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Elettricità per tutti? Sì, solo se rinnovabile
Il 19 maggio il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon, mostrando il proprio cellulare ad Oslo davanti al pubblico, ha chiesto: “Che cosa faremmo senza di loro? Siamo tutti dipendenti dall’elettricità per telefoni, luce, riscaldamento, condizionamento e refrigerazione”, ma ancora ci sono miliardi di persone nel mondo che non hanno il vantaggio della maggior parte di questi servizi energetici. Secondo le stime della Banca Mondiale, circa 1,1 miliardi di persone non hanno accesso all’elettricità, e più di 3 miliardi di persone o bruciano legna, sterco e carbonella nei braceri o si affidano ai combustibili più inquinanti come il cherosene per cucinare o riscaldare le loro case.
Martin Krause, direttore del Global Energy Policy Team del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) ha affermato che per raggiungere l’accesso universale all’energia sostenibile entro il 2030 occorre eliminare la povertà estrema e la fame e passare rapidamente alle fonti rinnovabili superando la resistenza delle major dei fossili e del nucleare. Per oltre un miliardo senza elettricità è necessario un approccio mirato e decentrato (cioè mini-reti, sistemi domestici solari, impianti micro-idroelettrici) per raggiungere così anche i più poveri, prevalentemente nelle zone rurali.
Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (UNIDO), l’accesso universale alle fonti energetiche rinnovabili può essere raggiunto ad un costo di circa 48 miliardi di dollari all’anno e 960 miliardi di dollari nel corso di un periodo di 20 anni. Tra il 2010 e il 2012, il numero di persone prive di accesso all’elettricità è sceso da 1.200 a 1.100 milioni: un tasso di progresso molto più veloce rispetto al periodo 1990-2010. In totale, 222 milioni di persone hanno avuto accesso all’elettricità in due anni: per la prima volta una quantità superiore all’aumento della popolazione (138 milioni di persone). Questi miglioramenti, sostiene il rapporto, si sono concentrati in Asia meridionale e Africa sub-sahariana, e soprattutto nelle aree urbane disperse (gli slum). Il tasso di elettrificazione globale è aumentato dall’83% nel 2010 all’85% nel 2012 ed è per la quasi totalità dovuto alle rinnovabili.
Eppure, secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel mondo si spendono 5300 miliardi di dollari l’anno (10 milioni di dollari ogni minuto!) in sussidi ai combustibili fossili: oltre 100 volte la richiesta per l’accesso universale alle fonti rinnovabili. Il calcolo del FMI è fatto non solo sui sussidi diretti dei governi (oltre 500 milioni) per favorire sul mercato carbone, gas e petrolio, ma anche sui danni ambientali da riparare. Questa definizione di “sussidio” è una straordinaria novità, che dice come deve essere percepita la questione climatica anche in termini economici. Il FMI introduce il concetto di sussidi “post-fiscali”: affermando in sostanza che i governi dovrebbero tassare l’energia – combustibili fossili, principalmente – oltre il loro prezzo di mercato, per tenere conto dell’inquinamento atmosferico, del riscaldamento globale, e di altri danni sociali che provocano.
Gli economisti di solito si riferiscono a questi danni sociali come “esternalità”, ma, al di là del dettaglio del calcolo, una istituzione economico-finanziaria di quel peso contraddice le politiche energetiche che ostacolano le rinnovabili. Intanto da noi si predispongono le perforazioni ad Ombrina Mare!
Ilva, Alcoa, Sulcis e l’energia fossile di Passera
di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano online – 2 ottobre 2012
Ilva, Alcoa e Sulcis rimbalzano cupe nelle manifestazioni di piazza, mostrando a dito l’impotenza dei banchieri, dei professori al governo, dei maghi dello spread quando si tratta di affrontare la crisi dal lato delle persone in carne ed ossa. Dietro questi tre simboli del declino di un modello di sviluppo, c’è innanzitutto il dramma del lavoro e della salute. Un nodo intricato che si scioglierebbe, secondo dichiarazioni stampa di ministri e imprenditori, con la riduzione dei costi dell’energia e con una maggiore offerta di fonti fossili a buon mercato. Prendo in considerazione quest’ultimo aspetto, significativo dell’informazione distorta e dell’insensatezza della politica industriale ed energetica dell’attuale governo.
A fine agosto ha visto la luce una bozza della “nuova” strategia energetica nazionale. Un irritante ritorno al passato (gas, petrolio e “carbone pulito”) già anticipato dalle rivelazioni di Wikileaks sulla presenza delle maggiori banche nazionali, di Enel ed ENI ai banchetti russi e turchi. Lì infatti, si stava tracciando il potenziamento delle reti di fonti fossili da Oriente a Occidente. Si tratta di un piano vetusto, mascherato dalla retorica della diminuzione del costo del Kwh, della minore dipendenza dall’estero, dell’incremento dell’occupazione. Niente di più improbabile.
L’idea di fondo è quella di cercare petrolio in casa e di costruire rigassificatori e nuovi metanodotti, al fine – si scrive – di abbassare i prezzi. Ma perforare i nostri fondali corrisponde ad avere un numero irrilevante di barili ad alto costo, mentre fare dell’Italia un “hub del gas” non rappresenta affatto una formula in grado di abbassare il costo del gas che consumiamo. È un’illusione pensare che attraverso i rigassificatori ci si rivolga solo al mercato spot (quello alimentato in borsa dal trasporto su nave) senza avere alle spalle contratti di fornitura a lungo termine (quelli siglati con i Paesi grandi produttori che spediscono “via tubo”).
La proposta quindi non abbasserà il prezzo del gas. In compenso, darà il via a grandi opere e all’introduzione delle cosiddette “essential facilities”, infrastrutture da costruire con “garanzia di ricavi” e “iter autorizzativi accelerati”. Il che significa che i nuovi impianti saranno costruiti grazie a incentivi che graveranno sulle bollette di tutti.
Esattamente quanto è già successo per “invitare” Alcoa in Sardegna. Alcoa è una multinazionale statunitense, leader mondiale nella produzione di alluminio, che sbarca in Italia acquisendo nel 1966 dallo Stato la società ALUMIX (gruppo EFIM). Fino al 2009 la società acquistava energia elettrica a prezzi scontati e per evitare le sanzioni Ue il Governo italiano aveva emanato un decreto legge contenente nuove norme che permettessero all’Alcoa di continuare a rifornirsi di energia elettrica a prezzi scontati. Scontati di quanto? Beh a 30 euro al MWh rispetto ai circa 70 di mercato. Tanto per avere un riferimento, noi consumatori finali in bolletta paghiamo 90 euro al MWh. La differenza fra i 30 euro e il prezzo di mercato viene “ovviamente” coperta da tutte le bollette.
Ora si cerca un nuovo acquirente che garantisca i 702 posti di lavoro. Prima della rottura della trattativa, solo qualche giorno fa, la più gettonata era la svizzera Glencore, multinazionale specializzata in materie prime, dotata di magazzini e di flotte navali. Glencore è il numero uno nel trading di carbone. Esperta in fonti fossili, per fare l’accordo chiede la stessa cosa per cui Alcoa se n’è andata: energia elettrica a basso prezzo, che il governo si è affrettato ad assicurare. Ecco una politica energetica avventurosa, basata sul rilancio dei fossili dal costo imprevedibile.
Anche lo stabilimento Ilva di Taranto, come Alcoa, subisce un passaggio dallo Stato ad una multinazionale privata. Ed anche per esso si parte con uno sconto energetico. Lo stabilimento per tubi saldati di grande diametro, nasce come oggetto di un accordo riservato tra Urss, Eni e Finsider: greggio a basso prezzo dall’Unione sovietica in cambio di tubi saldati. Esaurito col tempo l’accordo sull’energia, si è fatto avanti un tacito accordo sulle emissioni, che Riva, il proprietario attuale, ha rigorosamente reclamato, producendo inquinanti e tralasciando il costo dell’effettivo e necessario risanamento. Lavoro, in questo caso, al prezzo della salute.
Infine il Sulcis. Il passaggio di proprietà in questo caso è anomalo: dall’Eni alla Regione sarda. Con un unico cliente (obbligato), l’Enel, che utilizza la miniera prevalentemente come discarica, mentre estrae un carbone di scarsa qualità. Non per beneficenza, ma per supportare un mix di combustibile solido che tenga aperte le porte alla chimera del “carbone pulito”, producendo nel frattempo quasi alla chetichella grandi quantità di inquinanti. In questo quadro risulta davvero sbagliata la proposta di investire per creare nella miniera un impianto di cattura e sequestro della CO2. Ha senso investire un miliardo e mezzo di euro per continuare a bruciare carbone? È un futuro a carbone, col trucco del sequestro dei gas serra, che immaginiamo?
Si capisce allora perché scompaiano i sostegni alle rinnovabili, l’unico settore per cui nel progetto di Monti-Passera lo sviluppo è previsto compatibilmente con la sostenibilità economica. In realtà, questo Governo non considera queste fonti una scelta strategica per il settore elettrico e termico. A riprova di ciò il fatto che per i trasporti punti sui biocarburanti di seconda generazione, verso i quali si sposterebbero gli incentivi tolti al fotovoltaico.
E sulla governance l’ultima chicca: la nuova strategia energetica nazionale individua nell’accentramento il sistema migliore per depotenziare la diffusione delle rinnovabili e salvaguardare il tradizionale oligopolio legato alle fonti convenzionali. Meno democrazia e basta con la programmazione territoriale, il ricorso alle fonti naturali, la riduzione degli sprechi, visto che la questione climatica non toccherà gli over 60 che comandano. Loro si stanno svenando per governare i picchi di un tenace quanto irriducibile spread, non per una politica industriale ed energetica che porti salute e buona occupazione.
Solare Usa e Ue: la Cina è vicina
di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano online – 18 settembre 2012
In questi mesi è stata più volte sottolineata la “rivoluzione” in atto sul mercato dell’energia elettrica. In sintesi, i 13 GW (milioni di kW) di pannelli fotovoltaici installati in Italia producono dalle 9 del mattino alle 18 serali un flusso di energia elettrica sufficiente a modificare la determinazione del prezzo del kWh in borsa, cosicché oggi l’energia elettrica all’ingrosso tocca il suo massimo costo non alle ore 12, come da tradizione, ma alle 22 di sera, realizzandosi così un disaccoppiamento fra prezzi e consumi: il costo non è più massimo quando massima è la domanda. Ad esempio il prezzo delle ore 12 (ora di maggior richiesta quando di questi tempi il picco della domanda sale a 43 GW) contrattato per l’8 giugno 2012 è stato pari a 86,49 euro al MWh, mentre alle ore 22 era a 100,15 (quando la potenza richiesta in rete è intorno ai 38 GW) e 96,85 alle 24 (32 GW di richiesta – dati da Gestore Mercati Energetici).
Tutto questo contribuisce a dimostrare che c’è una nuova speranza per il cambiamento climatico: il 20% dell’energia elettrica mondiale è già prodotto da energie rinnovabili. La Cina ha investito miliardi in energia solare, il che rende questa fonte ormai a buon mercato come i combustibili fossili. Sembrerebbe insensato dal punto di vista della cooperazione ambientale, eppure la Ue e gli Usa sono intenzionati a imporre tariffe per le importazioni di pannelli solari cinesi, finendo con ostacolare questa rivoluzione energetica pulita. Lo denuncia Avaaz, che avanzerà una richiesta formale al Commissario per il commercio della Ue e la International Trade Commission degli Stati Uniti per aprire un dialogo e non ricorrere a dazi odiosi.
Pur avendo la Cina un triste primato in materia di diritti umani e ambientali, sta aprendo con le sue politiche industriali un raggio di speranza. Negli ultimi dieci anni, ha investito miliardi in energia solare e ha avviato strategie ambiziose per sovvenzionare la produzione, il che significava il crollo dei prezzi dei pannelli. Stati Uniti e Ue stanno tornando a concedere sovvenzioni pubbliche alle lobbies del petrolio e del carbone, e ora sono in procinto di aumentare il costo dell’energia solare, imponendo tariffe alla Cina. La partita è aperta: l’Occidente punta ad abbassare sul mercato il prezzo di petrolio e gas ottenuti da nuovi giacimenti di scisti bituminosi ad altissimo costo ambientale. Un prezzo fittizio reso praticabile dalla speculazione sul mercato finanziario e gravoso di debiti ambientali verso le future generazioni.
Alcuni sostengono che il basso costo dei pannelli solari cinesi mette in pericolo i posti di lavoro dei lavoratori locali, ma la maggior parte del lavoro che il settore dell’energia solare procura riguarda l’installazione e l’adattamento dei pannelli, la manutenzione e l’integrazione nelle reti intelligenti, oltre che la loro fabbricazione.
Tornare indietro, per fortuna, non è più possibile. Le fonti rinnovabili hanno mostrato una curva di apprendimento straordinaria e in alcune regioni sono già pronte a far concorrenza a quelle fossili anche senza incentivi. La concorrenza cinese non significa estromissione delle nostre tecnologie e della crescita di competenze locali: più energia “verde” significa più imprese e quindi più lavoro. Nel primo trimestre 2012 sono sorte complessivamente 120.278 imprese ma ne sono morte 146.368, quindi un saldo negativo (-0,43%). Per le imprese energetiche invece il saldo è positivo per 511 unità (+7,6%). Ed è dal 2007 che di trimestre in trimestre ciò accade. Fra il primo trimestre 2012 e quello 2011, le imprese del comparto energetico sono cresciute del 37,1% mentre il totale delle imprese italiane è calato dello 0,3%.
Lavorare a un nuovo sistema energetico non significa quindi rifluire nel protezionismo, ma creare lavoro di qualità, innovare su base territoriale, armonizzare attività umana e natura, fare ricerca per valorizzare risorse naturali che possono integrarsi, ma non essere semplicemente surrogate dalla contabilità del commercio internazionale.
La nuova strategia energetica nazionale
A cura di Roberto Meregalli, 3 settembre 2012
Dopo anni di attesa, venerdì 31 agosto è iniziata a circolare via web la bozza della fatidica nuova strategia energetica nazionale, che prossimamente verrà messa in pubblica consultazione.
Quattro sono gli obiettivi dichiarati:
· Ridurre significativamente il gap di costo dell’energia per i consumatori e le imprese
· Continuare a migliorare la nostra sicurezza e ridurre la dipendenza di approvvigionamento dall’estero, soprattutto nel settore gas.
· Favorire la crescita economica sostenibile attraverso lo sviluppo del settore energetico.
· Raggiungere e superare gli obiettivi ambientali definiti dal Pacchetto europeo Clima-Energia 2020.
Obiettivi condivisibili, ma le proposte per raggiungerli lo sono molto meno. Nei link a fondo pagina vi sono alcuni approfondimenti sui singoli punti, qui di seguito una nota generale.
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Sette le priorità citate nel documento, innanzitutto la promozione dell’Efficienza Energetica e su questo punto non si può che plaudire, nel testo si sono buoni propositi e una sezione fra le migliori dell’intero documento, però di concreto c’è solo la proposta di estendere nel tempo le detrazioni fiscali del 55%, differenziando la percentuale di spesa detraibile e/o la durata del rimborso in relazione all’effettivo beneficio dell’intervento, introducendo tetti di costo per tipo di intervento ed escludendo dalla detrazione gli impianti già incentivati con altri strumenti.
La seconda priorità è quella di fare del nostro Paese un hub del gas: nel concreto si tratta di costruire rigassificatori (impianti che trasformano in gas il metano precedentemente liquefatto per essere trasportato via nave) e nuovi metanodotti, per aumentare la sicurezza e la concorrenza alfine di abbassare i prezzi. E’ molto opinabile questa tesi, da anni ciclicamente si torna a parlare del nostro paese come di un possibile centro di arrivo e smistamento di gas per l’Europa. Il ministro Passera rispolvera dunque un progetto caro ai suoi predecessori (Bersani) e vale la pena ricordare che nel 2006 anche l’allora ministro delle infrastrutture, Antonio di Pietro, parlava della necessità di costruire 11 rigassificatori (Adnkronos, 19 agosto 2006).
Purtroppo l’argomento gas non è facilmente semplificabile, il termine “hub del gas” non rappresenta una formula magica in grado di abbassare il costo del gas che consumiamo, il discorso è complesso ed esente da certezze e i rigassificatori non sono impianti magicamente pronti a ricevere gas liquefatto (GNL) bypassando i metanodotti, ovviamente a prezzi concorrenziali. E’ un’illusione pensare che un rigassificatore possa essere costruito avendo in mente solo il mercato spot senza avere alle spalle, almeno per una consistente parte di disponibilità di rigassificazione, uno o più contratti di fornitura a lungo termine. Tant’è che nel mondo nel 2011 su una capacità di liquefazione pari a circa 270 milioni di t. ne sono state contrattate 240 milioni e di queste solo 26,6 sul mercato spot, il resto con contratti a lungo o breve termine.
Nel 2011 il prezzo spot del gas GNL (liquefatto) è stato conveniente perché il Qatar ha esportato GNL in Europa per mantenere un prezzo elevato in Asia dove stava facendo affari vendendolo all’affamato Giappone, orfano dei suoi reattori nucleari. Ma il mercato è instabile e in questi ultimi mesi del 2012 sono intervenuti mutamenti che rischiano di bruciare le nostre ambizioni. A segnalarlo sono proprio le imprese che seguono la bussola della redditività degli investimenti; è di un mese fa la notizia dell’abbandono di Erg dal progetto del rigassificatore di Priolo, in ritardo è quello della OLT di Livorno (che doveva già essere pronto), idem per Falconara Marittima, silenzio per Gioia Tauro e l’Enel pare ben poco stimolata per accelerare su Porto Empedocle. Nessuno dei grandi produttori di GNL pensa all’Italia come hub del gas, perché comanda il prezzo e il prezzo dice Asia, non Europa. Occorrerebbe che esportassero GNL Australia e USA, dove il gas costa sempre meno, ma per ora questi Paesi non esportano.
Il discorso è complesso e non è sintetizzabile in poche battute ma di certo l’idea di Passera non abbasserà il prezzo del gas, anzi visto che nel testo si riconosce implicitamente che il “mercato” oggi non investirebbe in queste nuove infrastrutture, si introducono le cosiddette “essential facilities”, infrastrutture da costruire con “garanzia di ricavi” e “iter autorizzativi accelerati”, il che significa che i nuovi impianti saranno costruiti grazie a incentivi che graveranno sulle bollette di tutti.
E per quanto riguarda le fonti rinnovabili? Beh, è l’unico settore per cui lo sviluppo è previsto compatibilmente con la sostenibilità economica. In effetti questo governo quando parla di queste fonti non utilizza mai il termine sostenibile per qualificarle ma come condizione economica per il loro sviluppo, quindi nel concreto si tratta di una scelta non strategica. Il testo sottolinea che in campo elettrico si è già oltre i vecchi obiettivi, si danno per prodotti nel 2011 circa 92 TWh di corrente da FER anche se i dati definitivi Terna-Gse hanno sancito 83 TWh (e visto che nel 2012 l’idrico è in calo del 17,5% non c’è da aspettarsi una crescita iperbolica anche se il fotovoltaico ha sinora salvato i conti), si risottolinea per l’ennesima volta la generosità dei vecchi incentivi quando ormai siamo nel V conto energia ed il problema è archiviato. Quali iniziative concrete di sviluppo da oggi in avanti? Nessuna, si citano i due recenti decreti ministeriali che però sono stati redatti per contenere la spesa e non per raggiungere obiettivi sfidanti. Per le rinnovabili termiche si parla del fatidico conto energia termico che si attende da un anno, per i trasporti si annuncia che non ci saranno incentivi per il biometano (economicamente insostenibile) ma si punta sui biocarburanti di seconda generazione, ma nel concreto nulla di nuovo.
Ed eccoci al rilancio della produzione nazionale di idrocarburi, tramite cui, così recita il documento: “è possibile raddoppiare l’attuale produzione, con importanti implicazioni in termini di investimenti, occupazione, riduzione della bolletta energetica ed incremento delle entrate fiscali”.
Che dire? Già altri hanno sottolineato i problemi ambientali, lasciamo perciò parlare i numeri: nel 2011 in Italia sono stati estratti circa 5,3 milioni di tonnellate di greggio (per la precisione 5.286.041 t, cfr. Rapporto annuale del 2011 redatto dal DIPARTIMENTO PER L’ENERGIA, Direzione Generale per le Risorse Minerarie ed Energetiche del Ministero per lo sviluppo economico). Il consumo di petrolio è stato invece di 71,2 milioni di tonnellate. Secondo il bollettino redatto dal Ministero per lo sviluppo economico, le riserve certe ammontano a 76 milioni di t, quindi poco più del nostro consumo in un anno, pertanto “Il rapporto fra le sole riserve certe e la produzione annuale media degli ultimi cinque anni, indica uno scenario di sviluppo articolato in 7,2 anni per il gas e 14 per l’olio”. Certo, sono considerati probabili 110 milioni di t. e possibili 95 milioni ma rispetto ai consumi sono comunque valori che non indicano alcuna rivoluzione per il nostro sistema energetico. Per il gas il discorso è analogo: le estrazioni nazionali nel 2011 sono state pari a 8,4 miliardi di metri cubi mentre i consumi hanno sfiorato la quota dei 78 miliardi di metri cubi. Le riserve certe (62,3 miliardi di mc) sono inferiori alle nostre importazioni di un singolo anno.
Un’altra priorità descritta è quella relativa allo sviluppo delle infrastrutture e del mercato elettrico, nel documento se ne parla con cognizione di causa ma di novità c’è solo la proposta di un superamento del prezzo unico nazionale, il PUN, poiché le differenze fra le varie zone del Paese si sono ridotto e dovrebbero scomparire con l’attivazione di un nuovo cavo di collegamento con la Sicilia (in costruzione), presumibilmente nel 2015. Per il resto c’è già il Piano di sviluppo di Terna e le sue iniziative in tema di sistemi di accumulo.
Anche il capitolo dedicato alla ristrutturazione della raffinazione e della rete di distribuzione dei carburanti risulta sterile, a parte l’annuncio di un decreto ministeriale relativo a un Fondo per la razionalizzazione della rete carburanti (per ridurre il numero dei distributori), non c’è molto, il fisco continuerà a pesare.
L’ultima priorità annunciata è quella della modernizzazione del sistema di governance, in cui si propone quanto da tempo richiesto da Confindustria: modificare la Costituzione per far tornare l’energia argomento di competenza dello Stato e non più materia concorrente fra Stato e Regioni. La motivazione è ovvia: accelerare gli iter autorizzativi.
Silenzio, infine, sul termoelettrico. Eppure una parola sull’attuale eccesso di centrali e sui progetti relativi al carbone andrebbero spesi, considerando che con la conversione in legge (avvenuta venerdì 3 agosto) del provvedimento 83/2012 meglio conosciuto come Decreto sviluppo sono state stabilite due nuove forme di sostegno per le fonti fossili: gas e olio combustibile (vedi link più avanti).
In sintesi il documento di 100 pagine, pur nella ricchezza di dati e di buoni propositi, risulta deludente perché non contiene analisi costi-benefici e “senza alcuna quantificazione tutto diventa discrezionale” (cfr. Luigi De Paoli pubblicata su Staffetta Quotidiana il 2 giugno 2012). In questo momento di crisi manca di indicazioni puntuali e a breve termine per giungere a qualcuno degli obiettivi dichiarati. Eppure per abbassare il costo dell’energia qualche cosa si potrebbe fare da subito. Ad esempio perché non abbassare il prezzo del gas per il comparto della generazione elettrica allo stesso livello di quanto pagato dai grandi consumatori industriali? (questi ultimi pagano 32,03 centesimi al metro cubo mentre gli “elettrici” pagano 33,45 centesimi). Perché non eliminare il pagamento dell’IVA sulla parte oneri della bolletta? Perché non prevedere in tempi ristretti la costruzione di distributori a metano sulla rete autostradale? Perché non permettere la vendita diretta dell’energia elettrica senza passare dalla rete? (si tratta delle SEU, sistemi efficienti d’utenza, in questo modo anche senza incentivi il fotovoltaico sarebbe già oggi conveniente in gran parte del Paese).
Ma è soprattutto il futuro delineato da questo documento ad essere poco appetibile, un futuro che pare un ritorno al passato, smaltita la “sbornia del solare fotovoltaico”. In questo senso è una strategia per vecchi offerta ad un Paese stanco che ha fame di speranza, è una strategia al di fuori di quello scenario di un mondo per quasi all’80% a trazione rinnovabile delineato dall’IPCC per il 2050 in un rapporto diffuso il 3 settembre, uno scenario, scrive l’IPCC, possibile “solo se sostenuto da politiche pubbliche corrette”.
Link
Bozza della Nuova strategia energetica
Analisi nuovi incentivi alle fonti fossili
Analisi consumi energetici nazionali