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La sfida abbandonata?

a cura di Roberto Meregalli

Continua a crescere nel mondo l’energia “verde” ma l’Europa appare in affanno

 

Presentando il mese scorso l’annuale rapporto sui paesi in cui le rinnovabili “corrono” e in cui conviene investire, Ben Warren (di Ernst & Young Energy & Environmental Finance) ha parlato di resa da parte del vecchio continente.
Nell’indice Recai 20152 (Renewable Energy Country Attractiveness Index) solo la “testarda” Germania difende il quinto posto, scivolano in basso Francia (ottava), Regno Unito (tredicesimo), Olanda (diciassettesima), Belgio (ventesimo). L’Italia non scivola perché sprofonda al ventiseiesimo posto, eravamo al quinto nel 2012!

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Cover La sfida abbandonata 2016

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Clima, guerre e migrazioni. Ecco il 2 giugno

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Abdul Aziz, 35 anni, è trascinatore di risciò a Dacca, capitale del Bangladesh. Ha perso tutti i suoi averi per le inondazioni del fiume Meghna. Aziz aveva una bella casa e una grande quantità di terra arabile. L’erosione del fiume gli ha strappato tutto il terreno coltivabile ed è stato costretto a rifugiarsi in una baraccopoli senza servizi e scuole e l’intera sua famiglia non ha di che sostentarsi. Secondo gli scienziati il Bangladesh è uno dei paesi al mondo più vulnerabili ai cambiamenti climatici e all’aumento del livello del mare, che ha già costretto milioni di persone a lasciare villaggi semi sommersi.

Il ciclone Sidr, nel novembre 2007, ha innescato un’ondata di marea alta cinque metri nella fascia costiera e si è portato via 3.500 morti, provocando due milioni di sfollati. Nel maggio 2007, un altro devastante ciclone, Aila, ha colpito la costa uccidendo 193 persone e lasciando un milione di senzatetto. Quasi tutti i migranti non tornano più ai loro luoghi di origine. Da 50.000 a 200.000 persone, ogni anno, lasciano le loro terre là dove sfociano Gange, Brahmaputra e Meghna, con la previsione che, se il livello del mare aumentasse di un metro, come previsto entro il 2060, circa 20 milioni si sposteranno per sempre.

La questione è stata sollevata al vertice mondiale umanitario a Istanbul il 23-24 maggio. Oggi, a seguito delle previsioni realistiche di cambiamento climatico, sono valutati in 130 milioni le persone più vulnerabili in disperato bisogno di assistenza nel mondo, che si aggiungono ai 50 milioni già fuoriusciti fino ad oggi. Il Vertice di Istanbul è il frutto di un lungo processo di consultazione durato tre anni, che ha coinvolto oltre 23.000 soggetti interessati ed ha registrato la presenza di 9.000 partecipanti provenienti da 173 paesi. A dispetto di tutto ciò, i massimi leader dei sette paesi più industrializzati (G7), e dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sono stati tutti a casa: tra questi solo Angela Merkel, dimostrando maggior lungimiranza, è intervenuta. Il nostro premier Renzi si strizzava la cravatta altrove, in una delle sue incessanti conferenze stampa in giro per il mondo dove, a prescindere dall’argomento di partenza, finisce irrimediabilmente per incrociare i guantoni con la minoranza del Pd e tutti quelli che non capiscono che il futuro cambia… se si vota Sì al referendum!

Nonostante il silenzio dei nostri media (ne ha giusto parlato il Papa da piazza San Pietro) il vertice è riuscito a inviare un campanello d’allarme senza precedenti della sofferenza umana: purtroppo non ha raggiunto l’obiettivo di attrarre i fondi massicci necessari per alleviare il dramma umanitario, in quanto nessuno dei leader assenti ha battuto un colpo. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha espresso forte “delusione”, visto che “le risorse necessarie per salvare la vita di decine di milioni di esseri umani rappresentano solo l’1% della spesa militare mondiale totale. Il vertice ha portato alla ribalta dell’attenzione globale la portata delle modifiche richieste, se vogliamo affrontare la grandezza delle sfide davanti a noi. I partecipanti hanno reso enfaticamente chiaro che l’assistenza umanitaria da sola non può né affrontare adeguatamente né ridurre le esigenze di oltre 130 milioni di persone tra le più vulnerabili del mondo”.

Un nuovo e coerente approccio si basa sulle cause profonde, mantenendo le promesse della Cop 21 di Parigi già dimenticate, aumentando la diplomazia politica per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti, e compiendo ogni sforzo di costruzione della pace. L’azione umanitaria non può essere un sostituto dell’azione politica, dato che in realtà, la maggior parte dei flussi di rifugiati del mondo riguardano o “rifugiati climatici” – coloro che fuggono la morte causata da siccità senza precedenti, inondazioni e altri disastri in gran parte causati dai consumi energetici dei paesi più industrializzati – o sono risultati diretti di guerre in cui i paesi del G7 e gli stati permanenti del Consiglio di sicurezza, tranne la Cina, sono coinvolti.

Jan Egelend, che dirige il Norwegian Refugee Council ed è anche il Consigliere speciale di Staffan de Mistura, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, ha detto che la comunità internazionale ha bisogno di una “lista nera” di qualsiasi gruppo o qualsiasi governo che contribuisce all’allargarsi delle guerre fornendo armi, bombe, velivoli. Dopo aver firmato di corsa a New York l’accordo sul clima senza nemmeno un impegno quantitativamente verificato in un dibattito parlamentare, dopo aver partecipato “per motivi umanitari” ad ogni spedizione militare che si fosse delineata all’orizzonte ed aver registrato che nulla ha gettato discredito sull’Europa più del comportamento erratico dei governi nazionali e dell’Ue di fronte al massiccio flusso di immigrati disperati, non sarebbe il caso di uscire dalla retorica e dedicare ai rifugiati e alle ragioni profonde e tragiche delle morti in mare l’articolo 11 della Costituzione – quello sul diritto alla pace – proprio mentre il 2 Giugno si osserva lo sfilare degli eserciti ai Fori Imperiali?
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Oltre il referendum del 17 aprile

a cura di Mario Agostinelli

Siamo nel mezzo della crisi energetica più rilevante nella storia dell’umanità. Se per gioco volessimo rappresentare con una novantina di illustri individualità a nostra scelta – da Pitagora a Pericle a Cesare a Carlo Magno a Marco Polo a Napoleone a Einstein a Obama – le generazioni che succedendosi hanno “plasmato la memoria” su cui risiede la nostra civiltà occidentale (90 personalità x 25 anni a generazione =2250 anni di storia), quanti nuovi personaggi potremmo prevedere che possano salire d’ora in avanti su un palco siffatto? A detta del mondo scientifico più responsabile e accreditato non più di quattro o cinque, se si limiteranno a replicare il “business as usual” nelle politiche energetiche, sfasciando irrimediabilmente la ribalta in seguito agli effetti irreversibili di esse sul clima. Molti e molti di più, invece, se risulteranno dall’interpretazione di una svolta radicale rispetto all’odierno sistema fossile centralizzato e asseconderanno la cittadinanza globale nella consapevolezza della priorità delle ragioni della biosfera su quelle della geopolitica.

Occorre riconoscere che siamo in una fase nella quale le contraddizioni interne al sistema energetico dominante non possono più essere risolte ristrutturando il sistema tale e quale. Questa sarebbe la strada più facile da percorrere, ma pure la più irresponsabile, anche se parrebbe quella privilegiata da chi misura il futuro sulle scadenze elettorali (sono, verosimilmente, i casi recentissimi di Renzi con il boicottaggio del referendum, di Cameron con l’impegno a mantenere i 10.000 addetti britannici al carbone, dei premier di Polonia e Ungheria con le dichiarazioni di dar fondo senza alcun riguardo alle loro riserve di lignite).

Le soluzioni alternative che si fronteggiano e che hanno alle spalle culture di solide radici (quella ereditata dall’Illuminismo e dalla rivoluzione industriale e quella più recente definita “dell’ecologia integrale”) e non banali opportunismi, si caratterizzano per valutazioni che si situano in scale temporali e in un rapporto con la natura assai diversi.

C’è quella che si ostina a mantenere in vita il presente nella illusione che le previsioni sul cambiamento climatico non siano confermate e che il trascorrere del tempo venga sanato miracolosamente dal ritrovamento di soluzioni tecnologiche oggi non alle viste. Una ideologia dichiaratamente antropocentrica, prima che una proposta di rimedi provati, nata nella presunzione di risanare a valle la devastazione dei processi biologici e naturali compromessi per tempi incommensurabili dal ricorso a fonti di energia sempre più intense (il nucleare in primo luogo) e con effetti mascherati nell’immediato (il sequestro di CO2, la liberazione di metano per il petrolio nell’Artico, il confinamento delle scorie). In sintesi: crescita in economia e impiego di trasformazioni energetiche che prescindono dalla compatibilità con il sistema vivente.

C’è, dall’altra parte, l’opzione di trasformare su scala territoriale diffusa le fonti naturali, riducendo strutturalmente attraverso esse i tempi dell’intero ciclo di fornitura (trasporto e distribuzione in particolare), migliorandone costantemente l’efficienza, superandone gli svantaggi di intermittenza e compensazione con sistemi e reti digitali, considerandone l’eccezionale curva di apprendimento che ne abbassa continuamente i costi, rimarcandone la capacità di creare lavoro stabile anche in assenza di crescita e mettendo in rilievo infine la compatibilità dei processi che le utilizzano con l’estensione di un governo democratico dell’economia su base regionale e territoriale. Lo sfruttamento delle fonti rinnovabili – al contrario del percorso ipertecnologico per “rendere puliti” (?) i settori del fossile e del nucleare – si inserisce, agendo a monte, in una dimensione temporale in sincronia con la natura, i suoi cicli, la sua capacità di rigenerazione e si può sottoporre ad un esteso e efficace controllo sociale.

Se non ci si schiaccia sulla tattica politica del momento (e io non sono interessato a seguire il Presidente del Consiglio nella riduzione di temi di questo rilievo alle mene interne al PD) occorre essere già oggi fuori dalla difesa dell’esistente e non firmare con una mano a New York l’accordo Cop 21 e rilasciare con l’altra crediti alle corporation di gas e petrolio. Se, come indica l’intesa di Parigi, pur con le sue ambiguità e lacune, ci si vuole collocare dalla parte della seconda tra le opzioni descritte sopra, allora essa va praticata da subito in chiave sostitutiva ai fossili e andrebbe favorita e accelerata da processi di efficienza e riadeguamento su tutta la rete di distribuzione, accumulo e scambio, anziché osteggiata da misure tariffarie e incentivi alla rovescia. Quindi, i primi effetti sostitutivi vanno programmati laddove la questione ambientale è più drammaticamente urgente: le centrali a carbone e le trivelle in mare sono un esempio di questa priorità.

Questa sembra oggi, delle due alternative quella indiscutibilmente più in linea con la salvaguardia della vita sul pianeta ed è il quesito vero, di profilo storico, che è stato posto il 17 Aprile. Per cui quella data referendaria andrà inquadrata come segnale, ancorché insufficiente, in un processo che è in corso, anche se i media nostrani e il Governo non sanno dare ad esso rilievo, presi come sono dallo spostamento quotidiano da una notizia all’altra, schiacciati in un eterno presente da cui non si esce mai, visto che viene conculcata la partecipazione e non richiesta alcuna corresponsabilità. Ci troviamo in un percorso di transizione già in atto, certamente da istruire e completare, ma sul quale un segnale inequivocabile è stato dato: decarbonizzare e, contemporaneamente, assumere soluzioni sostitutive alternative, imprimendo al sistema un orientamento che con il tempo si farà dominante. Oggi il sistema oscilla ancora in modo disordinato, spinto da logiche contraddittorie. Comunque sia, il risultato delle pressioni dei movimenti sociali delle nuove eco-imprese e delle comunità locali si fa sempre più coerente e non è poco. trovarsi già, pur essere stati derubati del tempo sufficiente all’informazione e al confronto, con il 30% sul totale degli aventi diritto al voto che auspica e vorrebbe veder svilupparsi un sistema energetico differente.

Una delle curiosità – tra le altre – è che il referendum, secondo Swg, ha richiamato il 16 per cento di chi non vota più per principio alle politiche e un terzo di chi si dice indeciso su chi votare. Inoltre, tra coloro che hanno usato internet come fonte di informazione per capire di più della consultazione sulle trivelle, la quota che si è recata al voto è del 44% rispetto al 29% di chi si è informato solo ai TG. E’ evidente come si stia formando, fuori dagli equilibri politici e economici, un’opinione avversa alla strategicità del fossile, perseguita da Bersani a Monti a Passera e a De Vincenti secondo l’immagine inquietante dell’Italia “hub del gas” e avvalorata da una strategia energetica nazionale (SEN) mai portata all’approvazione del Parlamento.

E, questa volta, non c’è da accampare per i risulati del referendum la scusa della “complicità emotiva” (come per Fukushima e Chernobyl), tanto più che siamo a condizioni rovesciate, visto che del disastro del petrolio nel Polcevera l’opinione pubblica votante è stata tenuta accuratamente all’oscuro. Anzi,si è fatto forza sull’idea che 2000 posti di lavoro fossero la questione. In questi mesi 50.000 lavoratori delle aziende del gas ex municipalizzate verranno riassunti col Job Act e ripagandosi la pensione, grazie allo scarso interesse del Governo per il lavoro.

Era dal 2011 (referendum acqua, nucleare e legittimo impedimento), che la politica e soprattutto la narcotizzata società italiana non veniva investita dal dibattito su un tema fondante per il futuro del Paese. Chiedere ai cittadini di disertare le urne e non far maturare un dibattito dopo la Laudato sì e la Cop 21 è delittuoso e dà l’idea della fragilità di una politica che punta solo a ritardare processi per salvaguardare poteri non legittimati dalla risorsa del confronto continuo. Tra l’altro, occorrerà prestare attenzione ad un aspetto sottovalutato finora: non essendo state abrogate da un referendum, le altre norme sulle trivelle cancellate dal governo prima di andare al vaglio della Corte Costituzionale, possono essere ripresentate in qualsiasi momento all’interno di un Consiglio dei Ministri che non ha dato alcuna garanzia di lealtà sugli impegni presi. Non sarà semplice né facile riportare la politica su queste linee a sguardo lungo nel tempo.

Ho l’impressione che anche l’insistenza di molti commentatori a sinistra nel trovare connessioni tra l’esito referendario del 17 Aprile e le previsioni per quello autunnale sulle riforme istituzionali sia fuorviante, a meno che si inquadri la questione costituzionale come una priorità del futuro e non una reiterazione del passato, seppure glorioso. Il futuro della sinistra è quello di applicarsi alla sociologia delle emergenze, interpretando le tendenze che possono essere determinanti per affrontarle. Su questa base stanno intervenendo tendenze di riunificazione nell’area della sinistra e nelle componenti religiose: esse però vengono messe in difficoltà dallo spostamento al centro di forze che hanno ereditato l’organizzazione dei movimenti operai del dopoguerra e oggi giocano nel campo avverso. E’ il caso, sempre più netto del PD renziano in e questo schiacciamento sul presente e oscuramento del futuro è un danno enorme per la politica e per la conquista ad essa delle nuove generazioni. Il neoliberismo è un’immensa macchina di produzione di aspettative negative, in modo che le persone non possano conoscere i motivi reali della loro sofferenza, accontentandosi di quel poco ancora che hanno, paralizzati dalla paura di perdere. La riunificazione di sinistra e forze religiose serve ad attenuare la paura e a propiziare il ritorno di qualche speranza. (ed è quanto era accaduto a Milano con Pisapia ma, forse, non è stato da lui stesso abbastanza compreso). La speranza è un concetto aperto e attiguo alla partecipazione. Proprio perciò la tenuta e la chiarezza sulla questione costituzionale diventa determinante per il futuro, così come attuare un sistema elettorale più rappresentativo e più trasparente e rafforzare la democrazia partecipativa. Una democrazia finalizzata ad una interpretazione del mondo e della vita altamente condivisi e inverati nel patto sociale che non può che avanzare, altro che arretrare!

Concludo queste considerazioni sul quadro nazionale trasferendole nel contesto in cui la transizione energetica rimescola le carte della supremazia del neoliberismo sul piano globale. Dopo l’Enciclica papale (impossibile non considerarla per i suoi effetti vistosi in America e in Africa) e le conclusioni a Dicembre e le firme ad Aprile dell’accordo di Parigi, l’impermeabilità al forte messaggio di trasformazione è un lusso che in politica deve avere un costo. Italia, Inghilterra, Polonia e Ungheria guidano – e non da ora – il fronte della staticità del sistema fossile in Europa, addirittura con implicazioni sullo svolgimento della trattativa sul TTIP per la liberalizzazione del gas e del petrolio da scisto proveniente da America e Canada. Non è che le politiche di Obama, Merkel, Xi Jinping siano esenti da contraddizioni: pensiamo alle problematiche ambientali statunitensi del fracking, all’uso della lignite tedesca, all’inquinamento delle città cinesi. Ma quelli sono leaders che danno l’impressione di avere una visione che li ha portati ad avviare una profonda trasformazione dei sistemi energetici. Le primarie negli Usa vedono il climate change, la costruzione di oleodotti, i vincoli sulle emissioni dei veicoli come discriminante tra democratici e repubblicani. E la piena occupazione dei giovani e il minimo salariale sotenute come priorità da Bernie Sanders vengono osteggiati esplicitamente e con durezza dalle corporation del petrolio e del gas e dai grandi consumatori di fossili come la Walmart con i suoi 4000 centri commerciali e oltre 7500 TIR. In ogni caso gli investimenti mondiali sulle rinnovabili nel 2015 sono stati del 60% più elevati della somma di quelli delle nuove centrali elettriche a carbone, a gas e nucleari: c’è quindi una politica industriale e una riconversione ecologica delle produzioni con dinamiche occupazionali assai interessanti che sono in attesa.

Va tenuto aperto il dibattito pubblico sul tema del modello di sviluppo che l’Italia vuole perseguire alla luce degli accordi sulla riduzione dei gas climalteranti, mettendo in luce al contempo l’incompatibilità della compromissione della politica con gli interessi economici delle multinazionali del petrolio e i poteri forti.  Altro che ridurre tutto alle dinamiche interne al PD!  Sono assai ridotti i sostenitori di un’economia fossile in grado di presentarsi ai cittadini con trend economici positivi e capacità di rispondere alle esigenze di abbattimento dei costi ambientali. Perciò i15 milioni di cittadini alle urne dimostrano quanto sia necessario creare continuità tra linguaggi delle piazze e strumenti di partecipazione di massa. Se guardiamo al referendum come ad un passaggio intermedio di una battaglia di lungo periodo e connessa a tematiche che vanno ben oltre il tema dell’estrazione di idrocarburi offshore, la prospettiva è tutt’altro che a tinte fosche, e possiamo considerare questo come l’inizio di un ancora lungo lavoro di articolazione sociale che persegue un modello produttivo e di consumo frutto di una forte richiesta di partecipazione. Se ci muoviamo progressivamente in questa direzione, anche in occasione e in preparazione delle prossime scadenze elettorali, eviteremo di entrare nel gioco condotto da Renzi di riservarsi il prossimo gradino da cui rendere più agevole il balzo verso quella che Boaventura Sousa De Santos chiama “democrazia ad intensità molto bassa”.

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Referendum No Triv: non è che l’inizio!

a cura di Antonella Leto e Roberta Radich – di PrimalePersone

Era dal 2011 (referendum Acqua, Nucleare e legittimo impedimento), che la politica e soprattutto la narcotizzata società italiana non veniva investita dal dibattito su un tema fondante per il futuro del Paese.

In appena un mese, quello concesso dal governo per informare i cittadini, e senza alcuna risorsa se non le nostre braccia, le nostre gambe e la nostra creatività, siamo riusciti ad ottenere l’attenzione ed il voto di un terzo degli italiani. Questo a testimonianza che la società reagisce quando stimolata e non narcotizzata dall’informazione o dalle forme autoreferenziali della politica.

Il successo dei referendum NO TRIV parte dall’aver convinto, da movimenti, ben 10 regioni a deliberare a maggioranza assoluta la loro proposta. Successo che prosegue con la resa del governo Renzi, che pur di non fare esprimere i cittadini sulle trivelle a mare e terra, ha assorbito in legge di stabilità tre dei sei quesiti. Sono state così  rigettate dal MISE, Ministero dello Sviluppo Economico, 27  autorizzazioni a nuove trivellazioni entro le 12 miglia, tra cui Ombrina mare,  segnando la seconda vittoria del fronte NO TRIV. La terza e più importante vittoria è stata quella di aver imposto al dibattito pubblico il tema del modello di sviluppo che l’Italia vuole perseguire alla luce degli accordi di Parigi sulla riduzione dei gas climalteranti che ha come unica via d’uscita un cambiamento delle politiche energetiche che conducono alla conversione ecologica, mettendo in luce al contempo la grave compromissione della politica con gli interessi economici delle multinazionali del petrolio e i poteri forti.

In appena un mese sono nati spontaneamente in tutt’Italia centinaia di comitati che hanno lavorato a testa bassa per informare e promuovere il SÌ, lottando contro la mistificazione, la disinformazione del governo e contro l’invito all’astensione.
È stata cosi disvelata una presa di posizione gravissima dell’esecutivo di governo che tradisce una insofferenza all’esercizio democratico popolare previsto dalla Costituzione, ed ancor più il desiderio di avere mani libere nelle decisioni assunte, non solo scavalcando regioni ed enti  locali, ma prefigurando una volontà autoritaria che si concretizza nelle riforme costituzionali in combinato con la legge elettorale.

Infatti proprio sulla modifica costituzionale del Titolo V, con cui il governo vorrebbe accentrare al proprio esecutivo scavalcando lo stesso parlamento le competenze attribuite alle regioni in materia ambientale,  si riaprirà presto la partita per la democrazia sostanziale e di prossimità.

Laddove si vorrebbe sanare attraverso le modifiche costituzionali quella che è diventata, di fatto,  una democrazia solo formale trasformandola in “democratura”, si troveranno i cittadini, i comitati e le associazioni.

Il referendum NO TRIV ha aperto una strada, ha costretto la politica a schierarsi pro o contro,  a dividersi facendone emergere le pesanti contraddizioni interne. Ha ridato voce ad un terzo degli cittadini, ha rivitalizzato ogni territorio con un mese di mobilitazioni dal basso che restituiscono linfa vitale alla Democrazia ed alla partecipazione.
Non è che l’inizio!
Siamo partiti da tempo promuovendo un altro modello di sviluppo, sostenibile, solidale.
Non ci fermeremo.   
Un altro mondo è possibile e siamo qui per costruirlo!

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Non sarà il mancato raggiungimento del quorum a salvare le fonti fossili

Comunicato Stampa di Legambiente

“Il quorum non è stato raggiunto ma di due cose siamo certi. La prima è che la proroga senza limiti delle concessioni per l’estrazione di petrolio e gas rimane una colossale ingiustizia, in contrasto con le regole del diritto UE sulla libera concorrenza. La seconda, è che non sarà certamente il mancato raggiungimento del quorum a fermare un cambiamento del modello energetico che sta già mettendo le fonti fossili ai margini, perché esiste un altro scenario più conveniente, pulito, democratico. La nostra battaglia continua e la straordinaria mobilitazione dal basso organizzata in poche settimane, malgrado disinformazione e inviti all’astensione, dimostra il consenso di cui gode tra i cittadini il tema dello sviluppo sostenibile, per combattere i cambiamenti climatici e far crescere le energie pulite”.

Questo il commento della presidente di Legambiente Rossella Muroni ai risultati del referendum sulle trivellazioni. La campagna referendaria, secondo l’associazione ambientalista ha messo in evidenza come l’ambiente sia diventato oggi una questione centrale per i cittadini e trasversale agli schieramenti politici. Il Governo Renzi, malgrado gli inviti all’astensione e le politiche a favore delle fonti fossili, dovrà prenderne atto e accelerare sulle scelte di tutela degli ecosistemi e di sviluppo incentrato sulle fonti rinnovabili. L’Italia possiede  oggi risorse naturali e opportunità per ridurre l’utilizzo di petrolio e gas puntando sulle alternative realmente competitive ma bloccate da politiche miopi e sbagliate: l’autoproduzione da energie rinnovabili, il biometano, l’efficienza energetica.

Legambiente annuncia quindi che nei prossimi giorni presenterà una denuncia alla Commissione europea contro la norma che concede concessioni illimitate per le estrazioni di petrolio e gas. Continuerà la battaglia affinché si intervenga da subito sulle numerose criticità emerse rispetto alle attività estrattive in mare, a partire dalla dismissione delle piattaforme che già oggi non sono più attive e per stabilire royalties giuste per tutte le attività estrattive, cancellando un sistema iniquo per cui larga parte delle concessioni non paga le royalties e chi lo fa le deduce dalle tasse. In tutto il mondo si sta andando verso una tassazione legata alle emissioni di gas serra per spingere gli investimenti verso l’efficienza e il nostro Paese avrebbe tutto l’interesse ad andare in questa direzione cancellando privilegi assurdi per i petrolieri.

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