggio da una strategia di conservazione, con un sistema centralizzato di produzione, ad un’alternativa energetica che conti sul risparmio, la micro-generazione e il coinvolgimento delle comunità locali, richiede discussione e democrazia. Solo se le si vuole evitare, si spiegano la disinvoltura con cui il referendum del 17 aprile è stato indetto in tempi impraticabili per un dibattito autentico; l’invito ai cittadini di disertare le urne; l’impedimento ai parlamentari, trattenuti a Roma anche la settimana ventura, di partecipare ad una campagna elettorale come auspica la Costituzione.

Siamo nel mezzo di una crisi energetica, forse la più importante nella storia dell’umanità, in cui le contraddizioni interne al sistema dominante non possono più essere risolte ristrutturando il sistema tale e quale, ma inducono ad un periodo di transizione caratterizzato da instabilità e oscillazioni sempre più estreme tra varie alternative possibili di uscita dalla crisi. Molte evidenze ci dicono che stiamo andando verso la svolta: il risultato delle pressioni dei cittadini diventa coerente e ci si dirige verso un sistema energetico differente, socialmente e ambientalmente- e non solo economicamente – desiderabile. Ciò che dovremmo fare è innanzitutto cercare di comprendere in modo analitico ciò che sta succedendo. È indispensabile uno sforzo di analisi per collocare le nostre scelte nel presente, affinché le cose prendano il corso meno sconsigliabile. Pertanto, meglio rischiare di rottamare qualche trivella, che rinunciare al diritto e alla libertà di contribuire votando ad un futuro auspicabile.

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Referendum del 17 aprile

Il 17 aprile 2016 saremo chiamati alle urne per un referendum contro la durata indefinita delle trivellazioni per combustibili fossili a mare, entro le dodici miglia marine.

Breve nota per approfondire il tema a cura di Roberto Meregalli

IL QUESTITO REFERENDARIO

“Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ‘Norme in materia ambientale’, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: ‘per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale’ ?”

L’art. 6, comma 17°, del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i. stabilisce:
“Ai fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, all’interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in virtù di leggi nazionali, regionali o in attuazione di atti e convenzioni internazionali sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonchè di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare, di cui agli articoli 4, 6 e 9 della legge 9 gennaio 1991, n. 9.

Al di fuori delle medesime aree, le predette attività sono autorizzate previa sottoposizione alla procedura di valutazione di impatto ambientale di cui agli articoli 21 e seguenti del presente decreto, sentito il parere degli enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle attività di cui al primo periodo. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano ai procedimenti autorizzatori in corso alla data di entrata in vigore del presente comma. Resta ferma l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati alla stessa data. Dall’entrata in vigore delle disposizioni di cui al presente comma è abrogato il comma 81 dell’articolo 1 della legge 23 agosto 2004, n. 239”

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referendum 17 aprile

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Trivelle, nucleare e shale gas: che brutta Europa

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Niente election day per il referendum No Triv: il Consiglio dei ministri ha infatti fissato al 17 aprile la data della consultazione e  risolutamente e da par suo – Mattarella ha confermato. Sfuma dunque l’ipotesi di accorpare referendum e primo turno delle elezioni amministrative e di garantire così una conoscenza adeguata ai cittadini, facilitando la partecipazione democratica senza moltiplicare inutilmente gli appuntamenti degli italiani alle urne. Cerchiamo di capire come e chi vuole rendere ininfluente un referendum che, come nel caso del nucleare, imporrebbe questa volta una svolta nel ricorso alla combustione delle fonti fossili.

A dicembre si è conclusa a Parigi la Cop 21, con il riconoscimento unanime, almeno sulla carta, della necessità di decarbonizzare in tempi stretti l’economia mondiale. Al pari delle gride manzoniane l’appello, ancorché sottoscritto dai personaggi più illustri, ha lasciato via libera allo scorrazzare dei bravi.

Di lì ad un mese si è riunito il Davos Club. In esso trovano adeguata rappresentanza le 62 persone (nel 2010 erano 388, nel 2014 si erano già ridotte a 80, con un trend di concentrazione impressionante) che possiedono più della ricchezza di 3,6 miliardi di cittadini del mondo (la metà degli abitanti del pianeta) e che, scambiandosi i loro biglietti da visita assistiti da apparati statali, economici e mediatici del massimo livello, puntano a tenere le redini della civiltà della globalizzazione. Da lì è ripartito il suggerimento di applicare le tecnologie più avanzate per procrastinare l’impiego di petrolio, carbone e gas e di mascherarne gli effetti, al fine di sostenere la cosiddetta “rivoluzione industriale 4.0”, in cui robot, intelligenza artificiale e energia a basso prezzo – anche se sporca – dovrebbero risparmiare manodopera e rinnovare la crescita economica. Quindi, investimenti in nuovi gasdotti, trivelle in mari cristallini, pozzi di perforazione per gas di scisto in terreni ormai traforati come un gruviera.

Renzi, incantato dai tweet, dai CEO, come da tutte le rivoluzioni a 2.0, 3.0, 4.0 e così via, ha pensato che qualche concessione di licenza per trivellare i nostri mari valesse bene i 300 milioni di euro che usciranno di tasca non accorpando le scadenze elettorali. Purtroppo, si dimentica che è stato il settore bancario, accanto all’energia, alle materie prime e alle industrie di base afflitte da un eccesso di capacità, a guidare la caduta delle Borse e che la politica economica ha, quella sì, bisogno di innovazione.

Che l’andamento per le fonti fossili non sia entusiasmante, lo si può vedere anche dal trend di declino di carbone, nucleare e gas in Europa, se si guarda alle centrali andate in pensione: nel 2015 si sono fermati o dismessi impianti a carbone per oltre 8 GW, a gas per 4,2 GW, a olio combustibile per 3,3 GW e da fonte nucleare per 1,8 GW. Il nostro Governo, che fa di prammatica la voce grossa a Bruxelles, sulle questioni energetiche va invece completamente a ruota delle lobby continentali che premono su una Commissione ormai smarrita, anche sulla questione climatica. Tutto sembra nascere e decidersi in luoghi ristretti di cui le popolazioni non sono informate.

La Commissione europea ha varato un piano di importazione di gas naturale liquefatto (GNL) e tutti hanno pensato alla imprevista disponibilità di creare infrastrutture per importare gas da fracking USA, al fine di ridurre la dipendenza dalla Russia. Anche se l’accordo di Parigi era stato salutato come un chiaro segnale al mercato che l’era dei combustibili fossili inquinanti era finita, è la politica che si è messa a rilanciare! Eppure il gas naturale – da fracking in particolare – è anche in gran parte composto di metano, un gas serra che ha 86 volte il potenziale di riscaldamento globale del biossido di carbonio. La produzione di energia elettrica a gas è solo un bene per il clima rispetto alla produzione da carbone se eventuali perdite di metano nella produzione, raffinazione e trasmissione, è inferiore al 3,2%. Ma i rilevamenti dei tassi di emissione via satellite hanno recentemente dimostrato che le concentrazioni di metano sono aumentate drasticamente in molte delle principali regioni produttrici di shale gas negli Stati Uniti. Tenuto poi conto che il trasporto avverrebbe via nave, il bilancio delle emissioni diventa insostenibile secondo l’accordo di Parigi.

Infine, va ricordato come un rilancio o un ricondizionamento delle centrali nucleari in Europa sia reso improbabile dai costi e dai rischi. Un documento della Commissione ancora non pubblicato, ma reso noto da Reuters, rivela che l’Europa è in deficit di 118 miliardi di euro per lo smantellamento delle sue centrali nucleari e la gestione dello stoccaggio delle scorie. Infatti, la stima prevista per l’intera operazione è di 268,3 miliardi di € a fronte di riserve nei Paesi per 150,1 miliardi di €. Solo la Germania ha accantonamenti sufficienti, mentre la Francia ha un deficit di 51 miliardi.

La sospensione del programma nucleare in Italia a seguito del referendum risulta oggi una autentica benedizione per una economia in crisi come la nostra. Ragione in più perché i cittadini non stiano a guardare ma, di fronte a governanti così imprevidenti e senza bussola, vadano davvero tutti a votare il 17 Aprile, a dispetto degli inciampi e della disinformazione che vorrebbero frapporre tra casa nostra e le urne.

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COP 21: Riduzione emissioni o barbarie – incontro a Genova

Venerdi 11 dicembre ore 17.00

Salone Rappresentanza Palazzo Tursi, v.Garibaldi 14 – Genova

I cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche, e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità.

Gli impatti più pesanti probabilmente ricadranno nei prossimi decenni sui Paesi in via di sviluppo, dove molte popolazioni vivono in luoghi particolarmente colpiti da fenomeni connessi al riscaldamento, e i loro mezzi di sostentamento dipendono fortemente dalle riserve naturali e dai cosiddetti servizi dell’ecosistema, come l’agricoltura, la pesca e le risorse forestali.

La scienza e la tecnologia non sono neutrali, dipendono dalle scelte politiche ed economiche.

Nessuno vuole tornare alla preistoria, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, abbandonando al tecnologia basata sui combustibili fossili, per un’economia basata sulal giustizia e la redistribuzione delle ricchezze.

L’attuale sistema economico energivoro, oltre a distruggere l’ambiente e a sfruttare i lSud del mondo, causa diseguaglianze e povertà anche nelel nostre città.

E’ necessaria una riconversione ecologico-sociale dell’economia.

Cosa sta succedendo alla Confernza di Parigi? In Italia e in Liguria a che punto siamo?

Ne parliamo con

Mario Agostinelli, ecologista, politico e sindacalista

Dott.ssa Maria Fabianelli, Direttore Divisione Energia IRE S.p.A, Agenzia Regionale Ligure (Il progetto COOPENERGY: la Governace multi-livello nella pianificazione energetica)

Enrico Pignone, Consigliere delegato all’Ambiente della città Metropolitana di Genova

COP 21: Riduzione emissioni o barbarie

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