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Il carbone di A2A, sporca fuori, pulita dentro

dal Blog di Mario Agostinelli

Diversi commenti all’ultimo mio post su A2A e il carbone nella centrale compartecipata in Montenegro criticano la mia “pretesa” di avanzare riserve di carattere ambientale su operazioni vantaggiose economicamente anche se “sporche”. Vorrei innanzitutto ricordare che ex municipalizzate – ora SpA – come A2A hanno come azionisti di maggioranza i comuni che le hanno fatte nascere per gli esclusivi interessi dei loro abitanti. Di conseguenza, nei loro casi, la redditività economica non può prescindere dalla salute, dai danni climatici, dai rischi finanziari – non solo attuali – cui possono essere esposti i cittadini (in questo caso di Brescia e Milano).

In questo quadro risulta allora istruttivo valutare il resoconto dell’assemblea annuale di A2A del 10 giugno scorso in cui si è preso in esame il coinvolgimento montenegrino dell’azienda, su richiesta esplicita di un azionista critico nei confronti dell’importazione di elettricità da carbone. Seguendo le piste della domanda avanzata a nome di un comitato locale e delle risposte del Presidente, scopriamo che:

a) Andrebbe superata la diffidenza verso una attività “colonizzatrice” da parte dell’azienda milanese-bresciana. Dal che si deduce che per il management è superato l’ambito territoriale vissuto come linea guida dell’attività e che il mercato è il campo aperto in cui si giudica la strategia aziendale. Che, nel caso, può essere quella di incorporare gradualmente le aziende a partecipazione comunale di tutta la Lombardia e rischiare avventure extraterritoriali discutibili sotto molti profili, purché immediatamente redditizie (nel caso del Montenegro l’affidabilità di quel governo non è certo indubbia).

b) Il negoziato con il governo del Montenegro per continuare l’avventura del carbone verrà sottoposto a verifiche di redditività e efficienza aziendale, senza cenno alcuno alle implicazioni ambientali locali e globali della combustione di quantità elevate di lignite. E inoltre, nel caso di rottura del tavolo, è previsto un “arbitrato internazionale a Washington” per salvaguardare e dare valore attuale all’investimento realizzato nel 2009. Ci sono aspetti da non minimizzare: per esaminare la convenienza effettiva dell’operazione, occorrerebbe spiegare come si importerebbe l’energia prodotta a basso costo, se non con un elettrodotto (quello “interadriatico” approvato contro i territori abruzzesi di approdo e finanziato pubblicamente?); inoltre, se si ricorre ad un arbitrato, dove comparirebbero gli interessi dei cittadini milanesi, bresciani e montenegrini? Non è forse una delle maggiori obiezioni al negoziato tra Europa e Stati Uniti (Ttip) quella della possibilità di sottoporre a decisione esterna di natura privata i conflitti tra governi o enti pubblici e imprese? Perché proprio A2A – società ancora a maggioranza pubblica – dovrebbe spingersi in questa direzione?

c) La paradossale inversione dei fini dell’operazione Montenegro, rende ancora più oscure le ragioni del perché siano i cittadini a doverla finanziare: importare energia gravida di CO2, non fa bene all’ambiente, allontana il rispetto dei nostri impegni sul clima e contrasta con ogni dichiarazione pubblica dei nostri governanti come quella al G7 in Germania, dove ci siamo impegnati a fare di tutto per mantenere l’aumento di temperatura globale sotto i 2°C. Se da questi impegni scaturisse – che so – una Carbon Tax, dove finirebbe la valutazione di mercato espressa nell’immediato e che da molti è ritenuta determinante ed esaustiva?

Con le tendenze sempre più accentuate al decentramento della produzione energetica e all’ottimizzazione su base territoriale dei cicli di acqua, energia, cibo e consumo di suolo, si sente il bisogno di interventi pubblici e partecipati, sottratti alla sola dimensione del mercato. La privatizzazione in corso delle municipalizzate dell’energia, l’estremizzazione dell’autonomia manageriale, lo scarso controllo su di essa dei comuni e dei cittadini, facilitano anziché contrastare l’ancoraggio al modello dei fossili. A2A dovrebbe rivolgere il suo futuro industriale e la sua strategia innovativa alla componente idroelettrica e rinnovabile assai più che a quella fossile-gas-inceneritori-teleriscaldamento. Alle giunte comunali nessun suggerimento per il dopo Expo dallo slogan “energia per la vita”?

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“Esserci” in EXPO 2015

a cura di Mario Agostinelli

Questo contributo si avvale di una discussione e di testi elaborati in sedi milanesi e lombarde, che costituiscono un sedimento per una critica impietosa ma non rinunciataria – orientata cioè su un piano propositivo – alla sfavillante manifestazione mondiale. Avendo partecipato alla discussione di alcuni di questi documenti (www.costituzionebenicomuni.it; www.energiafelice.it) sono debitore ad essa, anche quando la interpreto come qui a titolo personale.

IL DIRITTO DI CRITICARE EXPO

Sono tra coloro che ritengono che le rilevanti risorse messe in campo per la realizzazione di questo “grande evento” avrebbero potuto essere spese più utilmente in altri modi, con ricadute probabilmente superiori in termini di posti di lavoro, di benessere per i cittadini e di sviluppo per la città di Milano. In questi mesi, di fronte a tutto quello che è accaduto, dall’illegalità allo sperpero di ingenti risorse economiche per l’organizzazione di Expo in una città e in un Paese dove la povertà e la diseguaglianza crescono quotidianamente e che avrebbero urgenza di ben altri interventi, ho maturato un giudizio complessivamente negativo. L’occasione di Expo si è consumata oscillando fino ad arretrare sui contenuti più innovativi e dirompenti, ritenuti troppo vicini ad ipotesi di trasformazione. Idee e progetti che si possono azzardare e mostrare di condividere solo nei convegni, ma non si praticano in realtà né nella prassi amministrativa né nella pratica economica e politica.

La tragedia poi della confusa, contradditoria e irregolare gestione preparatoria va rintracciata nella mancanza di una chiara catena di comando, con il ricorso alla nomina di commissari più o meno straordinari incardinati assurdamente su di una legge che riguardava la Protezione Civile e con provvedimenti che hanno rappresentato una specie di falso ideologico di Stato. Si è spalancata così la porta a chi voleva travolgere le norme urbanistiche e il Codice degli appalti – già debole di suo – e fare strame del controllo democratico. Premesse, dunque, tutt’altro che confortanti.

Ad un mese dopo l’inaugurazione, tuttavia, non viene meno il compito di entrare nel tempo e negli spazi che l’evento – certamente molto popolare e ad altissima risonanza nazionale e regionale – ha, seppure contraddittoriamente, predisposto. E di invadere possibilmente il campo, per andare molto oltre i recinti dell’esposizione e guadagnare agli obbiettivi “nutrire il pianeta e energia per la vita” una platea che l’economia e la politica vorrebbero pura consumatrice di eventi, distratta dal futuro e schiacciata sul presente. Il rischio di stare sdegnosamente sulla porta è quello di riuscire a comunicare solo con chi già ha fatto proprie scelte: “entrando”, invece, si potrebbe fare da megafono per sottolineare le contraddizioni più stridenti di questo sguardo dei ricchi sul mondo che sarà. Dentro, ma soprattutto fuori, sta prendendo corpo una riflessione aderente alla realtà, che interloquisce fino a sconfessare l’immagine patinata dei padiglioni.

Voglio subito affermare che non è estranea alla torsione consumistica che la manifestazione si è data l’eliminazione del tema energia dal contesto organizzativo e dai contenuti che vengono portati all’attenzione. E’ su questa “decapitazione” che imposterò una riflessione più avanti, a dimostrazione che sottrarre il cibo al legame con energia e clima significa non misurarsi con una delle più profonde trasformazioni della cultura scientifica attuale e cercare di non esporsi ad un confronto con le lotte di movimenti diffusi, che percepiscono come indispensabile un’unitarietà tra cibo, terra, acqua, e energia. Già nella polemica a distanza tra Farinetti e Petrini è marcata, almeno culturalmente, questa differenza di approccio, a dimostrazione di quanto anche il versante del consumo ne sia già consapevole.

“Esserci” in questi sei mesi, significa, a mio parere, mettere in discussione l’EXPO e mobilitare tutte le forze disponibili per far sì che, malgrado tutto, questa manifestazione non lasci solo debiti, ma offra l’occasione di un conflitto democratico tra forze realmente in campo, dotate di quell’autonomia che una manifestazione prevalentemente commerciale tenderebbe ad oscurare. Bisogna impedire che tutto il dibat­tito sull’EXPO di Milano ruoti attorno ad un’unica foto­gra­fia: da un lato migliaia di per­sone entu­sia­ste tra gli stand della grande espo­si­zione, dall’altra le auto bru­ciate e la città sfre­giata nel giorno dell’inaugurazione. Più ci si allontana nel tempo dalle violenze del primo Maggio, più ci si rende conto che restano tutte le ragioni di chi ritiene che occorra insi­stere nella cri­tica e seguitare ad avan­zare pro­po­ste alter­na­tive su con­te­nuti precisi.

Oltretutto, dopo gli annunci trionfali dei primissimi giorni, cifre ufficiali sulla partecipazione a fine maggio ancora non ce ne sono. L’AD Sala aveva affermato che fosse “fondamentale per la nostra economia un numero di ingressi molto elevato, perché qualunque Expo che non veicola molta gente è considerato un insuccesso”. E continuava: “L’Expo è fatto di queste regole: quando parlo con un Paese Partecipante devo dirgli con chiarezza che spazio gli do e dove, cosa gli chiedo di fare sulla ristorazione, le regole di ingaggio (ormai il linguaggio militare invade anche quello commerciale). In sintesi, se immaginiamo che Expo possa essere una cosa diffusa solo a carattere sociale che porta meno di 20 milioni di persone a Milano è una cosa sbagliata e inopportuna: bisogna coniugare il diavolo con l’acqua santa e attirare 20 milioni di persone”. Quindi è sul numero di ingressi al sito espositivo che si sono volute fondare le aspettative di successo, o il flop dell’evento. Sull’argomento, a quando scrivo, è calato il riserbo più assoluto e Expo Spa, che è una società pubblica costituita al 40% dal Ministero delle finanze, al 20% da Regione Lombardia, al 20% dal Comune di Milano, si è rifiutata di fornire dati ufficiali, autorizzando così le ipotesi più preoccupanti che non possono essere fugate dal mantra usurato dei 15 milioni di biglietti venduti, visto che l’AD della società ha fissato in 24 milioni di visitatori la soglia del pareggio finanziario dell’Esposizione. Sarebbe un gran guaio se, oltre a correre il rischio di essere una delle tante vetrine per nutrire le multinazionali, non certo il pianeta, EXPO finisse anche in perdita!

LA GLOBALIZZAZIONE DEI BENI COMUNI

E’ utile contestualizzare EXPO 2015 rispetto alla fase storica in cui si svolge. In fondo, non si tratta più della semplice reiterazione – come fin qui è stata – di una manifestazione attraverso cui il Paese ospitante espone il suo contributo alla crescita della produzione e dei consumi mondiali le cui eccellenze sono offerte ai visitatori, ma si dovrebbe trattare di una presa d’atto della necessaria transizione ad uno sviluppo sostenibile, all’apice della crisi più profonda dopo la prima guerra mondiale. Il tentativo di separare la manifestazione dai problemi a monte delle narrazioni esibite nei singoli padiglioni banalizza l’enorme sforzo organizzativo: un impegno ingiustificabile a meno che l’obiettivo fosse proprio quello di mistificare la realtà.

Milano raccoglie il testimone in una fase della globalizzazione in cui il liberismo invade i territori della vita e dei beni comuni cercando di sottrarli al potere e al governo pubblico e di portarli al mercato nel segno della privatizzazione e del primato dell’economia sulla società. La ricchezza finanziata col debito e l’inasprimento delle disuguaglianze hanno a che fare nella fase in corso con una appropriazione della biosfera da parte del sistema delle imprese – multinazionali in particolare – che condiziona il futuro di quella umanità a cui EXPO nelle sue intenzioni vuole rivolgersi. Allora “cibo per il pianeta e energia per la vita” non possono suonare come slogan neutri o fare da pretesto per non discuterne se non sotto un profilo economico-commerciale. L’impostazione purtroppo è quella voluta da Moratti e Formigoni e rilanciata da Renzi e solo mitigata dallo spazio che il Comune di Milano ha offerto all’iniziativa di movimenti e associazioni nella sede esterna della Fabbrica del Vapore e in quella interna di Cascina Trivulzia. In fondo potremmo affermare, semplificando, che negli ultimi dieci anni il Forum di Davos ha messo all’angolo i Forum Sociali Mondiali susseguitesi con successo decrescente da Porto Alegre in poi, offrendo una sua narrazione, a volte addolcita e perfino allettante, del governo mondiale che una oligarchia ristretta intende rafforzare e che la manifestazione ufficiale – quella per cui si entra con un biglietto da 39 euro – recepisce nell’essenza. Una somma di azioni e messaggi imposti per convincere miliardi di persone che l’adozione di strumenti tecnologici potentissimi e di un pensiero unico redento da un po’ di “green washing” sia la sola strada percorribile per superare la crisi, anche a costo del degrado naturale, dello sfruttamento del lavoro, del restringimento della democrazia, della crescente disattenzione all’inclusione e alla qualità della vita. Del resto, la torsione moderata e autoritaria della politica europea e del nostro governo condivide questo orientamento antisociale ma ipocritamente ecologico. Con questi aspetti e con queste volontà in campo bisogna fare i conti se si vuole entrare efficacemente nel dibattito e nel conflitto che l’occasione di una esposizione mondiale porta a Milano, in Italia, in Europa, nel mondo.

La narrazione alternativa, quindi, deve trovare un punto di approdo in netta discontinuità con il riduzionismo che pervade i documenti, sostanzialmente centrati solo sull’alimentazione (la cosiddetta Carta di Milano) portati all’attenzione pubblica. Basterebbe convergere sui quattro elementi congiuntamente – energia, terra, acqua, biosfera – e disporci a ragionare delle relazioni fra essi, per offrire un quadro di prospettiva e di azione in cui anche il nostro futuro sia considerato un bene comune. E intralciare così la realizzazione di una vetrina per nutrire le multinazionali, non certo il pianeta e non dar corda ad un espediente per defilarsi rispetto alla questione del clima e della svolta energetica, necessarie anch’esse per uscire dalla crisi e per creare nuova occupazione e per salvare il pianeta.

EXPO fin qui non parla di diritto all’acqua potabile e di acqua per l’agricoltura familiare. Non parla di diritto alla terra e all’autodeterminazione a coltivarla. Non parla in campo energetico di un approccio territoriale e integrato nei cicli naturali per superare le fonti fossili e il nucleare (al padiglione giapponese è prevista una delegazione di produttori di sakè, assieme a funzionari e politici della prefettura di Fukushima colpita dall’incidente alla centrale nucleare, per dire che il pericolo è passato e che i prodotti provenienti dall’area sono sicuri e, quindi, il nucleare può ripartire!).

Cambiare marcia, significa anche dimostrare che non è vero che per risolvere i problemi del pianeta sono necessarie ancora rinunce e sacrifici, compresa una riduzione degli spazi democratici, anch’essi “eccessivamente costosi”; che non è vero che per uscire dalla crisi è necessario annullare o diminuire radicalmente la presenza del pubblico e privatizzare tutto a partire dai beni comuni; che non è vero che i cambiamenti climatici sono inevitabili perché il progresso identificato con la crescita e l’ingiustizia sociale non penalizza i paesi ricchi come il nostro e non si può fermare.

Andiamo ora ad esaminare più da vicino nei loro specifici contenuti i messaggi rilasciati.

“FOOD FOR THE PLANET”

A Milano il 7 febbraio è stato lanciato un Protocollo mondiale sul Cibo, in occasione dell’avvicinarsi di Expo. La regia anche nella fase di preparazione è stata affidata alla Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition. Una multinazionale molto ben inserita nei mercati e nella finanza globale, ma che poco ha da spartire con le politiche di sovranità alimentare essenziali per poter sfamare con cibo sano tutto il pianeta. EXPO ha da oltre un anno siglato una partnership con Nestlè attraverso la sua controllata S.Pellegrino per diffondere 150 milioni di bottiglie di acqua con la sigla EXPO in tutto il mondo. Il Presidente di Nestlé Worldwide già da qualche anno sostiene l’istituzione di una borsa per l’acqua così come avviene per il petrolio. L’acqua, senza la quale non potrebbe esserci vita nel nostro pianeta, dovrebbe quindi essere trasformata in una merce sui mercati internazionali a disposizione solo di chi ha le risorse per acquistarla. E non è detto che il nostro governo si voglia mettere di traverso a questo orientamento, almeno a giudicare dai più recenti provvedimenti favorevoli alle privatizzazioni.

Per andare oltre la grande vetrina dello spreco o cercare di non dover solo richiamare vicende di corruzione e di cementificazione del territorio, occorre allora introdurre una cultura del cibo, dell’acqua, della terra e dei consumi di risorse non rinnovabili, che rimane marginale tra le espressioni economiche e politiche che governano del mondo. Se l’esposizione resta la passerella delle multinazionali agroalimentari, non parla di povertà se non in modo caritatevole (e qui l’impronta di CL si è fatta ancora sentire!); non allude al land grabbing; non privilegia il diritto alla terra e all’autodeterminazione a coltivarla; sul versante climatico non descrive le rinunce a cui obbligano le grandi dighe e nemmeno che la metà delle emissioni di CO2 provengono dai cicli agro alimentari e dal consumo energetico associato.

In Expo, non certo in contraddizione con l’orientamento che si è data, si dispiega la sfilata del cibo di “eccellenza”. L’atto del mangiare ormai si è elevato al rango di rito. Si mangia ma soprattutto si specula, si medita e si chiacchiera di e attorno al cibo come non era mai accaduto prima. Sembra quasi che gli alimenti abbiano sostituito le idee e che siano diventati il simbolo di una società che sta perdendo di vista i diritti delle persone che non possono permettersi il nostro tenore di vita. In EXPO Farinetti vorrebbe fare da contraltare a McDonald’s, ma è come se un mercante si contrapponesse al re dei supermercati. Al punto da irritare anche Carlin Petrini, che, invitando a ripartire dai giovani contadini, definisce la sequenza degli edifici magniloquenti “Esposizione del commercio” e “Circo Barnum”. E, dopo essersi lamentato perché il padiglione di Slow Food è stato messo in un angolo a 1,8 km dall’ingresso, continua “Mi sarebbe piaciuto che Expo 2015 fosse un’agorà nella quale le varie scuole di pensiero potessero confrontarsi sulle contraddizioni del sistema alimentare. Possono forse stare assieme l’agricoltura industrializzata e quella di piccola taglia? Sono portato a pensare di no” (Corriere della sera 15 Maggio). Forse gli organizzatori avevano auspicato di fare di Slow Food la compensazione di McDonald, ma proprio per prendere le distanze – questa volta in maniera efficace – Slow Food organizzerà a Ottobre l’edizione di Terra Madre che por­terà a Milano cen­ti­naia di gio­vani con­ta­dini da tutto il mondo e porrà l’attenzione sulle normative che oggi penalizzano le produzioni su piccola scala per favorire le grandi.

Ma è la Fao e soprattutto sono i Sem Terra Brasiliani a portare l’attacco più duro a come si sta realizzando l’esposizione mondiale. José Graziano da Silva, direttore generale dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO), dice chiaramente che, oggi, l’agricoltura “non è sostenibile” e che se si vuole “coltivare e preservare” si richiede un profondo cambiamento dei modelli di produzione. La persistenza della fame non è dovuta a mancanza di cibo: mancano risorse alle famiglie povere per produrre o acquistare. Manca il credito alle famiglie di agricoltori, l’assistenza e l’accesso alla terra. Persiste invece l’uso di input chimici e macchinari, l’aumento della deforestazione, il degrado del suolo, l’inquinamento delle acque e la perdita di biodiversità e di risorse genetiche. Proprio quello che la rassegna milanese non vuole mettere in luce.

ENERGIA PER LA VITA

Partendo dal modello agroalimentare, l’unico ampiamente trattato sia nella fase preparatoria che dentro i confini della manifestazione, è venuta a mancare una riflessione conseguente sia sotto il profilo della progressiva accelerazione delle modificazioni climatiche, che del consumo di pesticidi e di concimi ad alto contenuto energetico, sia, infine, dello spreco dei sistemi di trasporto e di imballaggio, che delle destinazioni a combustibile delle coltivazioni. Come trascurare che l’agrobusiness da cibo, rivolto solo al 30% degli abitanti del pianeta, pur disponendo dell’80% della terra arabile e del 70% di acqua e carburante per l’uso agricolo, è responsabile dell’emissione del 48% dei gas serra totali?

In ogni caso, un intervento su questi aspetti scollegato dal mutamento del modello energetico fossile-nucleare centralizzato rischierebbe di non prendere in considerazione i cambiamenti anche organizzativi e sociali che sono necessari per dar vita ad economie territoriali in armonia con la natura, oltre che a risparmio di materia e non solo di energia.

EXPO, di nuovo, non mette a fuoco quanto occorra ridurre da subito l’uso di combustibili fossili (e le relative emissioni) – quindi le importazioni sul piano nazionale – puntando sulle fonti rinnovabili e l’efficienza energetica in ambito produttivo, nella mobilità e in edilizia. La rassegna convive con i costi di inutili infrastrutture e senza la dovuta tensione a creare nuove occasioni di lavoro qualificato. Non c’è, almeno finora, alcuno spunto di riflessione almeno su tre linee di direzione perché tra energia e vita si ristabilisca un legame virtuoso.

  1. Sospendere quanto prima la combustione di carbone e non mascherarla col sequestro di CO2; fermare il nucleare; ridurre il consumo di gas e impedire la estrazione di gas da scisto e da sabbie bituminose; sostituire progressivamente il petrolio in autotrazione; produrre entro il 2050 il 100% di elettricità da rinnovabili.
  2. Non ricorrere all’utilizzo dei biocarburanti e ai loro impieghi industriali come le bioplastiche, in contrasto con il diritto all’alimentazione e la lotta alla povertà.
  3. Ricondurre al carattere pubblico originario le municipalizzate e le aziende locali dell’energia e farne il perno della delocalizzazione della produzione e il centro di partecipazione al ridisegno energetico delle città e dei territori. Esattamente il contrario di quanto è in corso In Italia, dove la politica del governo Renzi e l’indebitamento degli enti locali spinge a completare la privatizzazione di (ex) municipalizzate strategiche (come A2A nel caso del Comune di Milano e della Lombardia).

In definitiva, non recependo il “link” energia – clima si finisce col sottovalutare il contesto globale nel quale si colloca un’iniziativa che vorrebbe essere globale. Eppure lo sconvolgimento climatico sta già avendo e sempre più avrà drammatiche conseguenze proprio sull’agricoltura e sull’alimentazione per tutti gli abitanti del pianeta, non solo per il miliardo di persone oggi al di sotto del livello di sopravvivenza. Eppure il cambiamento climatico è responsabile degli eventi meteorologici estremi e dei conseguenti gravi danni alle colture agricole, oggetto ormai da tempo di richieste specifiche di risarcimento ai Governi, non davvero solo in Italia. Il cambiamento climatico impatta sul calendario delle pratiche agricole, in particolare quelle vitivinicole, produce una crescente diffusione di agenti patogeni e di insetti nocivi su aree geografiche sempre più vaste, altera i ritmi di fioritura o di sviluppo di un sempre maggior numero di specie vegetali.

Come non riflettere sui fatti: le attuali forme di produzione agroalimentare (solo produzione, escludendo trasporti, conservazione e distribuzione) comportano, a livello mondiale, un consumo dell’80 per cento dell’acqua dolce, richiedono il 30% del fabbisogno energetico mondiale e sono responsabili del 24% delle emissioni di gas serra (CH4 e N2O); sono cioè parte di un feedback positivo, di un circuito perverso che alimenta continuamente la causa delle drammatiche conseguenze che induce.

L’urgenza di far fronte alla minaccia climatica è stata segnalata, ormai da molti anni, dai pronunciamenti delle Accademie delle Scienze (2005, 2006), dai vertici mondiali sul clima e dallo stesso obiettivo politico della UE. Obiettivi divenuti il punto di riferimento del dibattito dei 195 governi che si stanno preparando per CoP 21 a Parigi, proprio in concomitanza con la chiusura di Expo. Una profonda svolta nella gestione umana del circuito energia, acqua, terra, biosfera si rende quindi necessaria e inderogabile. Verso nuove forme di sviluppo economico-sociale, che impieghino saperi, tecnologie, intelligenza e lavoro dell’uomo nella gigantesca impresa di praticare tutte le attività umane in sintonia coi grandi cicli della natura.

L’assenza di questi collegamenti preoccupa per le scadenze in corso e, nondimeno, per la discussione sul riutilizzo dell’area EXPO, di cui tratterò più avanti.

LA “CARTA DI MILANO” E IL DEBOLE RUOLO DEL COMUNE

La “Carta di Milano” viene da lunghe discussioni a relativamente ampia, anche se selezionata, partecipazione. E’ stata pre­sen­tata coi toni dei grandi eventi isti­tu­zio­nali che cam­biano la Sto­ria. Quelle idee, abbozzate come opzioni in un lungo e articolato documento, ancorché mai espresse come vincolo, non ci sono nell’Expo reale. Per di più, il testo revisionato e messo a punto come base conclusiva di discussione dalla Fondazione Feltrinelli, il cosiddetto Protocollo mondiale sulla nutrizione sottoposto alla firma del pubblico, sfuma a tal punto tutti i contorni da risultare complice dello status quo, senza una effettiva presa di posizione per un cambio di passo futuro. Carlin Petrini lo definisce un “documento-pappetta”. Innanzitutto, non pone al centro la sovranità alimentare e il diritto alla terra attraverso la limitazione dello strapotere e del controllo delle multinazionali, in particolare quelle dei semi. Non c’è poi netta contrarietà agli OGM, che sono il paradigma di una espropriazione della sovranità dei contadini. Si sen­tono sì, nella prosa accattivante, il lin­guag­gio, le dif­fi­coltà, le media­zioni e i con­tri­buti di tanti docenti, per­so­na­lità e realtà asso­cia­tive che hanno cer­cato di miglio­rarlo, ma, pur­troppo, il loro one­sto sforzo si è tra­dotto uni­ca­mente in un sac­cheg­gio del lin­guag­gio dei movi­menti dei con­ta­dini e di coloro che si bat­tono per la difesa dell’acqua come bene comune e in favore delle ener­gie alter­na­tive al petrolio. Si tratta – e questa è la questione più imbarazzante – di una grande ope­ra­zione media­tica.

Nella Carta-Protocollo si parla di diritto al cibo equo, sano e soste­ni­bile; si accenna per­sino alla sovra­nità ali­men­tare, si ricorda che il cibo oggi dispo­ni­bile sarebbe suf­fi­ciente a sfa­mare in modo cor­retto tutta la popo­la­zione mon­diale, si spre­cano parole nate e vis­sute nella carne dei movi­menti. Ma poi? La respon­sa­bi­lità di tutto que­sto sarebbe solo dei sin­goli cit­ta­dini: dello spreco fami­liare (che è invece sur­plus di pro­du­zione) che andrebbe, come soluzione, orien­tato verso i poveri e verso le opere cari­ta­te­voli.

Contemporaneamente, un numero rilevante di associazioni ha elaborato un suo documento. Il comune di Milano, anche per cercare di far emergere una sua relativa autonomia nella kermesse in corso, ha favorito le iniziative di Expo dei Popoli, una federazione di associazioni internazionale, che ha chiamato a raccolta oltre 150 delegati da tutto il mondo. Lo scopo principale delle iniziative promosse è quello di affiancare le voci dei popoli a quelle dei governi e delle imprese transnazionali, illustrando soluzioni alternative messe in campo per far fronte ai problemi globali di accesso al cibo e alle risorse naturali. Ovviamente in posizione più marginale rispetto a EXPO 2015. Il manifesto prodotto da Expo dei Popoli è centrato sulla Sovranità Alimentare, sulla giustizia ambientale e i diritti umani e sulla constatazione che l’agrobusiness dà cibo solo al 30% degli abitanti del pianeta ed è responsabile, con il suo modello di produzione di cibo – che fa gran uso massiccio di energia, pesticidi e antibiotici – dell’emissione della metà dei gas serra totali. Alcuni dei firmatari di questo testo hanno sottoscritto anche il Protocollo, dando il segno della confusione e dell’impegno prevalentemente formale che si sono assunti. Questo fatto crea imbarazzo se ci si attiene ai contenuti e non ad una generica buona volontà. Come andare d’accordo infatti con affermazioni come “la grande sfida che le società contemporanee si trovano ad affrontare è quella di riconciliare la sostenibilità socioeconomica e ambientale con la crescita socioeconomica e il benessere”?

Questo è il fulcro del Protocollo: il giudizio per cui le ineguaglianze sociali attuali sono frutto dell’inefficienza economica e della mancanza di innovazione tecnologica. In sostanza, si polarizza al massimo l’attenzione sugli sprechi, cioè su quello che le multinazionali dell’agrobusiness e della grande distribuzione non riescono più a vendere, (surplus che viene buttato via), invece di voler ridurre la produzione, renderla sostenibile e distribuire equamente quello che viene attualmente prodotto. Si presume che il cibo sia una merce qualsiasi, (non un diritto) da quotare in borsa, sulla quale si può speculare, seppure con parsimonia. Esiste, cioè, una speculazione non eccessiva e non dannosa! Non si dice che lo spreco è sovrapproduzione dell’industria agroalimentare ed il risultato di un modello distributivo insostenibile. Lo stesso Protocollo, quasi a giustificazione, poi allega una bibliografia imponente e autorevole: anche per questo non va banalmente demonizzato. Contiene alcune – poche – analisi e proposte certamente innovative e condivisibili, ma l’impianto che ignora la necessità di una riconversione dall’agricoltura industriale a partire dai territori e dall’agricoltura familiare; le priorità che suggerisce; l’omissione di argomenti come l’acqua, il diritto all’acqua e il peso inquinante dell’agricoltura industriale sul consumo di energia fossile in particolare, inducono a prendere le distanze. Viene infine espresso un concetto molto ambiguo: quello di “una miglior pianificazione dei consumatori”, che richiama quella spinta al “Cibo Unico”, così cara a Macdonald’s e all’Agrobusiness e all’accaparramento della terra. E imprudentemente si avanza la prospettiva di decarbonizzare la produzione agricola tramite la cattura e il sequestro della CO2 (!?). In quanto ai pesticidi, vi si accenna solo per dire che bisognerà fare valutazioni sul rapporto tra il loro uso e la produttività…

IL LAVORO IN EXPO

Il modello di lavoro di EXPO si fonda sul lavoro gratuito e la precarietà come norma. L’accordo siglato da CGIL CISL UIL nel luglio 2013stabilisce che gran parte di coloro che faranno funzionare la Fiera lo faranno pressoché gratuitamente. Per l’esattezza, circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato o da stagista, con una retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili. Si tratta di fatto di una deroga normativa, incompatibile con una manifestazione che si annuncia sotto le vesti del prestigio, dell’eccellenza. Ma questi 800 lavoratori sottopagati sono comunque favoriti rispetto a quanti avranno un orario giornaliero obbligatorio e turni senza retribuzione. Considerati volontari, riceveranno buoni pasto quotidiani. Erano inizialmente previsti 18.500 lavoratori, turnanti su “485 opportunità di volontariato”, in contraddizione con la norma che stabilisce che il volontariato è “espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale”. E invece, sono alle dipendenze di SpA con finalità inequivocabili, in regimi di impresa che hanno perfino peggiorato le condizioni previste dal Job Act a esclusivo scopo di profitto.

Difficile è ora recuperare la sfera dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e immaginare e costruire forme di lavoro più dignitose. Non è un caso, se a un mese dall’apertura, le cronache si riempiono di episodi esecrabili. I contratti precari e a tempo determinato misurano senza equivoci la distanza tra promesse e umiliazione. E’ la questura (!) che introduce un nuovo capitolo nella contesa sui diritti, negando ai neoassunti il pass per entrare nel sito espositivo sulla base delle opinioni politiche o, semplicemente, per la loro partecipazione in passato a manifestazioni di dissenso, non solo verso EXPO. E’ una vicenda di tale assurdità nel panorama civile di un’Italia che conosco più direttamente dagli anni ‘70, da riportarmi a quando il primo Maggio 1970 da militare venivo esentato dal montare la guardia in caserma perché “rosso”, come indicavano il mio maresciallo e la nota dei Carabinieri del mio paesino. La Cgil di Milano individua ormai in un centinaio i licenziamenti eseguiti a inizio Giugno su indicazione di Prefettura e Questura. L’osservazione degli escludibili avviene attraverso i loro profili rintracciati sui social network e, quindi, siamo di fronte ad una combinazione perversa tra negazione dei diritti costituzionali, soppressione dell’articolo 18 e facoltà di controllo da lontano e dal di fuori – al limite della spiata – non solo della prestazione, ma addirittura della storia politico-sociale del dipendente. Nelle lettere di licenziamento viene usato ancora una volta lo stesso linguaggio militare che adottava l’AD Sala nelle sue dichiarazioni precedentemente riportate: “le regole d’ingaggio, per essere accreditati a Expo 2015 sono differenti da quelle di qualunque altro evento, in quanto l’Expo è stata dichiarata obiettivo sensibile”. Una militarizzazione imprevista, simile a quella che il decreto “Sbloccaitalia” ha introdotto nei confronti del dissenso dei movimenti e delle amministrazioni locali per dare realizzazione alle grandi opere di interesse strategico, ma che non ha precedenti nell’ordinamento nazionale, se non nell’eccezione dei siti nucleari. Secondo le testimonianze fornite dai sanzionati, in base al clima che si è instaurato al Ministero degli Interni, basta aver lavorato con rifugiati politici, l’aver partecipato a manifestazioni sulla scuola o l’aver frequentato centri sociali per essere allontanati.

Queste ombre su EXPO chiariscono bene come si tratti di una esibizione non esattamente aperta al confronto: un tratto del pensiero unico allungato su due slogan dei movimenti altermondialisti, una zona con regole straor­di­na­rie, fino al licenziamento politico. Siamo alla constatazione paradossale per cui a Expo la libertà di pensiero delle per­sone è con­si­de­rata più peri­co­losa dell’attività mafiosa. D’altra parte, le avvisaglie di uno stato d’eccezione le aveva date il Presidente del Consiglio quando aveva prefigurato, in occasione della Festa del Lavoro, una contrapposizione tra i cortei autorizzati dei lavoratori e le ricorrenze per l’apertura ufficiale, convinto probabilmente di potersi avvalere nelle sue forzature della stupidità dei “black block” d’occasione.

DOPO EXPO?

Non basta cercare di far sì che EXPO non rimanga una vetrina: occorre guardare oltre, superare il tempo dell’esposizione, affinché, una volta letto ed interpretato il paradigma che rappresenta, si condividano forme di critica sociale e, in particolare, di costruzione di alternative produttive, lavorative e di innovazione istituzionale all’altezza della fase che stiamo attraversando. Mi sembra che si debba decidere fin d’ora il destino delle aree di Expo, non lasciandole unicamente in mano alla speculazione e agli appetiti della criminalità organizzata e che, su quei terreni, oltre alle attività a cui accennerò tra poco, venga indicata una sede per un’istituzione internazionale finalizzata a tutelare l’acqua, il cibo e le fonti rinnovabili come beni comuni a disposizione di tutta l’umanità. Una sede dove i movimenti sociali come i Sem Terra, Via Campesina, le reti mondiali dell’acqua, i comuni e le regioni che sviluppano piani energetici locali (PAES), le organizzazioni popolari e i governi locali e nazionali discutano la politica per la vita. Una sede nella quale la Food Policy diventi anche Water Policy, Energy Policy e dove si discuta la costituzione di una rete di città che assumano una Carta dell’acqua, del Cibo e dell’Energia naturale, nella quale si inizi a concretizzare localmente la sovranità alimentare, il diritto all’acqua e all’energia elettrica, la loro natura pubblica, la non chiusura dei rubinetti a chi non è in grado di pagare, la cooperazione tra produttori e consumatori di cibo e energia, la costituzione di un fondo per la cooperazione internazionale verso coloro che non hanno accesso all’acqua potabile nel mondo.

Quello che lascerà EXPO dipende anche da noi e da come le proposte alternative sapranno interagire con le forze in campo. Innanzitutto, i terreni su cui sorge dovranno diventare il simbolo dell’impegno di cittadini e istituzioni per la lotta alle ingiustizie, alla povertà, per la tutela dei Beni Comuni, per lo sviluppo sostenibile. Ma non sarà affatto scontato: si continua a vedere l’Expo come un Evento e il Post Expo come un altro Evento e, intanto, di progetti per dopo se ne contano pochi. La politica vede l’evento mediatico e commerciale, ma non vede come debba cambiare la filiera industriale, come le infrastrutture siano altre dalla cementificazione e dal consumo di suolo, come i posti di lavoro duraturi debbano costituire l’approdo alle migliaia di giovani che prestano la loro opera in Expo. Una gestione pubblica dell’aerea significa un ritorno dell’enorme investimento di Governo, Regione e Comune in benefici duraturi.

Per quanto mi riguarda, una possibilità assolutamente attuale sta nel recuperare l’idea già discussa a suo tempo in Lombardia per la riconversione ecologica dell’area dismessa dello stabilimento ex-Alfa di Arese, oggi impudentemente occupata dal più grande centro commerciale d’Europa, trainato lì dalle clientele formigoniane e dalla vicinanza dell’esposizione mondiale. Si trattava, quando elaborato nei primi anni 2000, di un progetto per la mobilità sostenibile e per una filiera di produzione e stoccaggio di energia da fonti rinnovabili, approfondito in un team di ricercatori guidati da Rubbia e organizzati nell’ENEA. Uno studio di fattibilità che oggi andrebbe esteso sulla base delle esigenze non più solo regionali, ma nazionali ed europee.

Il progetto, di fatto mai preso in considerazione dalla Giunta regionale lombarda che l’aveva commissionato d’intesa con Fim Fiom Uil, integrava le risorse esistenti in un piano di mobilitazione delle forze sociali, scientifiche e produttive per lo sviluppo di processi “virtuosi” tra ricerca/industria/produzione. Le ragioni collimavano in gran parte con quanto oggi muove ad EXPO la critica più responsabile: individuare soluzioni alla crisi ambientale del territorio lombardo; riqualificare il sistema industriale in distretti di avanguardia; riposizionare l’impegno della ricerca avanzata nel settore decisivo della mobilità, attivare le componenti innovative ed hi-tech della struttura produttiva che rivelano una difficoltà di aggancio alle linee di sviluppo sostenibile. Veicoli di nuova concezione, una rete di centri di ricerca di base ed applicata per tecnologie software e hardware di governo del traffico (oltre dieci anni prima del conflitto tra Huber e i tassisti!), la realizzazione di una filiera delle rinnovabili orientata verso soluzioni ai nodi della mobilità. Alla fine sono stati proprio i ceti burocratici-parassitari e legati all’economia della speculazione che si sono premurati in Lombardia di affossare quel progetto: perché non riattualizzarlo?

Per quanto riguarda i primi accenni di discussione che sono stati portati all’onore della cronaca, condivido alcune opinioni di Pierluigi Caffese, un esperto di energia e politiche industriali, sulla scarsa efficacia e sull’aleatorietà delle proposte finora avanzate per il futuro dei terreni dove si sta svolgendo EXPO (ciclo della moda, campus universitario, sincrotone per la ricerca). Il Rettore dell’Università di Milano in una intervista al Corsera dice che basta una piattaforma e un big data per il Post Expo, con un Campus per 15.000 studenti. E intanto ci si azzarda su impianti prestigiosi ma costosissimi per la fisica di base, mentre la Triennale riflette su un centro di richiamo per la moda e il design. Si potrebbe davvero essere più ambiziosi rispetto ad un progetto di trasloco universitario o ad un impianto-evento su piccola scala a qualche centinaio di chilometri dall’LHC di Ginevra o, ancora, ad un progetto-evento di 6 mesi.

Ritengo, in ogni caso, che Milano abbia bisogno di un progetto industriale manifatturiero che corregga l’illusione delle smart cities e dei piani energetici redatti come tesi di laurea, che non creano lavoro e sono sovente solo un appesantimento burocratico comunale per accedere ai fondi europei. Interessante sarebbe un vero progetto industriale che metta in sicurezza la Comunità Lombarda e Milanese per energia, smog, acqua e salute e colleghi le Università e i centri di ricerca dandogli un luogo e un’occasione per collaborare al di fuori dei loro spazi abituali. Certamente, l’obiettivo di nuova occupazione e la ricaduta sulla qualità ambientale e della vita in una dimensione locale-globale è praticabile solo se si hanno grandi idee a Milano. Mi azzardo a suggerire che l’irruzione del digitale nella manifattura e nelle aziende contadine, lungo l’intero ciclo, fino a smontaggi, riciclo, discariche e rifiuti, potrebbe trovare una nuova eccezionale occasione espansiva, applicabile al bisogno di fonti rinnovabili, di agricoltura sostenibile, di risparmio di materia e energia. In questo la Giunta di Milano e Lombardia sembra timorosa: le massime aperture sembrano riguardare per ora l’alimentare e, per dirla tutta, le multinazionali che già vendono in Italia e Europa. Il Governo poi risulta addirittura assente, quando si pensa che il Ministro Martina con delega ad EXPO ha dichiarato: “Non sono interessato al dibattito su chi deve decidere del futuro delle aree Expo; se ci chiamano ci saremo con la Cassa Deposi e Prestiti”.

Ma la discussione potrebbe decollare con l’intervento delle forze produttive, del sindacato, della stessa FIOM , che prefigura una coalizione sociale con al centro sviluppo e lavoro in discontinuità con il presente.

C’è comunque da augurarsi che EXPO diventi luogo almeno di critica, se non di riconsiderazione del nostro futuro e che possa contribuire a superare lo stallo in cui ci potrebbero incastrare due contesti internazionali che scorrono paralleli e divergenti da slogan per ora sulla carta come “food for the planet e energy for life”: il TTIP e la Cop 21 di Parigi, dove le multinazionali dismetteranno l’aspetto accattivante della Fiera e giocheranno per intero la carta della supremazia sui popoli sovrani.

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Montenegro, il carbone di A2A: importeremo energia inquinante?

dal Blog di Mario Agostinelli

L’11 giugno, i cittadini milanesi e bresciani, ancora – ma per poco – possessori di maggioranza con il 54,5% delle azioni della ex municipalizzata A2A potrebbero scoprire che le loro azioni – praticamente a loro insaputa – sono complici e decisive per la produzione di elettricità a carbone nella centrale di Pljevlja, nel Montenegro. Infatti è in quel giorno che si riunisce l’Assemblea di quella che oggi è una Società per Azioni, dove le decisioni sono sostanzialmente delegate ai manager e la politica industriale e finanziaria è solo sfiorata dai rappresentanti dei comuni e dei cittadini.

Non c’è dibattito alcuno sui giornali milanesi in questi giorni. Ma ci sono tutte le probabilità che nell’assemblea di A2A si deciderà per il carbone, come si dice, zitti zitti… Noi siamo stati sollecitati ad occuparcene, tramite il WWF internazionale, da un comitato locale di Pljevlja, che si oppone agli scavi nella vicina miniera di lignite (il carbone a più elevata emissione di CO2) e al potenziamento dei gruppi della centrale, nota in tutto il Montenegro per il suo inquinamento.

A2A montenegro

Che c’entra, direte, A2A? Queste sono le sorprese delle privatizzazioni più o meno striscianti che trasformano prima le municipalizzate in SpA, per poi lasciare ai comuni un controllo che, se inizialmente è di stretta maggioranza, finisce per scendere a quote al di sotto del 51%, magari in nome della maggior trasparenza del mercato.  Un mercato come quello dell’energia, che invece le sue regole le discute in conventicoli sempre più ristretti, di cui sono all’oscuro perfino i sindaci e gli assessori e senza potere i delegati comunali nelle assemblee delle ex-municipalizzate.

Secondo le informazioni della Reuters il governo del Montenegro ha costruito una partnership con A2A al 42%, che ha dato vita all’utility EPCG. La decisione presa dal governo montenegrino è di affidare ad una società ceca del gruppo Skoda la costruzione di un secondo gruppo a carbone da 253 MW, che affiancherebbe quello già esistente. Il Montenegro non ha bisogno dell’energia di due gruppi (il primo già dispone di una potenza 210 MW di potenza e ci sono impianti idro per 657 MW di capacità). A2A garantirebbe un finanziamento alla costruzione attraverso Unicredit.

Visto l’allargamento del campo, noi temiamo che sotto questi interessi in terra straniera (ma non sarebbe meglio che le municipalizzate si occupassero di energia sostenibile nei loro territori di competenza?) ci possa essere l’esportazione verso l’Italia di energia inquinante a basso costo attraverso il progettato elettrodotto dell’Adriatico.

Il governo infatti insiste a realizzare un’opera, l’interconnessione elettrica fra l’Abruzzo e il Montenegro, dal costo di circa un miliardo di euro, che forse dovremmo accollarci come contribuenti. Rispetto a 10 anni fa, quando fu pensato, il progetto ormai non ha più alcun senso economico visto le mutate circostanze del nostro sistema energetico, molto più decentrato e sorretto da energia naturale e locale.

Ormai i grandi investitori rinunciano al carbone in tutto il mondo. Che dire allora di A2A e governo? E cosa hanno da dirci l’Assemblea di A2A dell’11 giugno e la Giunta e i Sindaci di Milano e Brescia? Negli stessi giorni in cui è in corso l’Expo con lo slogan “Energia per la vita”…

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Convegno “L’efficienza energetica al servizio dell’economia e della sostenibilità: best practice e case studies”

Lunedì 15 giugno 2015, ore 9.30, Spazio Eventi – Centro Svizzero

Convegno organizzato dalla Camera di Commercio Svizzera in Italia in collaborazione con ABB, Alpiq, Axpo, BKW e Repower, dedicato alla sostenibilità e all’ efficienza energetica con esempi di eccellenze da parte dei principali player svizzeri operanti in Italia.

Convegno “L’efficienza energetica al servizio dell’economia e della sostenibilità: best practice e case studies”

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Analisi della Conferenza di revisione del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare (NPT)

Mario Agostinelli da New York

Care/i
ho avuto la fortuna di poter partecipare alle sessioni finali, ovviamente convulse, della prevista ratifica del nuovo NPT, approfittando del mio soggiorno coi nipoti a Washington e della vicinanza della Capitale a New York. Mi sono stati di grande aiuto i suggerimenti e le valutazioni di Mosca e Navarra e ho cercato di trarre impressioni dirette: la fase finale era così intensa che i miei incontri si sono limitati a persone certamente più dentro di me nella questione, ma non parte diretta della trattativa. Le delegazioni erano inavvicinabili per un “giornalista” quale io apparivo nel badge, ma ho trovato il modo per far avere loro le fotocopie della nostra petizione ed ho brevemente scambiato valutazioni con un delegato cubano ed uno brasiliano a sessione ultimata.

Ecco di seguito la mia relazione e le mie impressioni/valutazioni.

L’ambiente – manifesti, un concerto la sera, piccoli cortei interni – richiamava la concomitanza con il 70esimo anniversario dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, con il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki ad opera degli Stati Uniti.

Il clima era teso e confuso, segnato dalla divisione drammatica tra i detentori degli arsenali nucleari, con il codazzo degli alleati ipocritamente defilati (il caso dell’Italia è emblematico: totalmente assente, non rilevabile affatto ai miei occhi di osservatore inesperto) e i tre gruppi di Paesi che, con accenti diversi, hanno posto la “questione umanitaria” in un modo inedito: il possesso di armi nucleari è una violazione del diritto umanitario e quindi non una questione di “legittimità”, ma una infrazione al diritto internazionale, con tutte le verifiche, le scadenze temporali e le conseguenze sul piano economico, industriale e militare, perché nei Paesi “nucleari” si raggiunga e realizzi lo stato di “non possesso”.

In questo campo e su questo percorso si realizzerebbe il massimo di cooperazione a livello mondiale e si tradurrebbe il NPT in un autentico processo di disarmo nucleare totale. I gruppi di Paesi si possono identificare, per quel che ne ho capito, in tre capofila: Cuba con la posizione più netta, Brasile con una posizione intermedia, Austria con una posizione più morbida, ma forse più significativa perché rompe con la posizione ufficiale del Commissario per gli esteri UE. Devo dire senza diplomazie, che nel suo intervento un po’ penoso, che ho letto, la Mogherini è riuscita a non dire nulla di significativo ed ha fatto apparire la UE sostanzialmente una depandance della Nato.

Cuba ha con forza condannato l’ammodernamento degli arsenali e su questo è stata seguita dai Paesi dell’America Latina (In Italia il ministro Pinotti confermava negli stessi giorni l’acquisto di tutti gli F35 programmati, l’unico velivolo in grado di teleguidare le atomiche in ammodernamento a Ghedi e Aviano!); ha chiesto una zona denuclearizzata in Medio Oriente (in questo appoggiata con prudenza da Della Vedova a nome del nostro Governo); l’eliminazione dal 2015 delle ami nucleari entro 20 anni (costituendo in questo la punta più radicale). Il Brasile ha confortato questa posizione con minore determinazione sulla definizione di una data.

L’Austria ha raccolto il massimo di adesioni attorno ad un documento (Humanitarian Pledge) che elimina la lacuna giuridica per la proibizione e l’eliminazione delle armi nucleari e sostiene che le riduzioni non costituiscono disarmo a meno che non siano intraprese nell’ambito di un quadro per l’eliminazione totale.

Gli stati dotati di armi nucleari hanno invece continuato a respingere l’idea che sia necessario qualcosa di più che le riduzioni che hanno già intrapreso o hanno promesso che potrebbero prendere in futuro. Chiaramente non vedono il loro continuo possesso di armi nucleari come in contrasto con il Trattato, anzi, vedono il NPT come il “loro” trattato.

Tutto faceva presumere che si sarebbe arrivati ad un vuoto compromesso in cui, tra mugugni e qualche contrario, il trattato avrebbe promesso grandi impegni, ma di fatto bandito la prospettiva del diritto umanitario e del disarmo totale. Il fatto nuovo e a mio avviso positivamente maturo per la corrispondenza con la società civile (per la verità ancor poco mobilitata) sta nel rifiuto della maggioranza dei Paesi (l’80% secondo la dichiarazione dell’Irlanda) di stare al gioco dei possessori degli arsenali nucleari e di non aver accettato il documento finale proposto dal presidente di turno nell’ultima giornata.

La stampa – che in Italia non ha seguito affatto la vicenda, essendo occupata a inseguire benevolmente le tappe di un processo eversivo della Costituzione intentato da Renzi (ma ne parleremo un’altra volta) – ha attribuito il fallimento all’opposizione dei filoisraeliani alla denuclearizzazione del medio oriente o alle visite obbligatorie agli impianti di Tel Aviv o, ancora, al divieto coreano di recarsi in visita a Hiroshima e Nagasaki. Per me sono balle. Lo conferma il documento finale ONU: “The negotiations had sharply divided states that possess nuclear weapons and those that do not”.

A mio avviso, il vero risultato di questa Conferenza sarà l’Humanitarian Pledge. E l’impegno che contraddistingue i suoi contenuti, sostenuti con ancora più forza dai paesi latino americani, dal SudAfrica e da Cuba e finalizzati a promuovere riunioni della Conferenza di revisione del TNP a partire da questo documento, con un percorso parallelo della società civile e in un quadro di definizione di un nuovo strumento legalmente vincolante sulle armi nucleari.

Con oltre 100 Stati che hanno finora approvato l’impegno internazionale per colmare il divario per la proibizione legale e l’eliminazione delle armi nucleari, sarà possibile e realistico realizzare progressi reali sul disarmo nucleare multilaterale. E, oltre alle autorevoli parole del Papa, va annoverata la dichiarazione recente del Segretario generale dell’ONU Ban Ki Moon “Il trattato di non proliferazione nucleare ha l’obiettivo di eliminare tutte le armi atomiche”.

Queste sono mie valutazioni di prima impressione e vorrei il conforto di una discussione e di riflessione dei pacifisti e degli esperti più addentro ad una questione di enorme rilevanza, ma anche estremamente complessa. Un argomento che io conosco ancora con una approssimazione pari alla passione che ha suscitato in me l’occasione della pubblicazione del libro Esigete! di Stephane Hessel.

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