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Fukushima, quattro anni dopo e oltre. Davvero si investe ancora sul nucleare?

di Mario Agostinelli – dal blog de Il Fatto Quotidiano

fukushimaIl notiziario di Bloomberg del 25 febbraio svela le preoccupazioni della Tepco, la corporation elettrica giapponese, che, a quattro anni dalla fusione del nocciolo dei reattori di Fukushima e delle barre di combustibile esauste, sta indagando le cause di un picco di livelli di radiazione registrato a febbraio nell’acqua di drenaggio riversata nell’oceano Pacifico.

Evidentemente, l’acqua piovana viene ancor oggi contaminata dal contatto con sostanze radioattive. La Tepco aveva già scoperto 23.000 becquerel per litro di Cesio 137 nell’acqua piovana accumulata sul tetto dell’edificio del reattore n° 2, quando il limite legale per il rilascio di cesio 137 dovrebbe non superare i 90 becquerel per litro. Una dose mortale, che permane e si diffonde nel tempo, in aggiunta al fatto che una simile esposizione aumenta in modo incalcolabile lo sviluppo di tumori. Evidentemente, le perdite nell’oceano sono ancora in corso, anche dopo l’evacuazione di 160.000 persone nella zona e dopo che il governo giapponese si era prefisso di bonificare 11 delle municipalità più gravemente contaminate della Prefettura di Fukushima entro il marzo 2014, per ridurre la dose annua a 1 milliSievert.

La presenza di acqua radioattiva costituisce una novità a cui l’incidente di Chernobyl non ci aveva esposto: i reattori di Fukushima, al contrario di quello ucraino, sono reattori moderati ad acqua e la fusione del nocciolo, se c’è sversamento in mare dell’acqua di raffreddamento, comporta una diffusione delle radiazioni attraverso la dinamica delle correnti e la propagazione attraverso le catene alimentari che l’oceano ospita. Purtroppo le informazioni che abbiamo seguono lo standard di segretezza e non trasparenza di tutto il sistema nucleare: nulla è sotto controllo e ormai i dati sulla contaminazione e le conseguenze sanitarie sono stati talmente nascosti e manipolati fin dall’inizio, che è veramente difficile fare bilanci e previsioni serie.

Occorrerebbe riflettere a fondo in questo quarto anniversario e chiedersi come sia possibile che gli analisti della Iaea (l’Agenzia per l’energia nucleare) possano ancora sostenere che dal 2015 l’industria nucleare dovrà creare 12 gigawatt di potenza (grosso modo 10 reattori!) ogni anno per il prossimo decennio, al fine di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo di un aumento di temperatura non superiore ai 2°C. La Cina per prima si appresta a costruire 21 centrali e a metterne in progettazione altre 27, ma sta incontrando serie opposizioni da parte delle popolazioni e forti dubbi nei gruppi dirigenti. Ancora una volta si divaricano le decisioni dei gruppi dominanti dalle aspettative della gente comune e si indicano soluzioni sbagliate e insostenibili, non tenendo in conto l’alternativa ormai concretamente realizzabile di un sistema energetico in armonia con i processi naturali e di pace. Già, perché questa è la questione all’ordine del giorno per il futuro del pianeta.

La dimensione energetica dei processi radioattivi è fuori scala rispetto alla normale percezione dei nostri sensi e non sappiamo controllarne appieno gli effetti sulla vita. Gli incidenti registrati sollevano una questione che va al di là del tempo e del luogo in cui sono avvenuti: il problema del fallout radioattivo globale, dovuto a Fukushima, ma anche a Chernobyl del 1986, a Three Mile Island del 1979, ad una quantità di incidenti minori sconosciuti, e soprattutto a decenni di test per mettere a punto gli arsenali atomici (i 511 test atmosferici dopo la seconda guerra mondiale hanno raggiunto una potenza totale di 438 megatoni, pari a 29.000 bombe come quelle di Hiroshima!).

A che prezzo di salute e di decessi si può auspicare un futuro per una tecnologia che si rivela intrinsecamente insicura e imponderabile nelle sue ricadute? In tempi in cui si ridislocano armi letali assemblate con i prodotti delle fissioni all’interno di impianti destinati all’elettricità, è bene non dimenticare che nucleare civile e militare spesso si sono sostenuti l’un l’altro.

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Ti ricordi Fukushima?

di Alfonso Navarra, www.osmdpn.it

Lettore, ti ricordi di Fukushima? E’ stato il peggior disastro nucleare della storia recente, quello le cui immagini in TV ti hanno colpito come un pugno allo stomaco, quello per cui hai votato SI’ al referendum contro i piani di nuove centrali atomiche in Italia; ne ricorre il quarto anniversario (era l’11 marzo 2011). E’ molto probabile che oggi tu sia convinto che la faccenda si sia sostanzialmente chiusa con l’evacuazione di qualche villaggio, che la radioattività sparsa al momento riguardi solo qualche abitante del posto e che gli interventi effettuati abbiano messo tutto sommato in sicurezza la centrale giapponese incidentata in seguito allo tsunami.

La stampa solo sotto l’anniversario (ormai ci siamo!) se ne rioccuperà un po’ in termini folkroristici (c’è, in predicato di diventare star mediatica, un contadino giapponese che è restato, nella zona interdetta, accanto alle sue vacche per evitarne l’abbattimento), e darà spazio a qualche editorialista per lamentarsi dell’”oscurantismo” italiano che rifiuta modernità e progresso, come del resto ha già fatto negli anni passati; ma, sicuramente, come al solito, glisserà sull’essenziale. Qui in Italia vorrebbe – la stampa, dico -, da quanto viene strillato dalle aperture dei TG, che la nostra vita sia appesa alla “grande riforma” del Porcellum, a quale sarà la percentuale di “nominati” in Parlamento dai partiti (quelli che ci hanno accollato oltre 2.100 miliardi di debito pubblico) che potremo avallare con il nostro voto!

Uno dei punti – ci scommetto – su cui i grandi media non si soffermeranno nelle commemorazioni (e talvolta nelle lamentazioni) è il seguente: proprio tu che leggi (ed io che scrivo non ne sono certamente immune) potresti essere una vittima diretta del fallout radioattivo globale dovuto a Fukushima, ma anche a Chernobyl del 1986, a Three Mile Island del 1979, ad una quantità di incidenti minori sconosciuti, e soprattutto – questa proprio era fuori dai tuoi conteggi! – a decenni di test per mettere a punto gli arsenali atomici: non abbiamo avuto solo le esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, magari! Abbiamo avuto centinaia di bombe fatte scoppiare soprattutto fino al 1993, il 25% in atmosfera. Il picco lo abbiamo conosciuto negli anni 1961-1962, con oltre la metà del megatonaggio complessivo espresso. Solo i 511 test atmosferici raggiunsero una potenza totale di 438 megatoni, pari a 29.000 bombe come quelle di Hiroshima! (il dato lo fornisce Paolo Cortesi in: “Test nucleari, giocare col plutonio”).

Una domanda cruciale ce la pone Alberto Burgio, coordinatore nazionale del Comitato scientifico dell’ISDE, autore di “Scram”, Jaka Book, 2011, con Angelo Baracca e Giorgio Ferrari: quando mai avremo il numero esatto dei morti di Fukushima (e di Chernobyl e dei test nucleari)? La risposta più giusta è “MAI!”. Lui stesso in Scram spiega perché: “Il vero problema è dato proprio dalle piccole quantità di radioisotopi che escono dalle centrali e si concentrano nelle catene alimentari e in particolare nel latte di mucca e in quello materno. E che passano attraverso la placenta al feto interferendo col suo Dna. Incidenti come quello di Chernobyl e di Fukushima, immettono nella biosfera grandi quantità di radioisotopi che permangono nelle catene alimentari per decenni e, per quanto concerne il plutonio, per millenni. A essere esposti e contaminati non saranno dunque soltanto i bambini ucraini o giapponesi ma, col passare del tempo, tutti gli esseri umani e, più in generale, tutti gli esseri viventi”.

RITORNO A FUKUSHIMA

Quattro anni dopo l’incidente occorso alla centrale nucleare giapponese “Le Scienze”, la rivista scientifica più prestigiosa e più diffusa in Italia (è l’edizione italiana di “Scientific American”), nel numero dedicato, come recita la copertina, all’”eredità di Fukushima” (febbraio 2015), tenta “un primo bilancio dell’impatto ambientale del disastro”.

Grazie a questa pubblicazione possiamo venire a sapere dei dati che ritengo molto interessanti: subito dopo l’incidente, furono evacuate 80.000 persone entro un raggio di 20 km dalla centrale (tre villaggi sono stati abbandonati: Futaba, Okuma e Namie) e che poi la zona di esclusione è stata portata a 30 km: ma al momento presente anche a maggior distanza lungo la strada che porta al sito nucleare si attraversano paesi sostanzialmente spopolati.

Ricercatori sul campo, citati nella rivista, (vedi Andrea Bonisoli Alquati www.andreabonisolialquati.com/ che ha lavorato anche su Chernobyl ) affermano che “a 1 miglio di distanza dalle centrale in dieci ore ti prendi la dose annua della radiazione di fondo”.

Il governo giapponese si era inizialmente prefisso di bonificare 11 delle municipalità più gravemente contaminate della Prefettura di Fukushima entro il marzo 2014. L’obiettivo era ridurre la dose annua a 1 milliSievert, il valore limite per la popolazione previsto dalle raccomandazioni della ICRP, la Commissione internazionale per la Radioprotezione. Ma fino ad oggi si è lontani dal risultato e la massima parte degli sforzi si è concentrata sulla stabilizzazione dei reattori nella centrale nucleare, che possono sempre subire nuovi “collassi” e continuano con i loro rilasci radioattivi nell’Oceano Pacifico.

Continuo ad estrarre dati dalla rivista. Le autorità giapponesi non avrebbero più una tempistica riguardo alla decontaminazione: hanno stabilito 1 mSv all’anno come obiettivo a lungo termine e incoraggiano gli evacuati a tornare in posti in cui la dose annua arriva fino a 20 mSv, per l’ICRP equivalente alla dose limite per le persone che lavorano nel settore nucleare. Ma ricerche citate dalla stessa rivista proverebbero aumenti significativi del tasso dei tumori associati a dosi annue di soli 5 mSv…

Il direttore Marco Cattaneo, di orientamento filonucleare, nell’editoriale intitolato: “Ritorno a Fukushima”, è costretto ad ammettere: “Non disponiamo proprio delle informazioni che sarebbero più utili per mettere a punto una strategia di prevenzione e radioprotezione”.

Cattaneo ci fa comunque sapere che potremmo avere importanti indicazioni – sulle conseguenze per la salute dell’esposizione a basse dosi di radiazioni – dagli studi condotti sulle rondini da Timothy Mousseau, dell’Università del South Carolina, cui si collega l’articolo “Le rondini di Fukushima”, di Steven Featherstone, pubblicato sulla citata rivista.

Ecco l’attacco dell’articolo:

Fino al 26 aprile 1986, quando uno dei reattori dell’impianto nucleare di Chernobyl esplose diffondendo l’equivalente del fallout di 400 bombe di Hiroshima sull’intero emisfero settentrionale, gli scienziati non sapevano quasi nulla sugli effetti delle radiazioni sulla vegetazione e sugli animali selvatici. La catastrofe creò un laboratorio vivente, soprattutto nei quasi 3.000 km quadri attorno al sito, conosciuto come zona di esclusione circostante il sito”.

Featherstone così lo conclude, in breve:

La fusione del nocciolo avvenuta quattro anni fa nel reattore giapponese di Fukushima Daiichi ha dato una nuova possibilità di studiarli (gli effetti delle basse dosi di radiazioni sugli esseri viventi – ndr). I primi risultati suggeriscono che il fallout di Fukushima abbia danneggiato il biota (l’insieme di tutti gli esseri viventi, animali e vegetali, che popolano una data regione – ndr) in modi che stiamo appena cominciando a vedere”.

Il direttore Cattaneo ci offre un antipasto di questi nuovi, sorprendenti, modi di danneggiare il biota, ipotizzando che dagli studi finora effettuati emerga che l’accumulo di mutazioni (non di tumori) sia “il vero pericolo per gli ambienti contaminati dalla radioattività”.

Con i suoi colleghi, Mousseau ha studiato nel 1994 le popolazioni di rondine comune dell’area di Chernobyl. E ora sta replicando i suoi studi a Fukushima, dove ha documentato un declino delle popolazioni di uccelli molto più rapido di quello registrato in Ucraina. E sebbene il rapporto 2014 dell’UNSCEAR, l’agenzia dell’ONU sugli effetti delle radiazioni, non desti particolari preoccupazioni, gli studi di Robert Baker sul DNA delle arvicole di Chernobyl sembrano confermare l’idea di Mousseau sull’accumulo di mutazioni nelle generazioni successive”.

Come dire, se mi è concesso un commento sarcastico sulla scienza ufficiale, che possiamo trascurare, negli studi (siamo ancora fermi a Hiroshima, quella è la base!), la salute umana (i cancri, le leucemie, etc.) e siamo invece liberi di concentrarci e sbizzarrirci sulle mutazioni (anche queste importanti, per carità) di farfalle, rondini e pantegane! Siamo proprio in buone mani, signori miei!

Ironia a parte, anche gli studi sulle rondini, per quanto non sostitutivi di quelli che dovrebbero essere effettuati sugli esseri umani, stando alle loro conclusioni, possono farci balenare – e Cattaneo lo accenna – una prospettiva allarmante, per non dire angosciante: le specie viventi possono estinguersi perché le mutazioni generate dagli ambienti contaminati le rende sterili. Si moltiplicano, infatti, i portatori di geni anomali di generazione in generazione e si diffondono le possibilità di tali geni di attivarsi anche a scoppio ritardato, impedendo la riproduzione, soprattutto se sono presenti in ambedue i protagonisti sessuati dell’accoppiamento.

Questi studi a margine sugli animali, inoltre, potrebbero prestarsi ad una critica più profonda del paradigma con cui finora è stato affrontato l’inquinamento radioattivo: Ernesto Burgio, dell’ISDE, nel suo contributo nel citato “Scram”, lo individua come un modello riduttivamente DNA-centrico.

Il difetto, per Bugio, starebbe proprio nel metodo base, quello sviluppato nel 1956, sotto il dominio dei fisici sulla radiobiologia, da Puck e Markus: il “Modello Lineare Senza Soglia” (in inglese: “Linear No-Threshold, LNT”).

Scrive Burgio in “Scram” (il capitolo si intitola: “I rischi per la salute umana delle radiazioni ionizzanti”):

Il modello si basa sul triplice presupposto che non esiste una soglia definita al di sotto della quale il rischio sia pari a zero; che il rischio è direttamente proporzionale alla dose assorbita, per cui la somma di molte piccole esposizioni avrebbe lo stesso effetto di una esposizione massiva; che il danno cresce in modo LINEARE, cioè in modo direttamente proporzionale al crescere del livello della dose assorbita, per qualsiasi valore della dose”.

Secondo Burgio, bisognerebbe invece sviluppare un nuovo modello interpretativo, che si conformi alle recenti scoperte nel campo della biologia molecolare: l’interazione tra radiazioni e organismi viventi dovrebbe essere studiata e compresa in modo “sistemico”, cioè tenendo conto delle complesse reazioni tessutali, cellulari e genetiche coinvolte.

Mi sforzo di capire questa nuova visione complessa pensando a come magari se ne parlerebbe in una osteria popolare: farebbe più danno un piccolo pestaggio continuo e ripetuto dall’interno, che ti cambia il corpo in profondità (le radiazioni assorbite bevendo e mangiando, come quelle di Chernobyl e Fukushima) che non la mazzata una tantum dall’esterno: se il turbine radioattivo non ti ha subito fatto secco puoi riprenderti e ritornare quasi come eri prima (caso di Hiroshima e Nagasaki, a distanza dall’epicentro dell’esplosione).

 

QUELLO CHE FUORIESCE A FUKUSHIMA E’ UNO SCAMPOLO DI VERITA’: LA RICOSTRUZIONE DEL “COMITATO SALUTE AMBIENTE ENERGIA.

Angelo Baracca, con il quale collaboro fin “dai tempi di Comiso” (l’opposizione agli euromissili che partì nel 1981), è insieme a Giorgio Ferrari l’animatore del “Comitato Salute-Ambiente-Energia”. Ecco come riassume i fatti dell’incidente alla centrale giapponese sulla rivista elettronica “FISICA/MENTE” (www.fisicamente.net) . “Nei tre reattori che erano in funzione a Fukushima al momento del sisma e del successivo tsunami è avvenuto l’incidente più grave concepibile in una centrale nucleare, anzi tre: i noccioli dei tre reattori che erano in funzione sono fusi (meltdown), in misura diversa, nell’unità n. 1 sembra totalmente, e il corium (nocciolo fuso) avrebbe perforato il vessel d’acciaio e sarebbe penetrato nella base di cemento; nelle unità 2 e 3 sembra comunque in percentuale molto alta. Ora, quello che accade al nocciolo fuso è di avere completamente perduto la geometria, che è la condizione essenziale per controllare la reazione a catena (con la regolazione delle barre di combustibile e del moderatore), e di essere quindi completamente fuori controllo. Il corium può cambiare di forma, ed è anche possibile che localmente si ristabiliscano condizioni di criticità con la ripresa della reazione a catena e tutte le sue conseguenze. Il problema è che nessuno è in grado di dirlo…”

Poi passa a spiegare perché fuoriesce acqua contaminata: “I noccioli fusi devono essere continuamente raffreddati, perché solo nella configurazione geometrica regolare i normali circuiti di raffreddamento funzionano (e a Fukushima erano stati messi fuori servizio): e poiché i vessel sono quanto meno incrinati, l’acqua che è stata in contatto con le parti più gravemente radioattive del reattore esce contaminata. È da quel dì che infuriavano le polemiche, mai chiarite fino in fondo, sulla decontaminazione dell’acqua di raffreddamento, la sua raccolta, i serbatoi insufficienti, e via discorrendo“.

Ed ecco ancora un altro problemone: “A Fukushima, oltre alla fusione dei noccioli dei reattori, è successo un incidente, anzi quattro, che nessuno si era mai aspettato: il grave danneggiamento delle piscine di disattivazione del combustibile esausto nelle unità n. 1, 2, 3, e anche n. 4, che era spenta ma la cui piscina ospitava il numero maggiore di barre di combustibile, in configurazione addensata (quindi più pericolosa)… Il combustibile esausto è enormemente radioattivo, emette quantità enormi di energia, e deve essere custodito per lungo tempo immerso in piscine di disattivazione, continuamente raffreddato. Dopo di che . . . non c’è soluzione! Praticamente tutto il combustibile esaurito lasciato dai reattori che hanno funzionato in questo mezzo secolo è ancora custodito in questo modo, e non si sa più letteralmente dove metterlo (ecco appunto la configurazione addensata); il tentativo di realizzare depositi geologici sicuri in cui immagazzinarlo per migliaia di anni per ora è nel libro dei sogni“.

I gravi danneggiamenti delle piscine di disattivazione a Fukushima sarebbero stati un fatto nuovo, che, secondo Baracca, avrebbero gettato nel panico l’industria nucleare in tutto il mondo. “In particolare, a Fukushima il maggiore allarme riguarda la piscina dell’unità n. 4 suddetta, che è a rischio di crollo (quasi nessuno cita gli allarmi che si sono susseguiti da commissioni di esperti sui rischi di sismi di massima intensità in Giappone, dove praticamente tutti i reattori sono costruiti su faglie sismiche: ma l’allarme vale per tanti altri paesi, nessuno è in grado di prevedere se, quando e dove potrà prodursi un forte terremoto)“.

In sostanza a Fukushima può accadere praticamente di tutto… e tutto in modo “imprevedibile” ed “inspiegabile” “per la semplice ragione che nulla è sotto controllo, e che ormai i dati sulla contaminazione e le conseguenze sanitarie sono stati talmente falsati, nascosti, manipolati fin dall’inizio, che è veramente difficile fare bilanci e previsioni serie”.

 

E CHERNOBYL? NEMMENO LI’ L’INCIDENTE E’ STATO CHIUSO!

Nella percezione dell’opinione pubblica, il disastro di Fukushima di tre anni fa ha oscurato quasi del tutto la più antica catastrofe nucleare di Chernobyl, nell’attuale Ucraina: nell’aprile 2015 farà 29 anni. Invece i suoi effetti sono ancora potenzialmente letali e la messa in sicurezza del reattore numero 4 della centrale è ben lungi dall’essere completata. L’emittente statunitense CBS ha dedicato una puntata del programma 60 Minutes proprio al disastro di Chernobyl ed Enrico Chillè di Leggo ci fa un articolo sopra.

Lo riporto quasi per intero perché lo ritengo molto interessante.

L’Unione Sovietica, all’epoca (il 26 APRILE 1986 – NDR), aveva inviato 500 mila militari per far evacuare tutti gli abitanti delle zone circostanti, per spegnere l’incendio divampato nella centrale e rimuovere le scorie nucleari. Successivamente, il reattore numero 4 fu coperto con una sorta di rudimentale sarcofago, ma il materiale di cui era costituito non sarebbe durato in eterno. Il clima rigido del nord dell’Ucraina, infatti, ha seriamente danneggiato la costruzione con cui si è tentato di mettere in sicurezza la centrale. Una tempesta di neve, due anni fa, ha distrutto parte del tetto, lasciando la costruzione scoperta. I livelli delle radiazioni, che fino a quel momento si erano abbassati col tempo, sono di nuovo aumentati.

Il problema, ora, non può più essere ignorato, ed è per questo che con i fondi raccolti da oltre 40 diversi paesi è stata organizzata la costruzione di un gigantesco arco, al di fuori della zona di rischio. L’opera, successivamente, sarà fatta scivolare verso il vecchio ‘sarcofago’, fino a sigillare del tutto il reattore danneggiato. Nei cantieri lavorano 1400 uomini e, quando la costruzione sarà pronta, ci vorrà almeno un’ora per spostarla ogni volta di appena dieci metri. Non è però il tempo di spostamento dell’opera a preoccupare i supervisori del lavoro. Uno di loro, Nicholas Caille, ha infatti spiegato: «Ci sono difficoltà intrinseche in questo tipo di lavoro, ma tutto è rallentato a causa della mancanza di fondi. Con la crisi tra Ucraina e Russia abbiamo perso diversi finanziatori, ed ora mancano ancora circa 750 milioni di dollari quando finora ne sono stati spesi diversi miliardi».

Gli effetti devastanti del disastro nucleare hanno colpito duramente non solo l’Ucraina, ma anche il resto dell’Europa. Gli scienziati, inoltre, hanno lanciato un nuovo allarme: «Abbiamo prove certe che le modifiche a livello del dna dovute alle radiazioni sono permanenti e si trasmettono anche alle generazioni successive». Per evitare che, a distanza di 28 anni, la catastrofe possa mietere nuove vittime, è necessario trovare in fretta i fondi per completare la messa in sicurezza. Intanto, come testimonia un video girato in parte con un drone dal reporter della CBS Danny Cooke, nella vicina cittadina di Pripyat, dove risiedevano molti operai della centrale e abbandonata subito dopo il disastro, tutto è rimasto fermo al 1986. Colpiscono soprattutto le immagini di un parco giochi che sarebbe stato inaugurato ai primi di maggio: nessun bambino è mai salito sulle modernissime attrazioni costruite in un’Unione Sovietica ormai in declino”.

 

LA DENUNCIA DI “SEMI SOTTO LA NEVE”

Quattro anni fa erano state, per qualche tempo, sotto gli occhi di tutti le immagini dell’enorme tragedia che si era abbattuta sul Giappone a causa di un devastante terremoto seguito subito dopo da un terrificante tsunami.

Le esplosioni nei quattro reattori a suo tempo provocarono, in modo analogo a Chernobyl, anche se in quantità inizialmente minore, la formazione di una classica nube radioattiva, e successivamente a vero e proprio “pulviscolo” osservato e studiato ad esempio in Australia, dal Centre of Excellence for Climate System Science. (sul sito: www.climatescience.org.au/ trovi il paper: “Multi-decadal projections of surface and interior pathways of the Fukushima Cesium-137 radioactive plume”).

Oggi già non se ne parla quasi più, ma questo comportamento – grida forte e poi taci passando a gridare su altro, poi non parlare di questo altro e mettiti a schiamazzare su un’altra “emergenza” ancora – è tipico del circo mediatico, che procede per ondate sensazionalistiche.

No, oggi come allora, a livello mondiale ci si è subito resi conto che il rischio maggiore per tutti – e non solo per i giapponesi – proviene non dai primi rilasci nell’aria e nell’acqua ma dai reattori nucleari che non erano e non sono stati messi in sicurezza. Né questo problema, come ci ricorda Baracca, può essere risolto!

Sotto questo aspetto le notizie fornite dalla TEPCO (Tokyo Electric Power Company) erano allora e continuano ad essere oggi incoerenti, contraddittorie, in gran parte FALSE. La situazione critica è stata a malapena tamponata, continua a covare sotto la cenere.

Ce lo spiega, tra gli altri, un professore del Politecnico di Milano, Ezio Puppin, intervistato, il 3 settembre 2013, da Eleonora Degano, “specializzata in giornalismo scientifico digitale”. La Degano, opportunamente, chiede al prof. Puppin: “Qual è la gravità della situazione, rispetto a Chernobyl?

E questa è la risposta: “Per Chernobyl (rispetto a Fukushima – ndr) si trattava di una tecnologia differente, non di un reattore moderato ad acqua. C’è stato un incendio, e ovviamente ne è stata utilizzata per spegnerlo, ma ora non è più necessario farlo per evitare il surriscaldamento. La nube radioattiva in quel caso si è diffusa nell’atmosfera, e noi ora scopriamo che i cinghiali in Piemonte hanno livelli di cesio anormali. Ma la maggior parte delle radiazioni è ancora là, e a differenza di Fukushima non si sposteranno. Fukushima è diversa anche perché si parla di quattro reattori e non uno, gravemente danneggiati, e di migliaia di tonnellate di materiale radioattivo che vanno continuamente raffreddate. Per di più l’acqua salata che viene usata a questo scopo è corrosiva, e andando avanti così per centinaia di anni a un certo punto si sarà “mangiata” gran parte della centrale, diffondendo radiazioni con effetti molto peggiori rispetto a Chernobyl“.

Incalza la Degano: “Gli Stati Uniti, tuttavia, sembrano voler minimizzare le possibili conseguenze”…

Ribatte Puppin: “Questo perché le centrali e la tecnologia sono le loro, Fukushima è stata costruita dalla General Electric, e negli USA ci sono diverse centrali simili. Ma i problemi raggiungeranno presto anche loro, perché l’acqua contaminata arriverà dall’altro lato dell’oceano, e già sono stati fatti diversi studi climatologici a riguardo. Se una frazione significativa del materiale radioattivo della centrale finisse in mare e si diluisse completamente non si potrebbe più fare il bagno in nessuna parte del mondo. Quello che succede in realtà, sul lungo periodo, è che il materiale immesso in un certo punto viene portato dalle correnti su altre coste, dove si concentra. Negli Stati Uniti, ovviamente, si chiedono dove arriveranno queste correnti. Credo che nell’arco dei prossimi anni sentiremo uno stillicidio di notizie sempre peggiori, e non ci saranno parti del mondo completamente esenti dalle conseguenze”.

Riportiamo qui l’ultimo assist della Degano: “L’attuale premier (Abe – ndr) ha vinto le elezioni anche grazie alla promessa di rilancio economico, e di riattivare le centrali. Gli abitanti però non sembrano d’accordo

E quindi l’ultima risposta di Puppin: “Con l’acqua radioattiva che finisce nel Pacifico, è solo questione di tempo, e non vi si potrà più pescare. Questo si aggiunge ai lavoratori che si ammalano e muoiono, e alle decine di casi di tumore alla tiroide nei bambini della prefettura di Fukushima. Purtroppo, anche se non conosco i numeri esatti, è ampiamente fuori da ogni dubbio che i tumori siano dovuti alla radioattività“.

(L’intervista è leggibile qui: https://oggiscienza.wordpress.com/2013/08/27/fukushima-e-solo-linizio/)

Come sempre, come già accadde con Chernobyl, l’informazione dei pubblici poteri sembra nascondere elementi essenziali ed è falsamente rassicurante: il Giappone, in questo, non differisce dall’ex URSS, perché il modello nucleare – bisogna ammetterlo – è intrinsecamente antidemocratico e militarizzato.

Un disastro come quello accaduto ha costituito un duro colpo per il Giappone, noto per la gerarchia rispettata, l’ordine ricercato e la meticolosità perseguita, e lo ha messo in ginocchio: figuriamoci cosa sarebbe potuto accadere in una Italia – mi si perdoni il giudizio impietoso – ormai in balia della cialtronaggine (per non dire della mafia) se non fossero stati fermati i piani nucleari di Berlusconi/Sarkozy!

Sulla situazione giapponese, sul movimento antinucleare che è nato in reazione al disastro nucleare, sulle iniziative di sensibilizzazione da portare avanti insieme con gli attivisti europei un prezioso lavoro di contro-informazione è di collegamento è svolto dal Centro “Semi sotto la neve”, di cui è fondatrice Yukari Saito.

Del Centro, che ha sede a Pisa, e con cui collaboro nel “Nework antinucleare europeo”, segnaliamo la pubblicazione: “Fukushima: l’anno zero” di Naomi Toyoda, fotogiornalista giapponese esperto dell’uranio impoverito, tradotto da Yukari Saito e Marina Forti e edito da Jaca Book, che ha lo scopo di indurre a “riflettere sull’impossibile convivenza tra i viventi e il nucleare”. E, con particolare interesse e coinvolgimento, l’originale ed innovativo fumetto “I dragoni atomici di Fukushima”, di Yuka Nishioka, edito dall’Associazione culturale Altrinformazione.

(Questa, in breve, la trama: Ayumi Hoshino, studentessa delle medie, scopre la fisica atomica, l’energia nucleare, i rischi delle radiazioni, le conseguenze del disastro di Fukushima. L’arroganza e la presunzione degli esseri umani che credono di poter controllare la natura hanno scatenato la furia dei “dragoni atomici” dormienti nei cieli. L’umanità è di fronte a un bivio: proseguire sulla strada delle energie “artificiali” come quella nucleare o adottare le fonti rinnovabili di energia “naturale” che ci permettono di convivere con le forze della natura).

Yukari Saito, che è una prestigiosa giornalista e scrittrice giapponese, il 9 agosto 2012, ha pubblicato, sul “Manifesto” quotidiano, un importante articolo di riflessione politica dal titolo è: “Se non ora quando?”. Mi sembra utile proporne ampi brani perché indica chiaramente, come recita il sottotitolo, a cosa serve veramente il nucleare in Giappone: “Il governo insiste con la filiera atomica, contro il volere dei cittadini, per un solo scopo: la capacità militare”.

(L’articolo completo lo si trova cliccando qui: http://www.semisottolaneve.org/ssn/a/36751.html )

Dopo l’incidente della centrale nucleare di Fukushima, l’11 marzo 2011, mi è stato spesso chiesto come abbia potuto il Giappone, che aveva già vissuto gli orrori di Hiroshima e di Nagasaki, disseminare ben 54 reattori atomici sul suo territorio, esponendosi di nuovo al rischio radioattivo. La sola risposta che riuscivo a formulare chiamava in causa l’abilità politica degli Stati Uniti, che sin dagli anni ’50 ci hanno inculcato l’idea del nucleare «a uso pacifico» capace di portare benessere anche dove le risorse energetiche sono scarse – mentre il vero obiettivo di Washington era zittire i movimenti antinuclearisti imponendo l’immagine di una tecnologia atomica innocua e utile.

Dopo il 5 maggio scorso, quando l’ultimo dei 54 reattori esistenti in Giappone è stato fermato per un controllo periodico, rendendo di fatto il paese nuclear free, la domanda ricorrente è diventata: «a che servivano dunque tutte quelle centrali, se ce la fate anche senza?». Ora, di ritorno in Italia dopo un mese di soggiorno in Giappone, aggiungo il mio interrogativo: a che serve davvero il nucleare al Giappone?

Il dubbio sorge dal fatto che nella regione intorno alla capitale, servita dalla famigerata azienda elettrica Tepco, non si parla più dell’ordinanza per il risparmio di energia elettrica e tantomeno di «blackout programmati», nonostante manchi la fonte nucleare che prima dell’incidente copriva il 30% del fabbisogno. Tokyo se la passa benissimo, nell’estate torrida di quest’anno, con i condizionatori accesi dappertutto esattamente come 2 anni fa. Invece se andiamo in Kansai, la regione di Osaka, Kyoto e Kobe, scopriamo che la contestatissima riattivazione dei due reattori di Ooi nel mese scorso è servita solo a spegnere diverse centrali termiche – ma non a revocare l’ordinanza sul risparmio né l’allarme blackout, ciò per cui il governo giustificava la sua decisione. Per far rientrare l’emergenza il presidente dell’azienda elettrica ora pretende di rimettere in moto anche altri reattori. Ma i dati parlano chiaro: la regione dispone già elettricità sufficiente anche senza il nucleare.

Intanto il governo di Tokyo ha proposto i nomi per la direzione di un nuovo organo di controllo dell’energia atomica, istituito per rendere le autorità più indipendenti dall’industria nucleare: scopriamo però che sarà diretto da personaggi già noti per i loro stretti rapporti con la lobby nucleare. Gli incontri pubblici organizzati in varie città per discutere la politica energetica nazionale hanno evidenziato una chiara opposizione popolare al nucleare e il tentativo disperato e malcelato del governo di escludere quest’opzione. L’esecutivo mantiene ferma la sua posizione anche in materia di esportazione degli impianti nucleari. E questo a dispetto al rapporto della commissione d’inchiesta istituita dal parlamento sull’incidente di Fukushima, presentato solo un mese fa: la relazione di 641 pagine imputava senza mezzi termini l’incidente all’irresponsabilità dell’azienda elettrica e dell’organo di controllo, denunciando la sudditanza del secondo alla prima, che ha impedito di prevenire il disastro, umano e evitabile.

A dire il vero, non è difficile spiegare l’insistenza del governo giapponese sul nucleare. Basta avere il coraggio di nominare l’innominabile: lo scopo militare. D’altronde è un segreto di pulcinella. Un esponente politico di destra, l’ex ministro della difesa Ishiba, lo ha detto chiaro un anno fa: «Va bene ridurre la dipendenza dal nucleare, ma il Giappone non può chiudere tutte le centrali perché questo ci toglierebbe la possibilità di sviluppare armi atomiche qualora le circostanze internazionali lo rendessero opportuno, visto che i nostri vicini ne dispongono già».

Se diciamo addio all’energia atomica, in effetti, bisogna dire addio anche al ritrattamento del combustibile esausto e all’estrazione del plutonio, che si giustificava con il riutilizzo del combustibile per generare elettricità (anche se finora vari problemi tecnici hanno impedito le operazioni). Salvare alcune centrali nucleari contro la volontà popolare è l’unico modo per il Giappone di mantenere la filiera atomica senza vedersi mettere tra i «cattivi» come l’Iran e la Corea del Nord. Anche l’esportazione di impianti, con la possibilità di ritirarne il combustibile esausto, offre un’ottima scusa per rimanere nel business atomico.

Per la stragrande maggioranza dei giapponesi però questa prospettiva è decisamente inaccettabile. Lo dimostrano diversi sondaggi d’opinione e le manifestazioni popolari ormai quotidiane. Una conferma arriva perfino dal sindaco (eletto con i partiti conservatori) del comune di Hiroshima: Kazumi Matstui commemorando il sessantasettesimo anniversario del bombardamento atomico su Hiroshima tre giorni fa ha detto che «l’11 marzo 2011 è una data indimenticabile per l’umanità» a causa dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima. «Le persone colpite e costrette tutt’ora a una vita assai difficile hanno molte cose in comune con la popolazione di Hiroshima di 67 anni fa»», ha aggiunto: «E’ in corso un dibattito nazionale sulla politica energetica che fa tesoro dell’esperienza dell’orribile incidente e della lezione sull’incompatibilità tra il nucleare e l’umanità». Il sindaco di Hiroshima chiede al governo «una politica energetica che salvaguardi la vita e la sicurezza dei cittadini. E che il Giappone, unico paese al mondo bombardato con armi atomiche, facendosi carico dei sentimenti di Hiroshima e Nagasaki spinga il mondo alla totale abolizione delle armi nucleari».

Sembra quasi che sull’arcipelago giapponese vivano due razze umane diverse e incomunicabili tra di loro. Il professor Takao Takahara, docente di politica internazionale all’Università di Meiji Gakuin, è da tempo impegnato nei movimenti antinucleari e porta spesso gli studenti americani a Hiroshima e Nagasaki. Dice che di solito la visita cambia radicalmente il loro modo di pensare: «Sono giovani spesso convinti che sia giusto rispondere con le armi agli attacchi militari. Ma dopo la visita alle città e i racconti dei sopravvissuti si ricredono, dubitano che un atto di tale crudeltà sia da augurare nemmeno al peggior nemico».

Non ci sarà un modo di cambiare anche le opinioni dei politici nuclearisti? Il barlume di speranza si affievolisce appena ripenso a Yasuhiro Nakasone, ex criminale di guerra che diventò il primo ministro giapponese tra 1982 e 1987 nonché amico fidato di Ronald Reagan; alle notizie del devastante bombardamento a Hiroshima, ancora giovanissimo Nakasone pensò subito che armare il paese del nucleare fosse la prima cosa da fare; nella sua lunga carriera politica non riuscì nell’intento e dovette accontentarsi del ruolo del promotore dell’energia atomica in Giappone con il beneplacito di Washington.

Eppure c’è un’umanità di natura esattamente opposta. Sono numerosi i cittadini, noti e anonimi, che prima dell’11 marzo 2011 non si preoccupavano affatto delle centrali nucleari: poi l’incidente li ha scossi dal torpore e fatto capire che le autorità non sono lì per proteggerli“.

 

PERCHE’ ADDITIAMO “LA FOLLIA DEL NUCLEARE”. PERCHE’NON RITENIAMO CHIUSA LA PARTITA.

Quattro anni sono passati da Fukushima (11 marzo 2011) e quattro dal referendum antinucleare vinto in Italia (12 e 13 giugno 2011) sull’onda della consapevolezza e dei sentimenti suscitati dal disastro giapponese: da cittadino impegnato nella politica di base e nei saperi critici (mi definisco ironicamente “antigiornalista”), non ho mai dismesso l’opposizione alle lobbies del nucleare, sempre vive e vegete, sia pure ferite, con l’obiettivo di rafforzare le ragioni di un movimento globale contro la “megamacchina atomica”, che, con molti miei amici antimilitaristi ed ecologisti, ritengo del tutto attuale nelle motivazioni e negli scopi; e di importanza letteralmente vitale.

Facciamo un invito alle cittadine ed ai cittadini a rafforzare il movimento antinucleare nella consapevolezza, da parte nostra, che la partita contro l’”atomo” non è affatto chiusa!

“Sfruttiamo”, in senso buono, un anniversario tragico, quello dell’incidente alla centrale giapponese seguito allo tsunami, non per assecondare il chiacchiericcio superficiale da talk show televisivo che si scatena in queste occasioni, ma per indurre, se possibile, una sensibilizzazione – la più ampia possibile – ed una riflessione – la più profonda possibile – su ciò che più deve preoccupare ed occupare le nostre vite attive, se aspirano ad un futuro collettivo che dia loro senso autentico.

Qui sono in ballo le nostre esistenze, e lo slogan “meglio attivi che radioattivi” è da considerare del tutto appropriato, rigoroso ed esatto!

L’importanza ed attualità del movimento per la denuclearizzazione (chiusura delle centrali atomiche più disarmo nucleare) è strettamente da collegare all’impegno per l’energia rinnovabile di pace: vogliamo, per vari motivi, tra cui spiccano anche istanze di opportunità e di efficacia, abbinare la protesta alla proposta, e questo può avvenire radicando l’opposizione nel concetto di energia “bene comune”, base di una società migliore, di un ecosviluppo pacifico che, da ciascuno di noi, donne ed uomini di buona volontà, può essere costruito concretamente giorno dopo giorno.

La causa è nobile, è radicata nello spirito di sopravvivenza (individuale e collettiva), combina, secondo gli insegnamenti della nonviolenza vincente, quella pragmatica, non quella ideologica, strategie di contestazione con programmi costruttivi.

Il punto che intendiamo chiarire è, nella pars destruens, la sostanziale complementarità dell’immenso pericolo nucleare nelle due forme apparentemente distinte in cui si presenta: quella militare e quella “civile”. E’ questo aspetto trascurato (e rimosso anche dai movimenti “specializzati”) della dipendenza del nucleare “civile” da quello militare che il nostro lavoro, ed il mio in particolare, e non da oggi, da anni, si sforza di mettere in luce.

Le applicazioni militari e civili del nucleare sono strettamente intrecciate e non separabili: siamo di fronte a due fratelli gemelli e assolutamente cooperanti!

(Tra i due il più anziano è anche il “maggiore” nel senso di dominante: c’è bisogno di precisare quale è? Sì, c’è bisogno!).

Un pericolo, quello nucleare, sia “civile” che militare (insisto, ed insisto con le virgolette per il civile!), sfortunatamente mortale, di entità apocalittica, tra reattori che possono fondere, bombe che possono esplodere e missili che possono partire, persino solo virtualmente, fino a scatenare guerre cataclismatiche (anche solo locali) “per caso o per errore”, di cui l’opinione pubblica ha scarsissima cognizione e che addirittura tende, per meccanismi psicologici profondi, a rimuovere, se non ad “espellere”.

L’”atomo” (tecnologia più apparati industriali e militari) ci minaccia mortalmente e non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte all’incendio che può farci crollare la casa addosso, bensì darci da fare per estinguerlo!

Firma la petizione per ESIGERE! IL DISARMO NUCLEARE TOTALE

 

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Nucleare: M5S, Sogin un affare a rischio appalti e salute dei cittadini

“Sulla sicurezza nucleare non si scherza, in particolare quando si mette a rischio la salute dei cittadini. Il Governo Renzi smetta di giocare e ci dica una volta per tutte qual è l’intenzione sulla gestione dei lasciti nucleari” lo sostengono i parlamentari M5S delle commissioni Ambiente e Industria di Camera e Senato.

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Per il futuro: rinnovabili a buon mercato o petrolio drogato?

di Mario Agostinelli

Siamo costantemente messi di fronte all’esaurimento delle fonti fossili e al drammatico deterioramento del clima e dell’ambiente. Ma l’una e l’altro sono sovrastati da un chiassoso dibattito sul “benefico” crollo del prezzo del petrolio (ma i mercati scommettono che quel prezzo tornerà a 90 $ al barile entro un paio di anni…) e sull’acclamata opportunità di una estrazione di gas e olio con percorsi che si rivelano pazzeschi (permafrost, Artico, sabbie bituminose, fracking di scisti), sia dal lato del bilancio energetico sia da quello del danno ambientale. Una leadership mondiale che non sa come uscire dalla crisi da lei stessa prodotta e che fissa “road map” di rientro dal debito finanziario ad ogni incontro dei big (quanti sono e quanta CO2 per questi inutili e incessanti meeting?), mette in conto perfino la guerra perché non vuole uscire dal vincolo di un sistema energetico centralizzato e non si preoccupa del debito contratto verso la natura. Banalmente spera che tutto si appiani con uno sconto provvisorio sul barile.

La vita moderna si basa sull’uso onnipresente di combustibili fossili, tutti con rilevanti svantaggi non solo per gli effetti climatici. Il carbone, il più economico e più abbondante, è stata ed è la fonte più sporca, che contribuisce massicciamente all’inquinamento, non solo termico. Le forniture di petrolio sono vulnerabili agli shock geopolitici e a collusioni sui prezzi da parte dei produttori. Il gas naturale ha bisogno di lunghissime e vulnerabili pipeline, che limitano l’autonomia energetica e marcano le dipendenze da giacimenti fuori controllo, come nel caso dell’Europa dalla Russia. L’energia nucleare è afflitta da esposizioni finanziarie e da complicazioni politiche, intensificate dagli allarmi dell’opinione pubblica dopo gli incidenti di Chernobyl e Fukushima. Al contrario, le fonti rinnovabili come l’eolico e il solare comportano un basso impatto, ma sono ostacolate e mantenute in un ruolo marginale, nonostante un consenso crescente e saldo nei loro confronti.

In questo scenario, l’impressione che l’enfatizzazione del calo temporaneo del prezzo del petrolio faccia parte della volontà di dilazionare i tempi del cambiamento, non è solo giustificata, ma va analizzata in tutte le sue implicazioni, in particolare per quanto riguarda il modello sociale e economico che si vorrebbe procrastinare. Non si deve sottovalutare quanto il rilancio oggi del petrolio, a pochi mesi da un decisivo vertice sul clima, sia un elemento diabolicamente razionale e sapientemente ricattatorio, che le corporation e i grandi produttori dell’energia hanno messo in campo in una crisi economica per cui il liberismo non ammette alternative.

Nel 2013 nel mondo ben 550 miliardi dollari sono stati spesi per sovvenzionare i combustibili fossili, favorendo le multinazionali, distorcendo le economie e aggravando l’inquinamento. Per le rinnovabili gli investimenti (non i sussidi!) hanno registrato una media di 260 miliardi di dollari all’anno nel corso degli ultimi cinque anni. La IEA, l’organizzazione intergovernativa per l’energia, certamente di ispirazioni conservatrici, dice che il mondo dovrà sborsare circa 23.000 miliardi dollari nei prossimi 20 anni per finanziare l’estrazione di gas, petrolio e carbone, sempre meno accessibili. E, inoltre, stima che gli investimenti necessari oggi per la “decarbonizzazione” della sola produzione di energia elettrica si aggirano sui 44.000 miliardi dollari.

Proviamo allora a chiederci non tanto quello che il calo dei prezzi del petrolio significhi per l’energia pulita, ma quello che significherà la prospettiva di energia pulita e di efficienza energetica per il prezzo del petrolio.

Proviamo allora ad allargare lo sguardo. E’ addirittura l’edizione online di metà Febbraio di Bloomberg Energy ad affermare che vale la pena di investire nelle rinnovabili, data la conferma di un andamento costantemente positivo del settore.  Cioè, uno dei guru più prestigiosi del sistema finanziario e bancario mondiale sostiene la possibilità di ricorrere ad energia pulita per sopravvivere oltre la temporanea caduta del prezzo del petrolio. Da metà ottobre, mentre il greggio è sceso di quasi 30 dollari al barile, non ci sono stati cambiamenti nelle quotazioni dell’energia da fonti naturali, come misurato dal NEX (New Energy Global Innovation Index). E questo perché godono ormai di fatto di un sostegno politico e sociale generale, anche se contrastato nei media e disdegnato da Governi alla giornata come il nostro.

Una presa d’atto, quella del mondo degli affari più avvertito, che prevede stabilità oltre la tempesta. In pratica, la valutazione dei rischi da parte delle agenzie di credito all’esportazione risulta più vantaggiosa per investimenti nelle rinnovabili che non per opere di estrazione e trasporto dei fossili. Di conseguenza, si sono aperti mercati all’estero per le imprese “green” tedesche, danesi, coreane e statunitensi, sostenute dalle azioni dei loro governi.

Di fatto, i costi nell’eolico offshore sono sempre più ridotti, dopo che è stata raggiunta competitività nei due settori principali (vento onshore e PV). E la parity grid è stata ormai raggiunta anche senza particolari incentivi. Secondo il National Renewable Energy Laboratory (NREL), il costo di pannelli solari su una tipica casa americana è sceso di circa il 70 per cento negli ultimi dieci anni e mezzo. In Europa la convenienza è ormai accertata e migliorerà con investimenti in reti intelligenti e accumuli appropriati. I dati di produzione, poi, sono illuminanti: nel 2014 l’energia “pulita” nel mondo è volata ancora in alto, superando le aspettative (v. Ansa del 9 Gen 2015), con una crescita del 16% – pari a 310 miliardi di $ in investimenti – con un balzo record in Cina (+32%) e con crescite assai maggiori rispetto ai settori tradizionali anche in USA (+8%), Giappone (+12%), Canada (+26%), India (+14%), mentre da noi gli investimenti sono calati del 60% rispetto al 2013.

Il mondo cambia più rapidamente di quanto gli esperti sappiano immaginare e non è sufficiente studiare il passato per prevedere il futuro. La fame di energia dell’Asia e del Sud del mondo non è infinita e il loro sviluppo non sarà la fotocopia del nostro, perché rinnovabili ed efficienza sono ad uno step evolutivo ben diverso rispetto a quelli dei tempi della nostra crescita.

Alla luce di un esame attento, petrolio e gas di scisto non hanno inaugurato una nuova stagione dell’abbondanza: hanno solo reso accessibili risorse già conosciute e recuperabili grazie al prezzo elevato tenuto dal greggio fino a qualche tempo fa e solo a tale prezzo avranno ancora chance. E qui aggiungo: se glielo permetteranno lo sviluppo prevedibile delle fonti naturali diffuse e il risparmio praticabile negli edifici. I prodotti “shale” sono oggetto di aumentate preoccupazioni e perdita di consenso, con probabili effetti sul loro prezzo in futuro, come è già avvenuto per il nucleare.

A riprova, le preoccupazioni in USA e Canada per i rischi per l’acqua e il suolo, dato che il boom di estrazione da scisto richiede cambiamenti dirompenti nella gestione delle falde e dei terreni, ha indotto le comunità locali a chiedere garanzie con investimenti onerosi nella depurazione e nelle compensazioni ambientali, nonché nella sicurezza dei sistemi di tubazione e in quelli ferroviari di trasporto. Per di più, le nuove riserve energetiche si trovano in aree che non sono ben collegate ai porti o alle raffinerie già sviluppate nel secolo precedente e le imprese del settore energetico sono impegnate a costruire infrastrutture per abbinare la mutata geografia alla nuova offerta.

Un esempio delle riserve nell’opinione pubblica sulla tecnologie di estrazione non convenzionali viene anche dalla Germania, che, ha in queste settimane presentato un progetto di legge che ha cambiato le carte in tavola, anticipando al 2019 il permesso per estrarre gas da scisto. Quando il Ministro dell’Ambiente Barbara Hendricks ha detto che saranno applicate “le regole più severe che siano mai esistite nel settore del fracking”, ha freudianamente aggiunto che le perforazioni “saranno consentite solo con il massimo rispetto per l’ambiente e l’acqua potabile”.

Con un sapore da umorismo noir, la ministra prevede che il fracking sia vietato in tutte le aree di approvvigionamento idrico pubblico e consentito solo con criteri chiari per la gestione dell’acqua del serbatoio in cui finiscono i fluidi dell’operazione, suscitando un po’ di sconsolata ilarità e l’allarme dell’Associazione di Municipal Utilities (VKU), che fornisce circa l’80% di acqua potabile ai tedeschi.  Vincoli e normative rigide e sempre da migliorare per le popolazioni: costi in ascesa, quindi, o non se ne fa niente.

Intanto la Cina, il maggior consumatore in prospettiva, prevede l’autosufficienza energetica e la riduzione radicale delle emissioni di carbonio. Il presidente Xi Jinping annuncia sul South China Morning Post del 7 Febbraio di puntare ad abbassare il picco delle emissioni di anidride carbonica prima del 2030, con un ricorso al nucleare, ma, soprattutto, con una crescita impressionante delle rinnovabili. E aggiunge, significativamente, che “il cambiamento in atto nel mix energetico del Paese si basa su una minore dipendenza da carbone, lignite e petrolio e sull’aumento del consumo di energia pulita, cui seguirà il riequilibrio economico della nazione con un marcato rallentamento della crescita delle industrie manifatturiere ad alta intensità energetica e una rapida espansione del benessere e delle attività dei servizi”.

Per raggiungere gli obiettivi programmati, il “continente” ha bisogno di creare ex novo entro il 2030 da 800 a 1.000 GW di capacità di produzione di energia elettrica con zero emissioni. Il dettaglio presentato mette all’ultimo posto il ricorso al nucleare: 275 GW di capacità eolica, 385 GW di capacità solare e 120 GW di capacità idroelettrica, contro 85 GW di capacità nucleare. Suscettibili oltretutto di contenimento, per le riserve che si manifestano dopo l’incidente di Fukushima. L’esplosione degli impianti rinnovabili sulla scala macro del territorio cinese comporterà una drastica caduta del prezzo del kwh prodotto da pale, pannelli, digestori etc., con tecnologie di facile esportazione e adattamento anche nei paesi poveri.

Si ridurrà di conseguenza l’offerta eccedente di petrolio e gas da cui dipende in parte l’attuale caduta dei prezzi, pronti a risalire per l’impiego nei settori della mobilità, dei derivati post cracking e in quelli che richiedono la più alta densità energetica.

Se queste sono le condizioni nel medio periodo, meglio non adagiarsi sul prezzo attuale del greggio, ma prendere il tempo per le corna e accelerare il cambio di paradigma energetico che le energie naturali e rinnovabili – incardinate in stili di vita sostenibili – possono già innescare. Deve farsi strada la consapevolezza, fra chi governa e i cittadini, che essere sullo stesso pianeta e alimentarsi delle stesse risorse impone una politica globale di collaborazione, quando si ha come obiettivo la sicurezza, la guerra alla povertà, la difesa del clima e una vita e un lavoro decente per tutti. E questa è, forse, la chance vincente per decidere di superare rapidamente il sistema fossile e nucleare.

Di tutto questo non si è accorta l’organizzazione di EXPO 2015, che ha ridotto l’occasione di un appuntamento mondiale nel nostro Paese al solo capitolo alimentazione, privilegiando implicazioni prevalentemente commerciali rispetto alla sfida che quel binomio “energia-vita” –  originalmente presente all’avvio, ma praticamente cancellato dalla manifestazione che si aprirà – avrebbe comportato per un ripensamento  della sostenibilità a partire dalla Lombardia e dalla città di Milano.

 

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L’idolo del mercato

di Roberto Meregalli – BCP/Energia felice

Da tempo fra gli addetti ai lavori si parla dell’eliminazione della “maggior tutela”, ossia del regime accessibile ai clienti domestici (e non solo) che non vogliono passare al mercato libero. Nei giorni scorsi la norma era apparsa nelle bozze del DDL concorrenza scatenando diversi commenti, soprattutto perché indicava una data molto vicina per la fine della maggior tutela: il giugno del 2016. Venerdì 20 febbraio il governo ha approvato un testo che conferma la proposta di eliminare la maggio tutela ma con tempi dilatati.

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