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Il nucleare non salverà il clima

di Alfonso Navarra
Parigi, 8 dicembre 2015

Parigi, che si sveglia lepenista (grazie, credo, anche all’insipenza di Hollande ed ai suoi strumentali stati di emergenza per la guerra al terrorismo islamico”) gioca a fare la “capitale del mondo” durante la conferenza sul clima. E’ la logica dei grandi eventi calamita tutto, che abbiamo già visto dispiegarsi con l’EXPO di Milano: ogni realtà culturale e associativa riceve le sue briciole di finanziamento per partecipare alla celebrazione del tema retorico dominante, mentre la grande industria nucleare (EDF, AREVA) sponsorizza.

Sono arrivato ieri notte (il 7 dicembre, una notte sorprendentemente non fredda) e, rimediata la RER dall’aeroporto di Orly, ho preso alloggio presso il Vintage, un dignitoso ostello per la gioventù (c’è persino la stanza con gli attrezzi per la ginnastica!), in rue Dunquerque, vicino alla Gare du Nord: siamo nel 10mo arrondissement.

La piccola camera a due letti, con bagno interno, telefono, TV, etc., l’ho occupata purtroppo in solitaria e mi costa 108 ero al giorno.  Nel prezzo è compresa la colazione: caffè, cornetto, scelta di burro e marmellate, succo di arancia. Nella sala in cui si fa breakfast è piazzato, lo giuro, un calcio balilla!

Lancio l’ennesimo appello a chi voglia prendersi il letto libero condividendo l’esperienza degli ultimi giorni della conferenza (e la spesa, che per il sottoscritto è alquanto gravosa)!

Mi è molto utile il servizio di Free wifi access, garantito dall’Ostello, per il quale avrò facilitato il lavoro, che spero risulti utile al movimento di base italiano, di prendere informazioni e di resocontare.

Tutte le municipalità di Parigi ovviamente partecipano alla COP 21 con un fitto programma di manifestazioni organizzate.

A mo’ di esempio, riporto quanto ha organizzato il quartiere dove mi sono stabilito sotto lo slogan: “Il clima cambia, noi pure“.

Gli eventi sono raccolti sotto titoli:

1- la sfida dell’energia positiva (una proposta rivolta alle famiglie su come ridurre i consumi di energia)

2- i film con la possibilità di interloquire con i realizzatori. Mercoledi 9 dicembre è in programma “Intox”, a cura dell’Associazione Bloom, seguito da un dibattito con Laure Ducos, la regista

3 – le mostre, una fotografica a cura della Fondazione Abbé Pierre, e un’altra, “DIXruption”, definita come interattiva e partecipativa

4- un dibattito di bilancio della COP 21 (previsto il 15 dicembre a cura dell’associazione 4D).

Il quartiere patrocina, in rue Dunquerque, “Place to B” (slogan: “Rinfresca il clima, riscrivi la storia!”) che si presenta come una “cassa di risonanza della società civile” ma anche per i media partecipativi (vai su: http://www.placetob.org).

Oggi, 8 dicembre, è in programma lo “spazio per ridere”, ma anche un “programma radio a porte aperte”, un gioco-quiz, l’incontro con esperti internazionali, trasmesso in diretta, che fa il punto della giornata dei negoziati, uno stage teatrale…

Place to B è ospitata da Belushi’s, una struttura aperta nel 2013, uno spazio molto ampio a disposizione della creatività giovanile, con biblioteca, laboratori, sala concerto, postazioni per co-working…

C’è anche posto per un ristorante “verde” con prodotti biologici ed equo-solidali…

Quanto finora ho scritto riguarda la programmazione di un solo quartiere di Parigi.  Dovete però tenere presente che ogni arrondissement – a Parigi sono ben 20! – ci ha messo del suo e presenta una analoga mitragliata di eventi.

La mappa di queste divisioni amministrative è bene che me la studi perché, per muovermi, ho da comprare il biglietto “turistico” del metrò, che copre solo 3 zone. Per quello che ho capito, sentendo la mia amica Giovanna che è parigina acquisita (insegna storia della matematica in una delle 13 Università che illustrano la “Ville Lumiere”), gli arrondissement si sviluppano a spirale in cerchi intorno al primo centrale, verso l’esterno, in senso orario.

Cosa andrò a seguire oggi? Per me la risposta parte dalla premessa che i negoziati farlocchi di Le Bourget li lascio volentieri ai “giornalisti”: da “antigiornalista” condivido l’opinione di Hermann Sheer, il profeta tedesco dell’energia solare, che si tratti solo di “minimalismo organizzato”? Se tutto – secondo le concezioni del WWF e simili – va bene, insomma, saremmo comunque (mezzi) rovinati!

Mi interessa in particolare, tra le azioni critiche in ballo, cosa fa Sortir du Nucléaire, rete di oltre 600 gruppi di base, che contrastano l’atomo, sia di guerra, sia quello presunto di pace, con la quale, LOC, Energia Felice, Accademia Kronos, Confederazione COBAS, etc., a Firenze 10+10 (novembre 2012) abbiamo cominciato a costituire il Network antinucleare europeo.

La Rete ha lanciato, in occasione della COP 21, una mobilitazione all’insegna dello slogan: “Il nucleare non salverà il clima”. L’obiettivo è, appunto, quello di contrastare la proposta del nucleare “civile” come soluzione al problema climatico.

Il 29 novembre c’è stata la catena umana con 10.000 persone che hanno sfidato il divieto di manifestare imposto dal governo (e che è stata disturbata dall’immancabile imbecillità dei Black Bloc: hanno offerto il pretesto per le cariche poliziesche e per gli arresti di massa indiscriminati, che ho già commentato).

La Rete ha poi partecipato al Villaggio delle Alternative, svoltosi a Montreuil il 5 e 6 dicembre.

Sortir du Nucléaire ha lanciato una petizione on-line contro le affermazioni menzognere di EDF: la corrispettivo francese di ENEL sostiene di produrre elettricità senza emettere C02.

Nel sito: http://www.sortirdunucleaire.org/WISE-nucleaire-climat troviamo un rapporto di esperti che sbugiardano questa affermazione.

Vi riferirò se ci sono novità da parte degli antinucleari francesi, a parte l’intenzione di confluire nella manifestazione ecopacifista del 12 dicembre, che pare il governo consentirà, anche se con molte limitazioni.

Per quanto riguarda la nostra iniziativa di “disarmisti esigenti” – emendare in senso antinucleare la Carta dei diritti dell’Umanità, che Hollande sta elaborando – ho da registrare le lettere che Luigi Mosca, il fisico di Armes Nucléaires Stop, ha indirizzato sia a Jean Marie Collin, presidente dell’Associazione dei Parlamentari per il disarmo nucleare, sia a Leila Aïchi, senatrice e vice presidente della Commissione degli Affari Esteri e della Difesa del Senato francese (Leila Aïchi, appartiene al partito EELV – Europe Ecologie Les Verts).

La mozione, da noi ispirata e  presentata dalla Sinistra Italiana, è bene precisarlo, non è stata l’unica approvata alla Camera il 26 novembre scorso:  ne sono passate altre cinque con il placet del governo Renzi (che ha “benedetto” tutti, tranne, se non ho capito male, una iniziativa proveniente dal Gruppo Misto).

Per sì e per no, sulla base della mozione approvata, e delle conclusioni del Seminario di Villar Focchiardo del 25 e 26 settembre scorsi, un incontro a Ban Ki-moon è già stato chiesto, per il momento scrivendo al sito ufficiale del Segretariato delle Nazioni Unite.

Aspetto notizie da Luigi Mosca sulla riunione che faremo per vedere come organizzare un coinvolgimento ed un sostegno internazionale al disarmo nucleare come “diritto dell’Umanità”.

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Il clima di Parigi

di Roberto Meregalli

Sino a qualche giorno fa Parigi veniva associata all’imminente ventunesima conferenza delle Parti dedicata al clima. Quantomeno nella mente del 29% della popolazione italiana, secondo una stima di Legambiente, per gli altri, COP21 probabilmente faceva immaginare più un nuovo supermercato che una conferenza multilaterale su come preservare la nostra vita su questo pianeta (questo è il tema in questione).

Oggi Parigi fa scattare un altro link, ma nonostante le 129 vittime degli attentati, la conferenza è confermata e rimane inalterata la sua importanza, nonostante il terrorismo riempia oggi internet, televisione e giornali2.

Succederà qualcosa di buono dal 30 all’11 dicembre?
L’esperienza farebbe rispondere di no, siamo alla ventunesima edizione (tutto ebbe inizio nel 1992 con il summit della Terra di Rio: nacque lì la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), e tutto quello che è scaturito è stato il protocollo di Kyoto firmato ed applicato solo da una parte ridotta dei paesi. Tanti i vertici aperti con grandi speranze e chiusi senza risultati, eclatante quello di Copenaghen nel 2009 quando 115 leader mondiali fallirono l’impresa di un accordo storico e Barack Obama, fresco di nobel per la pace, tornò a Washington a mani vuote. Parigi è stata immaginata come l’occasione per cancellare Copenaghen e concludere un accordo legalmente vincolante per ridurre le emissioni di gas climalteranti in modo da evitare che la temperatura media globale aumenti di oltre due gradi centigradi. L’aumento di due gradi lo abbiamo già accettato come inevitabile, ma oltre il mondo scientifico paventa mutamenti insostenibili.

Negli ultimi anni abbiamo compreso meglio i fattori che provocano il cambiamento del clima, i cui effetti sono già visibili, il 2014 è stato l’anno più caldo da quando misuriamo la temperatura del pianeta e a parte il 1998, i dieci anni più caldi sono tutti dal 2000 in poi.

Per rispettare l’impegno a non superare il target dei due gradi in più, da tempo sentiamo ripetere che occorre ridurre la quantità di anidride carbonica, ossidi di azoto, composti di fluoro e gas metano che “liberiamo” quando ci muoviamo, quando ci riscaldiamo, quando coltiviamo, quando produciamo energia e prodotti di uso quotidiano. Il carbonio e suoi derivati sono da sempre al centro della scena perché l’atmosfera è in gran parte trasparente rispetto alle radiazioni del sole ma queste radiazioni non possono essere accumulate senza fine, vanno “ributtate” nello spazio per mantenere equilibrio fra input ed output.

Gli scienziati dicono che per limitare a due gradi in più la perdita di equilibrio, nei prossimi 35 anni dovremo rimanere sotto i 3.200 miliardi di tonnellate di CO2. Oggi siamo a 2 mila e per far bastare il bonus di 1.200 da qui al 2050 sarànecessario rallentare drasticamente il ritmo, ossia vivere riducendo del 60% le emissioni.

Detta in questi termini la questione può anche apparire semplice, ma tradotta in termini pratici no.

SCARICA IL TESTO COMPLETO IN PDF >>>

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Cop21: per combattere l’inquinamento il Pentagono è militesente

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Quando nel 1991 l’Onu diede legittimazione alla guerra aerea degli Stati Uniti in Iraq – “Tempesta nel deserto” – accompagnata più tardi dagli scarponi sul suolo iracheno – “Scudo nel deserto” – qualcuno di noi cominciò a fare i conti di quale fosse non solo la spaventosa devastazione in vite umane e abitazioni, ma anche il riflesso sulla natura e il clima in termini di emissioni di CO2. Ne deducemmo che nei primi due anni la guerra all’Iraq era costata circa 200 miliardi di dollari e che il petrolio pompato dai pozzi iracheni ne avrebbe fruttati circa 30. Di fatto per la guerra sono stati consumati 650 milioni di barili equivalenti (bombe comprese) all’immissione in atmosfera di 300 milioni di tonnellate di CO2, ben più dei gas climalteranti di tutta l’Africa subsahariana.

Alle soglie del nuovo millennio pochissimi facevano di questi conti, ma dopo decine di Cop inconcludenti, questa a Parigi nel 2015 entra in scena in un clima di terrorismo e guerra, che rischiano addirittura di oscurare l’urgenza del cambio climatico o di tenerlo separato dai due temi che allontanano il diritto della pace e, con esso, qualsiasi richiamo ad una ecologia integrale, responsabile e senza ipocrisie.

Il senatore Bernie Sanders, in un recente dibattito al Congresso degli Stati Uniti, ha suonato l’allarme perché “il cambiamento climatico è direttamente correlato alla crescita del terrorismo”. Citando uno studio della CIA, Sanders ha avvertito che i paesi di tutto il mondo stanno “andando a lottare su una quantità limitata di acqua, quantità limitate di terra per coltivare i loro raccolti e si stanno riconsiderando sotto questo profilo tutti i tipi di conflitto internazionale”. In parole povere: la guerra e il militarismo alimentano esse stesse il cambiamento climatico e ne sono alimentate.

Prendendo atto di una affermazione non sospetta e venendo a noi, ci dovrebbe preoccupare che uno dei maggiori contribuenti al riscaldamento globale non abbia alcuna intenzione di accettare di ridurre l’inquinamento anche in vista della scadenza parigina. Il problema in questo caso è il Pentagono, che occupa 6.000 basi negli Stati Uniti e più di 1.000 basi in più di 60 paesi stranieri. Secondo il “2010 Base Structure Report”, l’impero globale del Pentagono include più di 539.000 strutture in 5.000 siti che coprono più di 28 milioni di acri, bruciando 350.000 barili di petrolio al giorno (solo 35 paesi nel mondo consumano più) senza contare l’olio bruciato da appaltatori e fornitori di armi. La fornitura di carburante riguarda più di 28.000 veicoli blindati, migliaia di elicotteri, centinaia di aerei da combattimento e bombardieri e vaste flotte di navi militari.

L’Air Force rappresenta circa la metà del consumo di energia operativa del Pentagono, seguita dalla Marina Militare (33%) e dall’esercito (15%). Ironia della sorte, la maggior parte del petrolio del Pentagono viene consumato in operazioni dirette a proteggere l’accesso degli Stati Uniti al petrolio straniero e le rotte di navigazione marittima per trasportarlo. Si stima che la guerra in Iraq del Pentagono abbia generato più di tre milioni di tonnellate di inquinamento da CO2 al mese per la sola movimentazione di sistemi d’arma (aerei, carri, autoblindo, tank, aerei etc.).

In breve, il consumo di olio si incarica di consumare più petrolio. Questo non è un modello energetico sostenibile. Ma cosa può fare un trattato sotto egida Onu come quello che si apre a Parigi nel momento in cui il Pentagono ha insistito su una “norma di sicurezza nazionale” che avrebbe posto le sue operazioni al di là di ogni controllo globale, esentandolo anche dalla regolamentazione dell’inquinamento e facendone un inquinatore privilegiato? Un paradosso: l’apparato militare è militesente nella battaglia per il clima…

In quanto al terrorismo, e ai fini circoscritti del tema di questa comunicazione, vorrei ricordare che Oliver Tickell su The Ecologist mette in guardia i leader politici dai rischi di un fallimento della COP21, ipotizzando un introito di circa 500 milioni di dollari all’anno dalle vendite del petrolio che in parte è nella disponibilità dei terroristi di Isis per finanziare le proprie attività criminali: un motivo in più per non fallire e ridurre la nostra dipendenza dal petrolio. Ma l’ottimismo per un accordo adeguato con gli attuali leaders mondiali non ha grandi speranze, a meno che i popoli in marcia…

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Voglia di guerra e Cop21: palle di fuoco e buchi nell’acqua

di Mario Agostinelli

SOMMARIO

PREMESSA
LE QUESTIONI CHIAVE PER LA COP 21
UNA STRATEGIA COMPLESSIVA, PRATICABILE
POLITICA E DEMOCRAZIA SOCIALE DI FRONTE ALLA SFIDA CLIMATICA
GUERRA, ARMAMENTI, TERRORISMO, MIGRAZIONI E CLIMA
COINVOLGERE E INCORAGGIARE IL MONDO DEL LAVORO
QUALCHE OSSERVAZIONE NON RITUALE SUI GRANDI EVENTI 2015


PREMESSA

Scrivo queste note in partenza per Parigi, dove si sta aprendo la Conferenza Mondiale sul clima (Cop 21). Come ricorda l’acronimo, si tratta della 21esima Conferenza sul clima e se ci aggiungiamo anche tutti i “meeting” preparatori di natura politica e tecnica, sono diverse centinaia gli incontri svolti ad oggi a livello internazionale (migliaia se ci aggiungiamo quelli a livello interregionale) per cercare di adottare una politica climatica che sia “compatibile” con la sopravvivenza della specie umana, almeno alle condizioni di cui una parte della popolazione terrestre beneficia già oggi e tenendo in mente i limiti fisici che dobbiamo porre alla nostra impronta ecologica.

L’atmosfera di creativa mobilitazione che sta accompagnando in tutto il mondo l’attenzione della società civile all’evento – la preparazione delle marce del 29 Novembre è stata laboriosa e diffusa anche territorialmente -, si scontra con i cupi bagliori che stanno attraversando la capitale parigina e con le immagini senza rumore delle bombe sganciate dai “raid notturni”. Vita di giorno – per quanto si riesce a sottrarla civilmente alla paura – coprifuoco, morte e distruzione di notte, in una dicotomia in cui i cittadini da una parte e gli stati “democratici” e le organizzazioni terroristiche dall’altra, accettano di fare due parti distinte: prendere il sonno necessario da un lato, proteggerlo o interromperlo per sempre dall’altro.

Così, non posso evitare la domanda se vi siano comuni interessi tra gli attacchi terroristici accaduti pochi giorni fa e un malaugurato (e prevedibile) fallimento della ventunesima conferenza delle parti, circoscritta a ben 14.000 delegati, isolati però dagli attivisti ed esponenti della società civile provenienti da tutto il mondo e ridotti nella presenza da un disincentivo all’accesso non dichiarato.

Ne tratterò più avanti in dettaglio, ma questa premessa serve a rendere il giusto quadro storico- epocale delle prossime giornate, che, al contrario dell’11 Settembre, propongono subito un intreccio che non si può ridurre a scontro di religioni o a pura geopolitica. Parigi non andrà ricordata come le due torri colpite a Manhattan o solo come insanguinata dai Kalshnikov, ma come l’ultimo precipizio a cui ci avviciniamo troppo in fretta se non facciamo nel mondo intero una capriola culturale e politica. Il palcoscenico planetario – sottolineavo – si è molto articolato. In queste settimane di riacutizzazione di una guerra mondiale asimmetrica in corso da decenni per l’appropriazione delle risorse energetiche sempre più scarse e la privatizzazione dei beni comuni naturali sempre più sottratti ai territori di appartenenza, il papa, vero leader profetico e responsabile che vive tra noi, svolge in Africa la sua missione a difesa di una natura irrimediabilmente lacerata e tratta la criminalità dei terroristi come “zanzare” endemiche a cui andrebbe bonificato il territorio in cui prolificano. Proprio in queste stesse settimane, “zanzare mutanti”, perché cariche di capacità di fuoco terrificante, seminano e annunciano morte con strumenti venduti loro da sciagurati costruttori che risiedono in Paesi dotati delle tecnologie e degli eserciti più avanzati. Ancora, nelle stesse settimane i detentori di una potenza di distruzione che ha alle spalle migliaia di ordigni nucleari si fronteggiano in una “alleanza” che ingolfa i cieli e non ricorre nemmeno più all’alibi delle bombe intelligenti. Ed è in questi stessi giorni che i governanti di 195 Paesi, ubbidienti senza battere ciglio alle road map di rientro dal debito imposte dalle banche e dalla finanza multinazionale, non sapranno concordare su uno straccio di calendario vincolante per l’emergenza climatica. Mentre irrimediabilmente si deteriora la biosfera ed è minacciata la specie umana, siamo di fronte alla possibilità che, anziché unire le forze per curare il pianeta, si acceleri pericolosamente verso quella terza deflagrazione mondiale oltre la quale, diceva Einstein, ci si combatterà solo con le pietre.


LE QUESTIONI CHIAVE PER LA COP 21

Produzione di energia, industria, trasporto, industrializzazione su scala mondiale della catena alimentare e uso del suolo hanno aumentato la presenza dei gas climalteranti, portando la loro concentrazione in atmosfera da 278 ppm di CO2 equivalente prima della rivoluzione industriale a 400 ppm nel 2015.

Come è noto, gli scienziati dell’IPCC hanno affermato che, se l’umanità continua con l’attuale tasso di emissioni senza prendere misure per ridurlo, la temperatura media globale aumenterà entro il 2100 tra 3,7 e 4,8 gradi rispetto al livello pre-industriale, con conseguenti innalzamenti dei mari, eventi meteorologici estremi come inondazioni, siccità e cicloni, perdita di fertilità dei suoli, ondate di migrazioni. E sulla base di modelli comprovati, la comunità scientifica ha fissato in 2°C l’aumento di temperatura massimo sostenibile.

A partire dal 2020, il protocollo di Kyoto ormai scaduto dovrebbe essere sostituito da un nuovo meccanismo ben più drastico, cogente, universale. Ma la Cop 21 si avvia a ratificare un trattato non più giuridicamente vincolante che, secondo una formula più blanda e inconcludente perfino rispetto a Kyoto, concordi approssimativamente sulla convergenza verso i 2°C e certifichi che ogni singolo paese attuerà volontariamente impegni di riduzione nella direzione immancabilmente condivisa finchè rimane un auspicio. Più di 170 Paesi, comprese tutte le principali potenze economiche del mondo hanno già quotato i loro programmi. Estrapolando tutti gli impegni presi sulla carta L’IPCC e Bloomberg hanno stimato che la temperatura crescerà dai 3° ai 4°C.

Come colmare allora il gap drammaticamente lasciato aperto mentre il crescente impegno bellico sottrae risorse alla riconversione e succhia e disperde come gas in atmosfera il carbone organico che andrebbe lasciato sotto la terra o sotto gli oceani? Senza uno sforzo di pace, senza una risposta razionale ai malefici del terrorismo, senza vincoli giuridici nella lotta alla decarbonizzazione, a Parigi non resta che aprire la strada dell’adattamento e della cosiddetta mitigazione: il mercato avrà mano libera (con la solita illusione dell’autosufficienza) e l’economia neoliberista manterrà lo scettro della globalizzazione, nella perversa convinzione che lo sviluppo della tecnologia sia la soluzione dei problemi creati da un assetto politico e da una struttura economica e sociale incompatibile con la sopravvivenza. Naturalmente, lo spirito del capitalismo caritatevole non verrà meno: si prevede infatti di creare il cosiddetto “Green Climate Fund” per i Paesi più poveri (e meno inquinatori), anche se per il suo sostegno ancora non c’è accordo tra gli eventuali contributori (già il vertice 2009 di Copenaghen era fallito su questo punto, lasciando a secco il conto corrente bancario).

Va considerato che, nonostante una mobilitazione in crescita, che avrà la sua esplosione il 29 Novembre, il giorno avanti l’apertura del vertice, anche se mantiene incertezze e articolazioni sulla qualità delle rivendicazioni e sulle modalità di prosecuzione, non c’è ancora una sufficiente pressione popolare per costringere i governi ad un accordo risolutivo e di un profilo all’altezza dell’urgenza riconosciuta da tutto il mondo scientifico e metabolizzata dalle persone informate. Di fatto la soluzione volontaria messa sul tavolo dai singoli Paesi o gruppi di Paesi, senza vincoli giuridici fissati dal nuovo trattato, rappresenterebbe una sconfitta per l’ONU e insinuerebbe tra le popolazioni, accuratamente disinformate dalla campagna a cui i media si sono da tempo predisposti, l’idea che ormai la lotta contro i cambiamenti climatici sia in via di soluzione, non abbia carattere globale e debba essere lasciata in secondo piano rispetto alla crisi economica e alla lotta al terrorismo. Producendo in tal modo una nuova “narrazione” globale (che fa il paio con quella sperimentata nazionalmente di “un’Italia che riparte e ha ripreso a correre”) che non convince affatto e che è agli antipodi di quella ecologia integrale che scarta le mezze misure e va al cuore della giustizia sociale.

Mi sento di aggiungere a titolo non solo informativo che, al di là delle chiacchiere (e dei silenzi), l’Italia alla Cop 21, al pari della parte più arretrata dei paesi europei, è propensa a sostenere un sistema flessibile, volontario, senza alcun vincolo cogente europeo e nazionale, in specifico sugli obbiettivi di efficienza energetica e delle fonti rinnovabili. D’altra parte, il freno sulle rinnovabili e la spinta alle trivellazioni, l’occhiolino di A2A al carbone del Montenegro, l’incentivo agli inceneritori e una politica energetica fondata sul ruolo strategico del Paese come hub del gas, fanno pensare ad un tranquillo galleggiamento dei nostri governanti nello stagno in prosciugamento.

Invece, a Parigi risulteranno assolutamente irrimandabili le scadenze entro cui realizzare la decarbonizzazione, le pratiche più urgenti per la riconversione ecologica dell’economia, la trasformazione della fornitura elettrica in 100% da fonti rinnovabili, il cambiamento delle pratiche agroforestali a rilevante impatto climalterante, la sostituzione completamente ridisegnata della mobilità odierna praticata con veicoli a combustione fossile e a proprietà prevalentemente individuale. Occorre pertanto una rappresentazione più problematica della realtà in trasformazione e, contemporaneamente, lavorare per far emergere la necessità e praticabilità di un cambiamento profondo nei modi di produrre le merci, i servizi, l’energia; di consumare; di gestire i rifiuti; di muoversi; di vivere le nostre città, di alimentarsi e coltivare la terra, in funzione della giustizia sociale. Per tutto questo, servono gli accordi globali, normative stringenti, ma anche la promozione e assunzione di comportamenti coerenti da parte di tutti i soggetti sociali e, alla fine, una conversione anche personale cosciente della posta in gioco e applicata agli stili di vita e alle relazioni sociali.

Ma la Conferenza non sembra avviarsi a farsi carico del passaggio epocale, della minaccia alla pace che si compie anche attraverso la guerra alla natura e ad adottare modifiche strutturali. Perciò temo – e vorrei proprio essere smentito – che non risulterà all’altezza né di creare una coscienza di massa – sia in termini narrativi che di rigore scientifico – sull’urgenza di lottare contro il superamento di 2°C, né di trovare i collegamenti tra il degrado ambientale e sociale e la crisi politica che il terrorismo criminale trascina con rare opposizioni su un terreno irrazionale e sciagurato.

Ancora manca una presa d’atto politica della fine corsa di un sistema spinto all’apice e non più rigenerabile e che pone in rotta di collisione fisica e economia, democrazia e capitalismo, diritto della pace e rapina della natura. Capire quanto i cambiamenti climatici siano il termometro di un corpo malato, significa anche porre con tutte le loro implicazioni le questioni della sopravvivenza e della riproduzione della biosfera; dello scarto e dello spreco di donne e uomini, lavoro, natura e merci; della fine dell’antropocentrismo; della non scontata compatibilità tra le cadenze dei tempi biologici e la velocità di quelli artificiali; del controllo sociale delle tecnologie. Sotto questa angolatura a Parigi si dovrebbe chiedere una svolta profonda e una riconsegna del futuro nelle mani dei popoli sovrani. Quindi, una svolta democratica, che valorizzi attraverso la partecipazione più larga un’opportunità storica per rinnovare i sistemi economici e introdurre innovazioni tecnologiche e sociali che rispondano alla crisi in corso sul piano dell’occupazione, dei diritti del lavoro, del ripianamento del debito finanziario e verso la natura. Solo entro la cornice di un cambiamento complessivo co-deciso e non solo annunciato, risultano opportune e necessarie anche strategie di mitigazione e di adattamento, per affrontare gli impatti negativi dei cambiamenti climatici comunque già in atto e per alimentare anche così un processo decisionale partecipato, che prenda in considerazione la percezione del rischio e i bisogni di specifici territori, bilanciando da subito costi e benefici. Sotto questo profilo è di notevole rilievo l’appello degli scienziati italiani che impegna “le istituzioni nazionali e internazionali a sostenere la ricerca nell’ambito delle scienze del clima, degli impatti e delle tecnologie, lo sviluppo istituzionale di discipline convergenti sul piano scientifico e tecnologico e specifici programmi di training e di alta formazione sulle scienze e sull’economia del clima”. Ma – attenti! – mitigazione + adattamento + soluzioni tecnocratiche + carità ai poveri, da soli costituiscono semplicemente una sottomissione alla via d’uscita contemplata dall’opzione liberista.


UNA STRATEGIA COMPLESSIVA, PRATICABILE

Una vola poste le questioni del paragrafo precedente, rpartiamo da una certezza : finora i contributi nazionali volontariamente espressi non sono sufficienti.

Jochen Flasbarth, il Ministro dell’Ambiente tedesco e Christiana Figueres, esperta del clima per le Nazioni Unite, ritengono che, nonostante i progressi nazionali, « la comunità internazionale non sia sulla buona strada per rallentare il riscaldamento globale ».

Figueres ha detto a fine Ottobre che « fino ad ora, 146 Paesi hanno rispettato i contributi nazionali previsti, tra cui il 75% dei paesi in via di sviluppo. Sono i Paesi più avanzati che ancora non adottano provvedimenti drastici, pur avendo a disposizione il massimo di organizzazione e di risorse tecnologiche ».

Le trattative dovrebbero imporre la riduzione del gap registrato al 25 di Novebre con impegni vincolanti. A Bonn, dove si è svolto l’ultimo round di negoziati prima della conferenza, si è glissato su questo aspetto determinante ed è stato invece sviluppato un progetto di rimessa, che si concentra su due questioni nettamente politiche. La prima è con quali mezzi si può realmente combattere il cambiamento climatico. La seconda è come aiutare soprattutto i paesi meno sviluppati ad adattarsi ad esso. Di conseguenza il progetto non ha affrontato le questioni più importanti: come integrare in una legge internazionalmente vincolante i contributi messi su carta, come intervenire sugli sprechi e l’inquinamento del settore agroindustriale e dell’allevamento e come contribuire alla diminuzione del costo delle rinnovabili per sotituire i fossili e praticare più rapidamente la decarbonizzazione.Fortunatamente, nonostante il peso di Big Oil ,si sta assistendo ad un maggior rischio per i capitali immessi nel ciclo dei combustibili fossili : così dalle banche si sono trasferiti spontaneamente 2,6 miliardi di dollari di finanziamento da gas petrolio e carbone alle rinnovabili.

Per Figueres, i paesi industrializzati hanno una responsabilità storica cui contribuire. E perciò li esorta a ridurre le proprie emissioni prima di aiutare i paesi in via di sviluppo con il commercio delle emissioni.

C’è poi la questione di una riconversione che consenta uno sviluppo con la decrescita della componente energivora dell’economia. La trasformazione della produzione del valore dalla catena mineraria (perforazione, trasporto, stoccaggio, che incorpora energia che viene persa nelle centrali e nella distribuzione all’utente finale) alla catena rinnovabile, crea un risparmio netto di energia, una riduzione marcata delle emissioni e un incremento del lavoro nelle fasi dell’approntamento delle apparecchiature e del controllo, della regolazione e della manutenzione. Lo sviluppo di questa tendenza virtuosa sotto molti aspetti dovrebbe, per la natura diffusa e decentrata del paradigma energetico da adottare, avere alla base territori e regioni, con piani economici di collaborazione e di collegamento delle infrastrutture che li collegano. Oggi la Banca Europea e in minor proprzione quella Mondiale non elargiscono ancora fondi da assegnare ad un cambiamento di paradigma di questa portata. Il declamato “Internet degli oggetti” richiede modifiche comportamentali e istituzionali che non sono create dalla tecnologia, ma dall’organizzazione politica e sociale. Ad esempio, mettere in comunicazione digitale energie rinnovabili, fornitura d’acqua, mobilità, sanità, welfare e istruzione, comporta riattivare le istituzioni pubbliche dei beni comuni, rilanciare le municipalizzate, bloccare le privatizzazioni.

Secondo un rapporto del think-thank ambientale E3G riportato da EurActiv.com, “un sistema di governance che non riconosca o non supporti adeguatamente gli attori locali, probabilmente non riuscirà a raggiungere gli obiettivi che l’IPCC ritiene improcrastinabili”.

La regione Nord-Pas-de-Calais in Francia si sta muovendo in questa direzione e mette a disposizione di chiunque voglia verificarlo (anche dei ministri Poletti e Guidi, ma anche di Landini e Camusso) le cifre sul vantaggio occupazionale e qualitativo della riconversione della sua industria, tra le più dense di tutta la Francia.

Uno dei principi di questa riterritorializzazione è la condivisione – la General Motors afferma che per ogni auto condivisa si risparmiano 15 veicoli – con la conseguente nascita di una economia meno centralizzata e monopolista. Se condividiamo il più possibile, ci avviamo certamente verso un sistema di ridistribuzione ad economia circolare.

Se poi si passa al 100% rinnovabile per l’elettricità, si arriva ad un sistema con energia a costo marginale quasi a zero, con la modifica più profonda mai avvenuta per il modello di business dei servizi energetici e con la promozione immancabile di forme cooperative, che permettono a tutti, soprattutto nelle città, di raccogliere la sufficiente quantità di vento o solare dove sono.

In fondo, la nuova amministrazione di Enel si sta accorgendo di questo mutamento in corso e per questo avvia un piano industriale completamente nuovo (che desta meraviglia all’estero, ma non in Italia, dove Renzi è rimasto folgorato solo dalla scoperta del giacimento egiziano di gas ad opera di ENI) nella prospettiva della graduale decarbonizzazione ed in vista di questo entra nelle case con contatori intelligenti e nelle città con le smart grids e l’illuminazione senza cavi.

In una recente intervista a Euractiv, Jeremy Rifkin ricostruisce un passato, un presente e un futuro molto realistici riguardo alle città metropolitane.

«La prima rivoluzione industriale – afferma – ha incoraggiato aree urbane densamente integrate verticalmente, perché i treni dovevano andare hub-to-hub, non potevano andare ovunque. La seconda rivoluzione industriale, con una pronunciata viabilità, consentiva di muoversi verso un maggiore aggregato suburbano e avere grandi regioni metropolitane che si sono insediate scompostamente. La terza rivoluzione industriale, che dovrebbe essere aperta, collaborativa e in scala umana, permette di avere aree urbane non più enormemente dense, perché i costi di transazione sono vicino allo zero per la gestione delle comunicazioni e dei trasporti». Di conseguenza, considerando non solo l’area urbana, ma anche la regione circostante, possiamo preservare per l’intera regione la sua fetta di ambiente, di biodiversità, di sicurezza alimentare a chilometro zero, senza ipotizzare una centralizzazione globale della gestione della biosfera, che non funzionerà mai.

Claire Roumet, direttore esecutivo di Energy Cities, l’associazione delle autorità locali europee impegnata nella promozione di politiche energetiche locali sostenibili, sostiene che “L’Unione dell’energia deve riflettere le preoccupazioni quotidiane dei cittadini europei, coinvolgendo direttamente i funzionari locali. Il sistema energetico sta diventando sempre più decentrato: è il momento che l’architettura della governance si adatti”. Del resto, in vista della conferenza internazionale sul clima di Parigi, si sono mossi anche i sindaci, che a Luglio scorso, convocati dal papa per trasformare in impegno la Laudato Sì, avevano lanciato una sfida per la COP21: una chiamata ai Comuni a ridurre del 40% le emissioni di CO2 entro il 2030. Lo avevano confermato poi in sede europea attraverso il Patto dei sindaci, l’associazione dei primi cittadini, con un appello che ha visto un’accoglienza calorosa da parte di città ed enti locali di 42 paesi, con oltre 6mila firmatari e la presentazione di più di 4mila piani d’azione per lo sviluppo di un sistema energetico sostenibile. Ne riparleranno più le amministrazioni locali italiane – Milano Roma Napoli Torino – chiamate a un estenuante pressing di Renzi alle prossime elezioni comunali sulla costituzione di alleanze con gli interessi delle imprese e dei poteri che della Cop 21 importa poco e che lui non ha mai pensato di rottamare?


POLITICA E DEMOCRAZIA SOCIALE DI FRONTE ALLA SFIDA CLIMATICA

David Roberts ha scritto un interessante articolo sull’atteggiamento dei politici e degli scienziati rispetto ai pericoli del cambiamento climatico.

La premessa dell’articolo di Roberts è che vi sia una forte discrepanza fra quello che è teoricamente possibile per limitare il riscaldamento globale e quello che è realisticamente possibile. Ci sono molte inerzie, sia di tipo politico – la difficoltà di convincere tutti gli stati del mondo ad effettuare uno sforzo congiunto e l’umanità intera a cambiare radicalmente le proprie abitudini quotidiane – sia tecnico – legate all’inerzia del ricambio tecnologico. Secondo Roberts occorre sostenere per decenni un livello di coordinamento e mobilitazione globali mai raggiunto in passato. I politici vogliono sentire buone notizie, e gli scienziati, in parte per paura di essere altrimenti esclusi dal dibattito, gliele forniscono. Questo non implica alcuna disonestà o falsificazione dei dati, ma piuttosto una serie di assunzioni che, se pur realistiche dal punto di vista scientifico, non lo sono necessariamente dal punto di vista socio-politico ed economico. Il motivo, è che i politici vogliono sentirsi dire che è ancora possibile limitare l’aumento della temperatura a meno di +2°C. E vogliono sentirsi dire che possono raggiungere questo obiettivo senza dover proporre tagli rilevanti delle emissioni nel breve termine, diciamo per la durata del loro mandato.
Un classico esempio sono le tecnologie di sequestro del carbonio. Quasi tutti gli scenari modellistici che limitano il riscaldamento a 2 °C prevedono che in futuro l’umanità raggiungerà emissioni negative, ovvero che direttamente o indirettamente estrarrà dall’atmosfera più carbonio di quanto non ne emetta. Ma affinché, ad esempio, la Cina raggiunga un obiettivo simile occorre che riduca le sue emissioni di una entità eguale a quelle rilasciate dall’intera India!

Chi è allora, secondo Roberts, che dovrebbe ammettere per primo che i 2 °C stanno diventando rapidamente un obiettivo poco realistico? Anche se molti esperti del clima stanno sostenendo che 2°C è un obiettivo insufficiente, che rappresenta già danni inaccettabili, ci troviamo ad affrontare una situazione in cui anche una limitazione della temperatura a 3°C richiede cambiamenti politici e tecnologici eroici.
Forse, come conclude Roberts, alla “gente basta sentirsi dire che c’è speranza di restare entro i 2 °C. I politici vogliono dire che c’è speranza di restare entro i 2°C. Su richiesta, i modellisti sono ancora in grado di produrre scenari che mostrano i 2°C. E nessuno vuole essere quello che rovina la festa.” A meno che …

E qui entra in campo la società civile, che ad ora i governanti vorrebbero escludere con il pretesto delle crescenti preoccupazioni per la sicurezza.

Alla domanda per un commento sulle possibili limitazioni, il vice portavoce dell’ONU Farhan Haq ha risposto con la richiesta di massima copertura e partecipazione allo svolgimento della conferenza. Ma si sa che se la presenza della piazza viene preclusa, non sono certo i media tradizionali a rilanciare un ruolo autonomo e insostituibile, anche perché gli accreditamenti dei giornalisti sono stati contingentati. Per questo occorre premere per assicurare una grandissima manifestazione pacifica a Parigi il 12 Dicembre giorno della conclusione In sostanza, il sito della conferenza conterrà circa 20.000 persone in tutto – la metà da parte dei governi, la metà dalle Nazioni Unite, le ONG e la stampa.

In centinaia di città in tutto il mondo è stato deciso che le persone marceranno per il clima in nome della nostra comune umanità. Si tratta di una visione di cooperazione umana che gli assassini del Bataclan hanno cercato di distruggere e che deve fallire. Quindi è ad un immaginario collettivo ormai radicato nella società e ben espresso dall’Enciclica e dagli atti di Bergoglio (cercare la porta di apertura del Giubileo sulle rive del lago Ciad che sta evaporando!) che ci si richiameranno i movimenti per proiettare una voce dissonante sui colloqui sul clima delle Nazioni Unite e per andare oltre Parigi. In una dichiarazione rilasciata da ActionAid International la coalizione CLIMA 21 e tutte le organizzazioni che fanno parte di essa, ha espresso la propria solidarietà alle vittime del 12 novembre a Beirut e aquelli del 13 novembre a Parigi, aggiungendo che: ” Il mondo che abbiamo sempre difeso non è quello che abbiamo visto in quella notte. Il mondo che noi difendiamo è di pace, di giustizia, di lotta contro la disuguaglianza e il cambiamento climatico”. Non mi risultano dichiarazioni dello stesso tenore da parte dei Governi, delle multinazionali o delle associazioni delle imprese, che pure pretendono di decidere per tutti. Centinaia di migliaia di persone saranno mobilitate durante le due settimane di negoziati e rappresentanti provenienti da paesi di tutto il mondo saranno presenti a Parigi, a partire dalle sedi collaterali previste.

Nel frattempo, in una dichiarazione in vista dei colloqui sul clima, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), è scesa in campo per proteggere la salute delle generazioni attuali e future, considerando il trattato di Parigi come una intesa sulla salute pubblica.


GUERRA, ARMAMENTI, TERRORISMO, MIGRAZIONI E CLIMA

Il senatore Bernie Sanders in un dibattito al Congresso degli Stati Uniti ha suonato l’allarme perché “il cambiamento climatico è direttamente correlato alla crescita del terrorismo”. Citando uno studio della CIA, Sanders ha avvertito che i paesi di tutto il mondo stanno “andando a lottare su una quantità limitata di acqua, quantità limitate di terra per coltivare i loro raccolti e si stanno riconsiderando sotto questo profilo tutti i tipi di conflitto internazionale”. In parole povere: la guerra e il militarismo alimentano esse stesse il cambiamento climatico e ne sono alimentate.

Va qui rilevato, a titolo di supporto, che uno dei maggiori contribuenti al riscaldamento globale non ha alcuna intenzione di accettare di ridurre l’inquinamento anche in vista della scadenza parigina. Il problema in questo caso è il Pentagono, che occupa 6.000 basi negli Stati Uniti e più di 1.000 basi in più di 60 paesi stranieri. Secondo il “2010 Base Structure Report”, l’impero globale del Pentagono include più di 539.000 strutture in 5.000 siti che coprono più di 28 milioni di acri, bruciando 350.000 barili di petrolio al giorno (solo 35 paesi nel mondo consumano più) senza contare l’olio bruciato da appaltatori e fornitori di armi. La fornitura di carburante riguarda più di 28.000 veicoli blindati, migliaia di elicotteri, centinaia di aerei da combattimento e bombardieri e vaste flotte di navi militari. L’Air Force rappresenta circa la metà del consumo di energia operativa del Pentagono, seguita dalla Marina Militare (33%) e dall’esercito (15%). Ironia della sorte, la maggior parte del petrolio del Pentagono viene consumato in operazioni dirette a proteggere l’accesso degli Stati Uniti al petrolio straniero e le rotte di navigazione marittima per trasportarlo. Si stima che la guerra in Iraq del Pentagono abbia generato più di tre milioni di tonnellate di inquinamento da CO2 al mese.

In breve, il consumo di olio si incarica di consumare più petrolio. Questo non è un modello energetico sostenibile. Ma cosa può fare un trattato sotto egida ONU nel momento in cui il Pentagono ha insistito su una “norma di sicurezza nazionale” che avrebbe posto le sue operazioni al di là di ogni controllo globale, esentandolo anche dalla regolamentazione dell’inquinamento e facendone un inquinatore privilegiato?

In quanto al terrorismo, Oliver Tickell su The Ecologist mette in guardia i leader politici dai rischi di un fallimento della COP21, ipotizzando un introito di circa 500 milioni di dollari all’anno dalle vendite del petrolio che in parte è nella disponibilità dei terroristi di ISIS per finanziare le proprie attività criminali: un motivo in più per non fallire e ridurre la nostra dipendenza dal petrolio. E’ vero che chi muove gli attacchi terroristici troverà altre risorse per finanziarsi. Perciò vanno analizzate a fondo le condizioni che muovono tali crimini, pena non saperli contrastare adeguatamente. Quando andiamo oltre le comprensibili emozioni, ci scopriamo fragili, vulnerabili e sale quindi un senso di smarrimento: ma davvero possiamo sorprenderci per gli attentati nel cuore dell’Europa? Non siamo forse in guerra, noi Europa, noi Nato, nel Vicino Oriente e non da oggi? Abbiamo dimenticato anche le stragi anticipatrici di Madrid e Londra o il massacro di Srebrenica o gli scempi nei Balcani? Da un quindicennio ormai combattiamo una guerra asimmetrica che ha causato centinaia di migliaia di vittime e generato un caos geopolitico senza precedenti. L’Isis è solo la più recente, e forse la più attrezzata, fra le molte milizie contro le quali stiamo combattendo. Spesso si tratta di ex alleati, che si è pensato di sostenere e utilizzare contro temporanei nemici comuni, salvo poi trovarseli contro; altre volte si tratta di formazioni che pescano miliziani e trovano consenso sull’onda di sentimenti antioccidentali alimentati dalla guerra incessante che conduciamo fra l’Afghanistan, l’Iraq e la Siria, uno spicchio di mondo nel quale si condensano troppi interessi economici e politici e troppi rancori storici. La via da ricercare è soprattutto questa volta molto meno immediata della sconsiderata risposta data da Bush all’attacco alle Torri Gemelle: forse non darebbe risultati immediati, ma avrebbe il grande merito di far intravedere una via d’uscita accettabile e – soprattutto – desiderabile. Ci dimentichiamo troppo in fretta che l’Europa ha già avuto una guerra terribile nei propri confini, quella centrata su Sarajevo, combattuta con altrettanta ferocia e intrecci religiosi ed etnici ancora non sopiti.

Non c’è compatibilità tra guerra e ecologia e quando la prima prevale il senso di impotenza è devastante, come ci ha mostrato drammaticamente Alex Langer. Sono ormai troppi anni che la comunità internazionale risponde alla guerra del terrore col terrore della guerra. Anzi, si può dire che ha sempre agito così. Senza risultati e alimentandone paradossalmente la violenza insana. Non si spegne un fuoco versandoci sopra benzina, ma piuttosto facendolo estinguere, togliendogli legna e brace. Quella delle armi e del consenso ideologico. Non ripetiamo quanto accaduto coi Talebani con l’Isis, che è di fatto una minoranza nel grande panorama del mondo islamico. Smettiamo di vendere armi ai fiancheggiatori occulti del terrorismo mondiale, scommettiamo sulla pace. Quella della risposta nonviolenta e creativamente dissuadente e assimilante è una strada che non abbiamo mai percorso. È vero che nessuno ha ricette pronte per rispondere a minacce peraltro inedite nelle forme in cui si stanno manifestando ma, almeno partendo dai fallimenti proviamo a scommettere che, affrontati su un terreno che i terroristi non conoscono, possiamo avere più chance. Insomma proviamo a far prevalere un altro alfabeto, lontano dallo scontro di civiltà.

Ritornando alla compromissione del clima come possiamo ancora distinguere in assetto di guerra alle frontiere tra rifugiati politici e migranti per ragioni economiche quando si calcola che sono ormai 50 milioni i migranti per motivi climatici? Per fare un esempio di quanto sottovalutiamo la componente ambientale, in Marzo uno studio sul cambiamento climatico del National Geographic legato al conflitto in Siria ha dimostrato che, tra i motivi non divulgati, una grave siccità, aggravata dal riscaldamento climatico, ha spinto i contadini siriani ad abbandonare le loro colture e affollare le città, fornendo una base totalmente ignorata dai media che ha contribuito a scatenare una guerra civile che ha ucciso centinaia di migliaia di persone.


COINVOLGERE E INCORAGGIARE IL MONDO DEL LAVORO

Quando il 30 Novembre si aprirà la Conferenza ONU sul cambiamento climatico le emissioni annue globali di anidride carbonica (CO2) ammonteranno a circa 32 miliardi di tonnellate. Questa cifra è del 10 per cento superiore ai 29 miliardi di tonnellate che sono stati emessi nel 2009, quando l’ultima grande conferenza ONU sul clima si era tenuta a Copenaghen. Entro il 2050 per stare nei 2°C si dovrebbe scendere a emissioni non superiori a 7 miliardi di tonnellate annue.

L’economia globale potrebbe già limitare le dispersioni di CO2 in atmosfera fino all’obbiettivo IPCC di 20 miliardi di tonnellate entro il 2035, se la maggior parte dei paesi spostassero dall’1,5 al 2% l’anno del PIL verso gli investimenti in efficienza energetica e le fonti di energia rinnovabile a basse emissioni. Il consumo di petrolio, carbone e gas naturale dovrebbe scendere contemporaneamente del 35%, vale a dire, ad un tasso medio del 2,2 per cento annuo. I nuovi investimenti – sostitutivi e accompagnati alle dismissioni – genererebbero decine di milioni di nuovi posti di lavoro in tutte le regioni del mondo.

C’è al riguardo incomprensione anche a sinistra e sottovalutazione nel sindacato. Ci sono ragioni da mettere in conto che, evidentemente, non si possono trascurare, ma non sono pregiudizievoli. La prima è che i lavoratori e le comunità che consumano energia da combustibili fossili si troveranno ad affrontare licenziamenti, calo dei redditi, e un calo dei bilanci del settore pubblico per sostenere il welfare. La seconda è che i profitti per le grandi corporation di combustibili fossili diminuiranno bruscamente e in modo permanente. La terza ci porta oltre l’industria dei combustibili fossili e dentro questioni più ampie, che riguardano non certo negativamente l’occupazione e le prospettive economiche. Secondo la maggior parte degli analisti, le economie corrono il rischio di affrontare costi energetici più elevati quando saranno costrette a tagliare repentinamente e senza preparazione i loro rifornimenti di combustibili fossili. Senza interventi alternativi sarà quindi sempre più costosa da gestire l’intera gamma di edifici, industrie, macchine, e mezzi di trasporto che sostiene tutte le economie. Siamo di fronte ad un processo complesso, da non dilazionare, tenuto conto che va accantonata anche l’idea che il gas in sostituzione del carbone sia una soluzione ponte.

Proprio perciò per i Paesi in tutte le fasi di sviluppo sono richieste politiche industriali robuste ed efficaci. Ciò significherebbe: grandi investimenti pubblici per elevare gli standard di efficienza negli edifici di proprietà statale; espansione di buoni sistemi pubblici di trasporto, sostituzione di energia pulita e rinnovabile al petrolio, al gas e al carbone; attuazione di una rigorosa politica dei propri acquisti da parte dei governi. Anche fornire un conveniente e selettivo finanziamento alle aziende private potrà diventare una fondamentale misura di politica industriale.

L’Agenzia per le energie rinnovabili (IRENA) riferisce che, in tutte le regioni del mondo, i costi medi di produzione di energia con la maggior parte delle fonti rinnovabili e pulite sono ora in parità con quelli dei combustibili fossili. Ciò significa che le famiglie, le imprese private e gli enti pubblici che sostituiscono le energie rinnovabili pulite ai combustibili fossili non dovranno pagare di più per soddisfare il proprio fabbisogno energetico. Diverrà allora utile introdurre sia una carbon tax che un limite rigido sulle emissioni di gas climalteranti, in modo che questi costi ambientali siano incorporati nei prezzi dei combustibili fossili da bruciare il meno possibile.

Le buone notizie giungono anche per i posti di lavoro. Per gli Stati Uniti, per esempio, si è scoperto che l’aumento degli investimenti per circa 200 miliardi di $ all’anno (con un impegno dell’1,2 per cento del PIL), innalzerebbe gli standard di efficienza energetica e sosterrebbe l’espansione della produzione di energia da fonti rinnovabili, procurando in 20 anni la discesa del 40% delle attuali emissioni e la creazione di un incremento netto di 2,7 milioni di posti di lavoro. E tenendo conto dei lavori che andrebbero persi quando la produzione da petrolio, carbone e gas naturale sarà calata del 40%.

Nel caso della Spagna, in uno studio condotto da Podemos, si è mostrato anche come si possa combattere il moloch dell’austerità. Si è scoperto che, aumentando gli investimenti in efficienza energetica e le fonti rinnovabili pulite con l’impiego dell’1,5% del PIL, la Spagna potrebbe ridurre le proprie emissioni di oltre il 60% in 20 anni, generando un aumento di circa 400.000 posti di lavoro rispetto al mantenimento della sua attuale infrastruttura energetica. Questo programma consentirebbe inoltre alla Spagna a limitare progressivamente la sua forte dipendenza dalle importazioni di petrolio. Allo stato attuale, la fattura petrolifera per l’importazione della Spagna si espande rapidamente ogni volta che l’economia inizia a crescere, diventando un grave ostacolo per uscire dalla trappola dell’austerità. Il caso spagnolo ha molte affinità con quello italiano.

Infine si registrerebbe una interessante ricaduta sui sistemi proprietari. Nascerebbero infatti significative opportunità per le forme di proprietà alternative, tra cui varie combinazioni di pubblico in scala ridotta, privato, e proprietà cooperativa, favorite dall’operare con requisiti di profitto inferiori rispetto alle grandi aziende private.

Ma affinché gli investimenti in efficienza energetica e fonti rinnovabili pulite siano accolte senza traumi e amplino notevolmente le opportunità di lavoro per i paesi di tutto il mondo, occorre fornire un adeguato supporto per i lavoratori e le comunità la cui sussistenza dipende attualmente dall’industria dei combustibili fossili. E occorre muoversi in fretta. Infatti, è in corso la rapida crescita di un movimento globale di disinvestimento dai combustibili fossili, che comprende le fondazioni, le università, le organizzazioni religiose e molte municipalità situati in tutti gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, così come in Canada, Sud Africa, Australia e Nuova Zelanda. Queste organizzazioni sono state spinte da attivisti di base a prendere posizioni di principio con i loro portafogli di investimento. E’ il caso nostrano dell’abbandono della costruzione della centrale di Saline Jonica. Oggi anche la Banca Mondiale e la BEI declinano nuovi investimenti nel carbone.

Il cammino qui delineato non può sfuggire al sindacato e questo è uno dei percorsi per cui si può costringere l’economia mondiale ad una riconversione praticabile verso la stabilizzazione del clima e la generazione di decine di milioni di posti di lavoro per i lavoratori e per i proletari (o se si vuole i poveri) di tutto il mondo. Tutti i partecipanti alla prossima conferenza di Parigi hanno bisogno di ascoltare questo messaggio e di accogliere questo programma riempiendolo di concretezza e di occasioni per allearsi con un mondo del lavoro ancora titubante.


QUALCHE OSSERVAZIONE NON RITUALE SUI GRANDI EVENTI 2015

Stupirà, spero, che i due più rilevanti eventi dell’anno – EXPO e Cop 21 – non siano stati sintonizzati su lunghezze d’onda comparabili. EXPO ha trattato sostanzialmente di alimentazione e esibito le sue vetrine sfavillanti con un bilancio festoso e commerciale, che non ha mai messo in primo piano le implicazioni energetiche del cibo e dell’agricoltura. “Energy for life” è scomparsa dall’abbinamento con “Food for the planet”, forse proprio perchè il futuro disegnato dalla manifestazione milanese si è tradotto in un presente perfezionato e rassicurante se si correggono gli sprechi, nonché in un orizzonte da cui sono stati eliminati i grandi conflitti per la giustizia climatica e sociale. In compenso la Cop 21 non tratterà quasi dell’effetto climatico della filiera industriale agroalimentare e della responsabilità che occorre assumersi anche a livello micro nei confronti della terra e dei suoi cicli naturali, da rigenerare e da raffreddare coltivando, come dice un bellissimo slogan dei Sem Terra.

Chissà se i documenti conclusivi di due grandi kermesse mondiali avranno mai modo di essere portati a confronto, non come parto di elite sensibili, ma come adeguata riflessione di milioni di cittadini che riprendono il loro diritto al futuro, sottraendolo alle vistose ipoteche delle multinazionali. Le cariche della polizia in Place Republic nel pomeriggio stesso delle grandi manifestazioni per il clima su tutto il pianeta non sono certo un buon segnale.

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