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Gas fossile: il nemico armato del clima

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015In una conversazione privata a conclusione della Cop 21, un dirigente Eni ha previsto in mia presenza che il vero vincitore della conferenza di Parigi sarebbe stato il gas: completamente compatibile con il sistema delle grandi infrastrutture, disponibile in grandi quantità con sempre nuove tecnologie, soggetto alle convenienze geopolitiche delle grandi potenze e alle attenzioni politiche dei produttori di armi, meno osteggiato del petrolio e del carbone per i suoi effetti sulle emissioni climalteranti. Insomma, un utile compromesso per gli enormi interessi minacciati dalle rinnovabili e per mascherare l’urgenza di un cambio radicale di paradigma energetico: la decarbonizzazione innanzitutto.

A distanza di un anno e mezzo, quella previsione è più che confermata e il ritardo nel contenere gli aumenti di temperatura è reso più drammatico, pressoché inarrivabile, ma non esecrato quanto occorrerebbe per l’indifferenza dell’opinione pubblica. Il gas irragionevolmente si impone come la soluzione competitiva che l’economia mondiale (con l’eccezione parziale di Cina, India e Francia) e le multinazionali industriali e dei servizi stanno scegliendo per esternalizzare i costi della catastrofe della biosfera e abbindolare le popolazioni con il mito del ritorno alla crescita, accompagnata dalla riduzione delle tariffe e delle tasse sulle persone fisiche (il prezzo del gas viene tenuto basso, la sua diffusione non è accompagnata da misure di prevenzione private e pubbliche degli effetti nocivi e i danni climatici si abbattono non in generale, ma, per ora, prevalentemente sugli sfortunati più direttamente colpiti).

Dopo gli accordi per non andare oltre l’aumento di 1,5° C, solo il gas – naturale, liquefatto, da scisto, da sabbie bituminose – avanza, in un’autentica guerra commerciale e militare, per prendere tempo fino al 2023, quando i firmatari di Parigi dovranno sottostare a vincoli e verifiche più stringenti. E intanto, a tutto gas!

Se disegnassimo sulle carte geografiche i progetti di gasdotti e le rotte delle navi metaniere avremmo lo stesso effetto delle avanzate delle divisioni in tempo di guerra. I progetti mastodontici fioccano e l’Italia è tra i protagonisti sul fronte della messa in opera e della fornitura di sbocchi. Qualsiasi mare si debba valicare, eccoci pronti: Adriatico (Tap), Mar Nero (Blue Stream), Mar Caspio (Trans Caspian) per contendere alla Polonia, alla Germania e al centro del continente l’occasione dell’ “hub” del gas fossile europeo.

Ma c’è un altro fronte della guerra in corso che complica le strategie. Il gas liquefatto in partenza e poi rigassificato in arrivo, può viaggiare via mare, essere immesso in cisterne a bassa temperatura dai giacimenti naturali del Qatar, come dai giacimenti di sisto e dalle sabbie bituminose, dopo essere stato trasportato sulle coste americane dai gasdotti cui Trump oggi dà il via libera.

“È l’inizio della guerra dei prezzi tra il gasolio americano e il gas di condotta che viene da oriente”, ha dichiarato Thierry Bros, analista di Société générale, citato dal Wsj. Gli analisti dicono che la Russia potrebbe tagliare i prezzi che addebita ai propri clienti europei per cercare di scacciare i nuovi concorrenti statunitensi. Anche se più caro, molti in Europa vedono l’ingresso del gas liquido degli Stati Uniti sul mercato come parte di un più ampio sforzo geopolitico per sfidare il dominio russo delle forniture e mettere in crisi il rapporto Putin-Merkel per la costruzione della condotta North Stream 2 nel Baltico.

E infatti lo scatto americano non si è fatto attendere. A marzo, erano già stati consegnati i primi carichi di shale gas al Brasile, con successive spedizioni verso l’Asia. Il 21 aprile il Wall Street Journal aveva informato che una nave metaniera portava per la prima volta gas liquido americano in Europa. Poi le notizie si sono intensificate: il Guardian informa che 27.500 metri cubi di shale gas sono arrivati in Norvegia.

Trump, nel suo discorso a Varsavia ha voluto mandare un chiaro messaggio alla Russia. “Siamo seduti su una grande quantità di energia fossile ed ora siamo esportatori di energia, quindi, se qualcuno di voi ha bisogno di energia, basta che ci dia una telefonata”, così, secondo la trascrizione del suo discorso diffuso dalla Casa Bianca.

Il terminal nel Mar Baltico di Swnoujscie, dove la Polonia già accoglie Gnl dal Qatar, sarà ampliato e l’allestimento di terminali per il gas americano nei Paesi Baltici sono la risposta al sollecito, mentre si affaccia in concorrenza anche l’Egitto dopo la scoperta da parte dell’Eni di notevoli giacimenti nel Mediterraneo. Così, tutti corrono – un giorno sì e un giorno no – ai terminali del Golfo del Messico, alla corte del Qatar, alle stanze sontuose degli sceicchi arabi o di Al Sisi, dimenticandosi ogni volta di Regeni.

C’è infine la schizofrenia statunitense verso i produttori di gas del Golfo. Dopo l’anatema di Trump e dell’Arabia Saudita verso il Qatar, tre giganti energetici (Exxon, Bp e Total) dichiarano il loro sostegno al piano di Doha di aumentare del 30% la produzione entro il 2024. E Washington diventa mediatrice di una lotta di puri interessi, tutti con la puzza del gas, altro che inebriati da essenze religiose.

D’altra parte, come ha detto alla Reuters il funzionario di una delle compagnie coinvolte: “C’è solo una politica qui: si devono fare scelte puramente economiche. Essere qatariota in Qatar e emiratino negli Emirati”. Non c’è solo Trump a sparare sul clima.

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Clima: fuori Trump è meglio

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Sdrammatizziamo una delle operazioni più grette in animo a Trump: il ritiro dall’accordo sul clima di Parigi, con il conseguente abbandono del summit da parte del suo ministro, incaricato di presenziare al G7 Ambiente di Bologna. Giustamente, la posizione sul clima del presidente americano crea scandalo, ma le reazioni non si stanno facendo attendere. Si stanno creando legami finanziari e industriali tra potenze che hanno un sostegno reale da parte dei popoli e dei movimenti e che, contestando il ritiro della firma Usa a Parigi, ritengono ormai chiusa la parabola del sistema energetico già oggi in profonda crisi e trasformazione. Perfino nella fida Inghilterra conservatrice, si è costituita Conversation Uk, che riceve finanziamenti da fondazioni e imprese innovative, nonché l’adesione di sessantacinque membri dell’università. Secondo questo trust, la saggezza convenzionale per cui gli Stati Uniti dovrebbero rimanere nell’ambito dell’accordo di Parigi è un abbaglio. Un ritiro Usa sarebbe il miglior risultato per l’azione sul clima internazionale e si dovrebbero accettare realisticamente le conseguenze dell’isolamento a cui vanno incontro come un danno politico per loro assai più rilevante che per i Paesi che mantengono fede agli impegni.

Gli stessi aiutanti del presidente Usa sono divisi sulla questione. Il capo strategico Steve Bannon incita la fazione negazionista spingendo per un’uscita. Il Segretario di Stato e l’ex direttore esecutivo di Exxon Mobil, Rex Tillerson, sostengono invece che gli Stati Uniti dovrebbero mantenere una “sedia al tavolo”. È nel potere del presidente ritirarsi dall’accordo di Parigi e forse anche dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfcc), che ha guidato la diplomazia globale del clima per oltre 25 anni. Effettivamente, un ritiro statunitense minimizzerebbe i rischi e massimizzerebbe le opportunità per la comunità climatica. In poche parole: l’amministrazione Usa e Trump possono fare più danni all’interno dell’accordo che al di fuori di esso.

Ci sono quattro rischi legati alla partecipazione statunitense all’accordo di Parigi:

  1. gli Stati Uniti mancheranno il loro obiettivo di emissioni;
  2. mineranno gli aiuti finanziari ai Paesi poveri;
  3. provocheranno un effetto “domino” tra altre nazioni;
  4. ostacoleranno i negoziati delle Nazioni Unite.

I primi due rischi non sono conseguenza del ritiro in sé: l’accordo di Parigi non richiede che gli Stati Uniti soddisfino il loro attuale impegno per la riduzione delle emissioni, né per offrire ulteriori finanziamenti climatici ai paesi in via di sviluppo. L’accordo è procedurale, piuttosto che vincolante; richiede un nuovo e più forte impegno per il clima ogni cinque anni, ma non è obbligatorio centrare questi obiettivi.

Gli Stati Uniti guidati dall’attuale governo mancheranno probabilmente il loro obiettivo climatico indipendentemente dal ritiro della firma. Avrebbero bisogno anche di più del piano di energia pulita varato da Obama per ridurre le emissioni del 26-28% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025. Le emissioni statunitensi con il “fossilofilo” Trump sono destinate ad aumentare fino al 2025, piuttosto che diminuire. Lo stesso vale per i finanziamenti internazionali in materia di clima, che saranno tagliati nel piano di bilancio America First. Già avrebbero dovuto fornire 3 miliardi di dollari ma hanno finora stornato solo 1 miliardo. Il rimanente non verrà mai.

Il terzo rischio è l’effetto domino: le azioni statunitensi dentro l’accordo potrebbero ispirare altri governi a ritardare l’azione per il clima. In altre parole, rinunciare ai propri obiettivi o ritirarsi. Ma ci sono poche prove che suggeriscono che l’abbandono statunitense indurrà altre nazioni a seguirne l’esempio. Il parallelo storico più vicino è il Protocollo di Kyoto, che gli Stati Uniti hanno firmato ma non hanno mai ratificato. Quando il presidente George W. Bush annunciò che gli Stati Uniti non avrebbero ratificato il trattato, gli altri Paesi si sono riuniti a sostegno del protocollo e hanno spinto gli accordi di Marrakech nel 2001 per rafforzare le norme di Kyoto. Quello che più probabilmente provoca un effetto domino è il comportamento “domestico” degli Stati Uniti, piuttosto che qualsiasi possibile ritiro dall’accordo di Parigi.

Il rischio peggiore è che gli Stati Uniti agiscano come freno nei colloqui internazionali sul clima proprio mantenendo la loro adesione. Se gli Stati Uniti restano nell’accordo, conserveranno una funzione di veto nei negoziati o potrebbero sovraccaricare i negoziati chiedendo modifiche alle verifiche previste nel 2018, come ha già suggerito il segretario dell’energia Rick Perry. In questa luce, dare all’ex capo di Exxon Mobil una “sedia al tavolo” è un’idea mefitica.

Un ritiro statunitense, d’altra parte, potrebbe creare nuove opportunità, come la rinnovata leadership europea e cinese. Sulla scia delle elezioni statunitensi del 2016, l’ex candidato presidenziale francese Nicholas Sarkozy ha sollevato l’idea di applicare un’imposta sul carbonio del 1-3% sulle importazioni statunitensi. La Cina, l’Unione europea e l’India – che sono i più grandi emittenti di co2, insieme agli Stati Uniti, hanno annunciato che resteranno impegnati nell’accordo di Parigi in caso di uscita americana. Anche Gentiloni ha timidamente confermato. Ciò suggerisce che il consenso internazionale sulla lotta contro il cambiamento climatico attraverso l’accordo rimarrà intatto.

In questa fase, non è chiaro quale strategia seguirà l’amministrazione di Trump per uscire dall’accordo di Parigi. Tuttavia, riteniamo che sia improbabile che una rinegoziazione dell’accordo in linea con le intenzioni della Casa Bianca possa avere successo. In realtà, il ritiro ha già avuto un responso insieme critico e sprezzante: Macron ha corretto lo slogan Make greater America in Make greater our planet, segno di un diffuso sentire che giunge dai popoli in disaccordo con la vacuità degli obbiettivi sovranisti.

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Nikola Tesla e Donald Trump: con la testa rivolta alle spalle

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Trump e Tesla si collocano ad almeno 120 anni di distanza l’uno dall’altro, ma un confronto tra le loro visioni risulta impietoso per l’arrogante Tycoon e il tempo, a giudicare dal programma energetico del nuovo Presidente, sembrerebbe essere trascorso invano.

Nikola Tesla in una intervista di fine ‘800 affermava che ci sono tre maniere con le quali l’energia che determina il progresso umano può essere aumentata. “In primo luogo, noi possiamo aumentare la massa. Questo, nel caso dell’umanità, significherebbe il miglioramento delle condizioni di vita, la salute, la cura della prole ecc… In secondo luogo, noi possiamo ridurre le forze di attrito che impediscono il progresso, come l’ignoranza, l’insanità, e il fanatismo religioso. In terzo luogo, noi possiamo moltiplicare l’energia a disposizione della massa umana imbrigliando le forze dell’universo, come quelle del sole, dell’oceano, dei venti e delle maree. Il primo metodo aumenta la quantità di cibo e il benessere. Il secondo metodo porta alla pace. Il terzo metodo aumenta la nostra capacità di lavorare e di raggiungere risultati. Non ci può essere progresso che non sia costantemente diretto verso un incremento del benessere, della salute, della pace e dei risultati del lavoro. Questa concezione, ancorché meccanicistica della vita, è uno degli insegnamenti di Buddha e del Sermone della Montagna”.

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La presidenza di Trump: poco sole, tanto petrolio e… nucleare

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Allo stato attuale delle nomine del suo governo, possiamo già avere idea di quali saranno gli orizzonti energetici della presidenza Trump. E’ un governo di Paperoni e si profila come “il più ricco della storia moderna americana“. La squadra di Bush nel 2001 vantava un patrimonio complessivo stimato in circa 250 milioni di dollari, pari ad appena un decimo della ricchezza del solo Wilbur Ross, il ministro del Commercio scelto da Trump che, secondo Forbes, ha un patrimonio di 2,5 miliardi di dollari.

Todd Ricketts, il vice designato di Ross al Commercio “è figlio di un miliardario ed è comproprietario dei Chicago Cubs”, mentre Steven Mnuchin che Trump ha nominato per guidare il dipartimento del Tesoro, è un ex manager di Goldman Sachs, executive di un fondo speculativo e finanziatore di Hollywood.

Miliardaria anche Betsy DeVos, selezionata come futuro ministro dell’Istruzione: la ricchezza della sua famiglia ammonta a 1,5 miliardi di dollari. Mentre Elaine Chao, prossimo ministro dei Trasporti, è la figlia di un magnate delle spedizioni marittime. Harold Hamm, papabile ministro dell’Energia, è un magnate del petrolio che si è fatto da solo e che figura al 30esimo posto nella classifica di Forbes sui 400 uomini più ricchi d’America.

L’assunzione recente a segretario del Dipartimento di Stato di Tillerson, il Ceo di Exxon (la più grande azienda energetica del mondo). Se si stima la ricchezza del presidente eletto Donald Trump sui 3,7 miliardi di dollari, si può calcolare che i patrimoni del governo che entra in carica valgono più del Pil delle ultime 120 nazioni.

Una squadra siffatta ha presente il business assai più del clima del pianeta. Chris Mooney, Brady Dennis e Steven Mufson, a nome dei gruppi ambientalisti, hanno protestato l’8 dicembre per la nomina di Scott Pruitt, il procuratore generale del petrolio e del gas ad alta intensità dello stato di Oklahoma, a capo della Environmental Protection Agency (Epa), una mossa di aggressione alla pur prudente politica sui cambiamenti climatici del presidente Obama e un segno di svolta dell’eredità ambientale. Pruitt, che è stato anche attivo in gruppi religiosi e ricopre il ruolo di diacono della Prima Chiesa Battista di Broken Arrow, ha trascorso gran parte della sua vita, come procuratore generale, combattendo la stessa agenzia che è stato nominato a guidare.

Pruitt ha difeso la ExxonMobil quando cadde sotto inchiesta da parte dei procuratori generali di Stati più liberali che cercavano informazioni sul fatto che il gigante del petrolio non avesse rivelato informazioni sui cambiamenti climatici. Ora il suo amico siede addirittura al Dipartimento di Stato, con l’applauso dell’Eni di Descalzi e l’assenso di Putin che ha messo in fibrillazione i giacimenti russi in una fase in cui tornerà in crescita il prezzo di petrolio e metano.

L’Oklahoma, il “protettorato di Pruitt, è classificata al quinto posto nella nazione per la produzione di petrolio greggio nel 2014, ha cinque raffinerie di petrolio, 73 impianti di perforazione e ospita Cushing, il gigante di stoccaggio di petrolio da fracking. Appena nominato le quotazioni dell’etanolo per biocarburante sono crollate del 7%.

Ma non è tutto: è partita un’autentica caccia alle streghe. I consulenti per il presidente eletto Donald Trump stanno sviluppando piani per rimodellare i programmi del Dipartimento di Energia, sostenere l’invecchiamento delle centrali nucleari in opera e identificare il personale che ha giocato un ruolo nella promozione dell’agenda per il clima del presidente Barack Obama.

La squadra di transizione ha infatti chiesto all’Agenzia di elencare i dipendenti e collaboratori che hanno partecipato agli incontri sul clima delle Nazioni Unite (Parigi e Marrakesh in particolare) insieme a coloro che hanno contribuito a sviluppare le metriche dei costi sociali dell’emissione di carbonio durante l’amministrazione Obama, utilizzate per la stima e la giustificazione dei benefici per il clima di nuove regole di risparmio e promozione delle rinnovabili.

I consulenti sono anche alla ricerca di informazioni sui programmi di prestito dell’agenzia, per le le attività di ricerca e per fornire la base per le statistiche. In fondo Trump aveva promesso di eliminare gli “sprechi” del governo a favore del pubblico e di annullare l’accordo sul clima di Parigi nel quale quasi 200 paesi si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra. Non sfiniti dal loro attivismo negazionista, gli stessi consulenti del Presidente stanno studiando come rilanciare il piano sospeso di deposito delle scorie di rifiuti radioattivi a Yucca Mountain del Nevada. Se il buongiorno si vede dal mattino…

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