Da Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2011
Nel post precedente, ho esposto i criteri che il Parlamento tedesco applicherà per la revisione della sicurezza dei reattori sul suolo germanico. Criteri così restrittivi da mettere in discussione il mantenimento della maggior parte degli impianti. L’allarme dimostrato dai tedeschi è ripreso negli Stati Uniti. La Commissione sulla sicurezza nucleare americana avrebbe voluto dire molto di più sulla crisi atomica di Fukushima, ma è stata censurata dai grandi produttori di reattori nucleari come Westinghouse e General Electric. Nonostante ciò, lo Us Health Care System per le maggiori emergenze nucleari affermava, il 7 aprile, che “non c’è negli Stati Uniti alcuna strategia per la comunicazione al pubblico in tempo reale di raccomandazioni sulle priorità di ricovero o di evacuazione”. La relazione rivela che è stato interrotto circa due anni fa l’acquisto dell’agente più noto – ioduro di potassio – per contrastare lo iodio radioattivo che induce cancro alla tiroide nei giovani. La decisione di interrompere lo stoccaggio era stata presa, in parte, perché la distribuzione avrebbe richiesto troppo tempo in una situazione di emergenza in rapido movimento. Ora, la crisi nucleare del Giappone spingerà i funzionari a rivedere questa conclusione. Sta di fatto che con livelli di radiazione in alcune aree superiori al previsto anche al di fuori delle zone di evacuazione, il Governo giapponese ha recentemente chiesto agli Stati Uniti dello ioduro di potassio. Il governo federale ha deciso di inviare solo gli stock con data di scadenza entro un anno.
È impressionante al riguardo come le strutture sanitarie italiane abbiano riconosciuto di non avere a disposizione ioduro di potassio per un’emergenza. Molti degli Stati americani non hanno un piano di emergenza da radiazione per la comunicazione con il pubblico o per far fronte ai rischi per la salute. Recentemente la Casa Bianca e altri funzionari federali si sono riuniti con gli esperti, riconoscendo che i funzionari sono poco disposti a comunicare con il pubblico e che l’attuale organizzazione delle cure mediche “non supporta il livello dei requisiti previsti” a seguito di un attentato con un ordigno nucleare o di un incidente come quello giapponese. Non è noto, per esempio, come un’esplosione nucleare e impulsi elettromagnetici conseguenti inciderebbero nel moderno sistema di infrastrutture di comunicazione, o in che misura gli edifici moderni siano in grado di proteggere le persone dal calore e dagli effetti delle radiazioni.
Una relazione svolta in 38 Stati Federali, ha concluso che il sistema sanitario pubblico rimane impreparato a rispondere a ad un incidente nucleare “dato che i fondi tendono a diminuire piuttosto che aumentare a causa del massiccio deficit federali e statali”. Senza prevenzione c’è da aspettarsi un grande esodo dalle zone contaminate, che porterebbe a “estendere il panico e la devastazione ben oltre il luogo dell’incidente, drenando cibo, acqua, medicine, benzina, e altre risorse dalla comunità circostante e, potenzialmente, causando ingorghi che potrebbero seriamente compromettere molti elementi della risposta ai disastri ufficiali”. Siamo quindi ovunque seduti su un vulcano e i nostri sacerdoti del nucleare non trovano di meglio che “tirar sera” sdrammatizzando, nella speranza che il non raggiungimento del quorum al referendum li avvolga in un irresponsabile letargo.
Cosa hanno in comune la grande crisi economica scoppiata nel 2008 e il disastro nucleare di Fukushima? Dice Stiglitz che entrambi costituiscono importanti ammonimenti sul fattore “rischio” e su quanto malamente i mercati e le nostre società siano in grado di comprenderlo e gestirlo. Gli esperti in campo nucleare e finanziario ci avevano assicurato che le nuove tecnologie avevano pressoché eliminato il rischio di una catastrofe. Gli eventi li hanno smentiti categoricamente: non soltanto i rischi sussistevano, ma oltretutto le loro conseguenze sono state di tale immane portata da annientare d’un sol colpo e assai facilmente i presunti vantaggi dei sistemi che i massimi esponenti di questi settori promuovevano.
Il fatto è che l’esistenza del settore nucleare dipende da sussidi pubblici occulti, mentre in caso di disastro nucleare è la società intera a doversene accollare palesemente le terribili conseguenze, come pure i costi dello smaltimento delle scorie nucleari. Nel caso di un rilascio di materiale radioattivo, l’esposizione della popolazione può essere ridotta solo da contromisure applicate alla gente (evacuazione) o all’ambiente (interdizione del terreno, confisca dei prodotti contaminati). L’adozione delle contromisure andrebbe basata sul confronto rischi-benefici tra il danno economico causato e la riduzione delle conseguenze sanitarie.
Ma già nel 1981 Frittelli e Tamburano del Cnen (oggi Enea, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) avevano provato a valutare il danno economico in caso di incidente, includendo la perdita di valore della proprietà interdetta, il costo della decontaminazione del territorio e delle strutture, nonché la perdita di lavoro della popolazione evacuata. E avevano calcolato che nel caso di rilasci ben inferiori a quelli poi verificatesi a Chernobyl e a Fukushima nessun valore del livello di intervento di “riparazione” e emergenza avrebbe potuto ottimizzare il bilancio tra le conseguenze sanitarie e quelle economiche. O morti certe e perdita di salute, o esborsi compensativi per l’evacuazione e la decontaminazione superiori ad ogni ragionevole possibilità di spesa per la comunità. E sappiamo bene che nel sistema attuale le ragioni dell’economia prevalgono su quelle della vita. Perché il Forum di Chicco Testa, nella famosa partita a scacchi, non ha preso in considerazione un lavoro scientifico rigoroso come questo, volutamente nascosto all’opinione pubblica?