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Chi ha paura di Papa Francesco?

di Angelo Consoli

Lo scorso anno  uscì il libro “The Francis Miracle” del Vaticanista americano John Allen Jr, che  annunciava  ufficialmente l’intenzione di Papa Francesco di scrivere un’enciclica sul cambiamento climatico. Il libro si concludeva con le parole: “Prima dell’avvento di Papa Francesco, l’analista politico americano Jeremy Rifkin, previde che questioni quali il cambiamento climatico egli OGM avrebbero dissolto le divisioni obsolete fra destra e sinistra e creato una nuova “Politica della Biosferain cui si sarebbero riconosciuti sia i sostenitori della natura (di sinistra) che i sostenitori delle battaglie per la vita umana (tipiche della destra), che si sarebbero alleati contro l’iper industrialismo sfrenato del 21mo secolo che vede tutto, dalla natura alla vita organica, come una merce da scambiare. Francesco, Papa del Vangelo Sociale, potrebbe diventare il leader che permetterà alla previsione di Rifkin di avverarsi.

Queste parole mi provocarono una reazione contrastante: da un lato la fierezza di lavorare con Rifkin da 12 anni, ed esser stato parte di un movimento ispirato alla sua visione che comincia a riscuotere riconoscimenti internazionali sempre più prestigiosi.
Dall’altro la paura che la canea fossile si sarebbe scatenata contro questo Papa (come in effetti è stato) non appena uscita l’Enciclica.
Quello che non avrei mai immaginato è che gli attacchi più subdoli a questa straordinaria Enciclica sarebbero venuti da quei settori progressisti dell’intellighenzia americana ultra liberal e supporter di Obama. Infatti se i trogloditi alla Jeb Bush non potevano che attaccare il papa in difesa dei loro “vested intersts” petroliferi, e questo era scontato fin dall’inizio e ci sta tutto, meno scontato è che si sarebbe schierata contro il Papa in radicale dissenso da quest’Enciclica anche l’èlite obamista americana, che non difende il petrolio ma lo shale gas e il fracking.

Ecco dunque comparire in prima pagina sul New York Times (l’organo dei progressisti americani),  un editoriale firmato da uno dei più celebri giornalisti e commentatori liberal, David Brook, con l’agghiacciante titolo di “Fracking and the Franciscans“.

Adesso non ritengo utile entrare in una confutazione punto per punto della sequenza di imprecisioni, castronerie, menzogne e falsità termodinamiche contenute nell’articolo di David Brooks, (ciascuno potrà rendersene conto leggendolo perchè lo riproduco alla fine).

Nè intendo tanto meno indulgere  nell’illustrazione delle visioni pastorali e magistrali dell’Enciclica o nella difesa dei suoi inalienabili valori, visto che c’è chi può farlo in modo molto più qualificato e autorevole. No, con questo post  voglio attirare l’attenzione su una diversa drammatica realtà. Aldilà del gioco di parole sull’omofonia fra la fratturazione idraulica, e il nome dell’Ordine Religioso ispirato al Santo di Assisi, mi sembra che questo attacco giornalistico al Papa della prima Enciclica “verde” della storia della Chiesa, e farlo già dal titolo per la contrarietà espressa nell’Enciclica in difesa di ambiente e clima, per il fracking,  tecnologia pervicacemente invasiva e totalmente antiecologica di estrazione dei fossili, sia rivelatore del livello di degrado etico e culturale a cui si sono ridotte la politica e la società  americane, da sempre (ma evidentemente oggi ancor di più) sottomesse  agli interessi delle grandi lobby fossili e finanziarie.

In pratica, la guerra all’Enciclica di Papa Francesco, rivela che alle prossime elezioni, gli americani si troveranno davanti alla diabolica scelta fra Repubblicani, asserviti alle logiche fossili e comandati dalle lobby petrolifere,  e i Democratici, piegati a stuoino alla propaganda delle grandi società dello shale gas e del “fracking” presentati da David Brooks come tecnologie in grado di salvare l’umanità dal disastro climatico e quindi da sostenere apertamente e non da combattere. Dio ci scampi da una simile scelta!

Papa Francesco ci dice con grande chiarezza che il problema non è ecologico ma umano, nel senso che i danni al clima e all’ambiente sono la conseguenza di  comportamenti umani alla ricerca e esasperata del profitto estremo e la sua idea è che la tecnologia debba servire a proteggere e non a devastare la “casa comune”  Quindi questa non è un’Enciclica (e questo non è un Papa) anti-tecnologia, ma  è una Enciclica (ed un Papa) che invita a distinguere fra diverse tecnologie e stigmatizza quelle che anziché proteggere  i delicati equilibri ed ecosistemi del pianeta ne accelerano il deterioramento nell’interesse del profitto di pochissime persone.

Fra queste tecnologie devastanti, certamente vi è quel fracking contrapposto ai Francescani con un gioco di parole di dubbio gusto, che l’Enciclica considera a buon diritto, deteriore e pericolosa perchè si tratta di una tecnologia che compromette l’assetto idrogeologico e sociale del Commons, la casa Comune che siamo tutti chiamati a difendere perchè difendendola difendiamo noi stessi e le probabilità dell’essere umano di continuare a popolare il pianeta azzurro chiamato Terra…

Sulla problematica della  subalternità ai poteri fossili e alle tesi dei negazionisti della politica americana (tutta la politica americana) segnalo questa interessante e ben documentata analisi di Dario Faccini di ASPO Italia. Eì agghiacciante…

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La rivoluzione di un Papa “normale”

di Michele Mezza (tratto da Zenit.org)

Nel bel mezzo di almeno quattro rivoluzioni – la globalizzazione dei mercati e della cultura, il cambiamento delle comunicazioni tramite la rete telematica ed i social network, l’ingegneria genetica con tutte le implicazioni di opportunità e rischi, lo stravolgimento etico e morale del gender con leggi che relativizzano la famiglia originaria e aprono la strada a nuove forme di schiavitù quali l’affitto di uteri, ed il commercio di gameti ed ovociti – la scena mondiale viene conquistata da un Pontefice che si comporta in maniera semplice, naturale, umana.

La scorsa settimana la stampa mondiale ha colto nella visita di Papa Francesco ad un ottico nel centro di Roma una notizia di grande novità. Ma come può un gesto così semplice attirare l’attenzione dei media a livello mondiale? ZENIT lo ha chiesto al giornalista, scrittore, saggista Michele Mezza. Già inviato Rai, Mezza ha curato e realizzato Rainews24, di cui è stato anche vicedirettore. Attuale vicedirettore di Rai International, è autore di diversi libri e saggi su nuovi mass media, tecnologie digitali, multimedialità e internet. Di seguito l’intervista.

A proposito della vista del Papa al negozio di ottica a Roma, che ha attirato l’attenzione della stampa mondiale, qual è il suo giudizio a proposito? Dove sta, secondo lei, la novità, dov’è la notizia e perché è rilevante?

A me pare che il Pontefice usi se stesso per un processo che coinvolge in realtà l’intera comunità di vertice della struttura ecclesiastica. È un processo radicale che mira a riordinare quel potere per contenuti e non più per forme. L’umanizzazione del Papa impone una riumanizzazione del Collegio vescovile e sopratutto della Curia. I due fenomeni ormai non sono disgiungibili. La scena di Francesco che si aggira nell’angusto spazio dell’ottico romano, con il titolare del negozio che gli mette, normalmente, la mano sulla spalla, è un messaggio di una potenza planetaria. È un punto di non ritorno. Proviamo ad immaginare il prossimo Pontefice come dovrà  comportarsi dopo questa svolta. È plausibile il ripristino di segni di diversità del Papa dopo Francesco?

L’immagine di Francesco nella bottega romana ha fatto il giro del mondo attraverso i social network, ricevendo migliaia di ‘retweet’. A proposito di rete e di social, lei nel suo ultimo libro “Giornalismi nella rete” (edito da Donzelli) sostiene che con essi stanno cambiando tutti i parametri dell’informazione: il software è come un flusso di informazioni che incide e si pone il problema di chi e come impagina il flusso. Cioè, da una parte, una maggiore libertà, dall’altra, rischi di pensiero unico. Può spiegarci meglio il suo punto di vista?

Nel libro ‘Giornalismi nella rete’, che non a caso ha un formato multimediale, ragiono attorno alla constatazione che Il flusso è oggi  il nuovo format della conoscenza. Questa è la tesi che propongo alla discussione. Per flusso intendo un unico getto continuo di contenuti caratterizzato dalla velocità e per certi versi anche da un’oculata casualità .Il prototipo di questa configurazione è il recente accordo stipulato da Facebook con alcune fra le principali testate giornalistiche globali, come il New York Times ,Il Guardian , il Washington Post: i giornali consegneranno al social network le notizie che verranno distribuite come flusso permanente lungo le pagine del miliardo e mezzo di navigatori .Il giornale perde la sua forma storica e stabile di pagine e diventa fornitore di un unico sistema che a sua assoluta discrezionalità consegnerà ad ognuno di noi le notizie in un ordine e con una cronologia che sarà determinata dai nostri profili che Facebook ha elaborato. Un’operazione gigantesca che chiude la parentesi di Guttemberg ed apre una nuova fase in cui nessuno leggerà lo stesso giornale dell’altro. Lo stesso meccanismo sarà adottato da Amazon per i libri  e nelle università americane già ci si sta adeguando per  gli strumenti didattici. Il flusso è un linguaggio di per sè, conseguenziale, mai stabile o definito, dove alla gerarchia dei contenuti, tipico valore guida nella pagina stampata, si sostituisce la relazione fra la notizia che appare e i temi che stiamo trattando proprio in quel momento. L’obbiettivo è ovviamente creare uno stato emotivo  selettivo. Su questo processo credo sarebbe opportuno riflettere ed intervenire. Il quesito che vedo dominante è: chi impagina il flusso? Chi decide per un miliardo e mezzo di  edizioni ogni minuto?

In questo contesto sta emergendo il grande problema della proprietà intellettuale. Di che si tratta?

Questa è la grande guerra che si sta combattendo da anni ormai. La rete ha innestato questo nuovo conflitto fra content provider, ossia i titolari delle biblioteche di contenuti (audio, video e testuali) e i net provider , ossia i grandi centri servizio, come Google e Amazon. Questo scontro si basa su un dato antropologico: l’ambizione di ogni individuo in rete di autogovernare la propria dieta mediatica, senza accettare i pedaggi degli statuti proprietari. Questa forma di  utente-corsaro, che prende quello che vuole, è anche la conseguenza di un istinto per cui ognuno di noi sa che nel momento in cui scarica o condivide un contenuto sta dando valore e diffusione esattamente all’autore di quel contenuto, e rivendica come sua retribuzione il diritto di usarlo gratuitamente. Quest’ambizione di libertà viene strumentalizzata dalle grandi agenzie dei servizi in rete per spostare definitivamente il baricentro del mercato dalla produzione alla distribuzione. Ma se proviamo a guardare questo tema da un’altro punto di vista, ossia  la rivendicazione di intere comunità nazionali, come quelle dei paesi più poveri, di veder riconosciuto il proprio diritto all’accesso al mercato delle conoscenze, in materia scientifica, o farmacologica, mercato che utilizza in larga parte culture e prodotti naturali proprio di quei paesi, allora la guerra del copyright ci appare come un fenomeno di riequilibrio delle ragioni di scambio nel mondo. Esattamente come si discuteva del debito diseguale negli anni ’70. Questo tema mi pare si identifica con un destino: l’inesorabile spinta dei popoli ad avere il sapere come bene comune.Un concetto che Papa Francesco accarezza nella sua ultima enciclica.

C’è poi il problema enorme dell’acquisizione e del controllo dei dati sensibili, in particolare della cartella clinica di ognuno. Sembra che già in alcune Nazioni avanzate la decisione per assumere o non assumere passi per la conoscenza della cartella clinica digitale dei candidati. Cosa sta accadendo e quali sono i rischi sociali di questa tendenza?

Questa è la frontiera del nuovo big data. Siamo ormai arrivati a considerare il corpo umano non più come un centro da servire con le protesi digitali, ma come una piattaforma da usare per accelerare lo scambio di dati. Gli ultimi sistemi, penso al digital watch della Apple o al nuovo sistema di bluetooth che usa  i segnali elettrici del corpo, si stanno avvicinando a creare circuiti di scambio dei dati biologici. La nostra cartella clinica diventa la nostra carta di identità. Già negli Usa ormai  nelle ricerche di personale si chiede l’accesso alla cartella clinica digitale. Questo è un campo su cui diventa essenziale intervenire con valori e soggettività pubbliche forti. Due sono i temi: uno generale che riguarda la natura e struttura dell’algoritmo, il vero ordinatore sociale, che deve essere trasparente e negoziabile, io devo sapere che tipo di algoritmo si usa e d eventualmente devo poterlo modificare; secondo il limite alla circolarità dei dati biologici: un dato personale che non può e non deve essere disponibile per la discrezionalità del mercato.

Chi e come può porre limiti etici a queste tendenze? Papa Francesco nella Enciclica Laudato Si’, ad esempio, mette in guardia dallo strapotere di derive che utilizzano tecnologia e conoscenza scientifica per dittature che non servono il bene comune. Che ne pensa?

L’enciclica Laudato Si, la citavo prima, mi pare un grande passo su un terreno ancora inesplorato: come la comunità umana nella sua complessità, può umanizzare la corsa tecnologica. Il documento papale introduce un concetto fortissimo: come l’acqua anche il sapere, e specificatamente il software, deve essere un bene comune: accessibile, scambiale, modificabile. Si tratta di riconoscere che la tecnica non è neutra, e più assume potere di interferenza sulla natura umana più deve essere garantita e controllata. Il punto è capire chi è il soggetto negoziale. Papa Francesco mette in campo la sua autorevolezza morale e culturale, accanto a lui ci deve essere la società civile e politica: l’Europa, l’Italia, le grandi città, le università. Tutti quei soggetti che sono utenti e controparti dei nuovi imperi dell’algoritmo .Esattamente come accadde all’inizio del secolo scorso con la fabbrica, quando quell’enorme sistema di produzione fu civilizzato dalla società civile e dalla politica grazie all’organizzazione del mondo del lavoro.

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Trivelle e nomine: reggono alla luce del sole?

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Dev’essere sconfortante dover partecipare ad una delle riunioni convocate da Renzi: sentirsi dire, senza poter battere ciglio, che il corso della storia coincide con la sua agenda politica non può che portare sconforto a chiunque abbia contezza delle urgenze ambientali e sociali che ci stanno cadendo addosso.
Ad esempio, il Papa, Obama (vedi gli ultimi post su questo blog), un’alleanza delle 24 principali istituzioni scientifiche britanniche guidate da Nichola Stern, i sindaci di tutto il mondo riuniti a Roma il 15 luglio, i  movimenti popolari accorsi in Bolivia, hanno lanciato il loro grido di allarme contro il probabilissimo superamento di 2°C della temperatura della terra.

L’opinione pubblica mondiale, i media e la società civile sono ora molto più impegnati e vi è una maggiore attenzione e pressione sui governi a mettere da parte gli interessi nazionali egoistici e sta nascendo un solido consenso per un cambiamento del trattato sul clima, per mitigare l’estrema gravità del degrado del nostro pianeta come risultato delle attività umane. Questa crescita di consapevolezza politica ed etica dovrebbe portare i governi ad intervenire sulle strategie energetiche e sulla politica industriale con benefiche ricadute sull’occupazione, in coerenza con un cambio profondo del modello fin qui perseguito. Ne sentite mai parlare negli innumerevoli report televisivi sulle esternazioni e gli immancabili tweet del premier?

Dato che i sette Paesi più grandi particolarmente responsabili delle emissioni attuali (Cina, Usa, Ue, India, Russia, Giappone e Canada), devono affrontare questo problema e sono consapevoli del fatto che l’umanità non può accettare ancora una volta la loro incapacità di agire, perché non affrontare anche in Italia questo decisivo passaggio, con trasparenza e concretezza, invece di dedicarsi giornalmente alle nomine dei manager e dei dirigenti che sequestreranno anche le decisioni sul clima dentro le cerchie lobbistiche e lontano dall’opinione pubblica?

Ad esempio, come è possibile che per il Sud si mettano all’opera le trivelle di nascosto dalle popolazioni e si progetti un insensato aumento delle perforazioni in mare, anziché un investimento straordinario nel sole, così prodigo di irraggiamento in quelle regioni? Nel mondo cresce il ricorso alle energie naturali, mentre noi stiamo mettendo fuori gioco le professionalità e l’esperienza del nostro settore industriale nell’eolico, nel solare e nella geotermia, mentre piazziamo risorse sul piatto delle fonti fossili. Vediamo un po’, allora, qualche esempio fuori dai palazzi romani.

Anche prescindendo dalla solita Germania, il cambiamento è impressionante. Obama ha fortemente irritato l’industria carbonifera Usa con una rigorosa riduzione dei gas di scarico delle centrali, che diminuirà la domanda di carbone a 650 milioni di tonnellate rispetto alla media di 1 miliardo all’anno. Inoltre il suo programma intralcerà certamente la scommessa dello shale gas, visto che sarà incentivata la quota delle rinnovabili nel mix di produzione e che, di conseguenza, secondo la Bloomberg New Energy Finance Research, “La crescente competitività delle energie rinnovabili indebolisce le prospettive di generazione di gas: nel 2040 si arriverà solo a un aumento inferiore al 30% rispetto al 2015″. SunEdison, l’azienda americana leader mondiale del fotovoltaico, ha iniziato la costruzione di 110 MW di fattorie solari in Cile.

Dall’altra parte del continente, la Banca di sviluppo brasiliana BNDES ha annunciato che quest’anno aumenterà il finanziamento di progetti di energia eolica ad un ritmo che, sebbene inferiore rispetto al 2014, contempla pur sempre un aumento del 15% rispetto all’anno precedente.

King Abdulaziz, la città della scienza dell’Arabia Saudita, ha firmato un accordo interno per costruire una fattoria solare di 50 MW, eguagliando in un sol colpo la potenza finora in funzione nel paese che è il più grande esportatore di petrolio. Anche l’Iran sta cercando di sfruttare le sue buone risorse eoliche. Il governo prevede di incentivare e installare 5GW di capacità entro il 2020, nel tentativo di alimentare il fabbisogno elettrico della sua popolazione: il recente accordo apre alle aziende (cinesi ed Usa finora) un grande mercato, ma le aziende italiane sono tagliate fuori.

Il governo etiope ha firmato il primo contratto per l’elettricità prodotta da centrali geotermiche nel sito di Corbetti per 500 MW di potenza. Il progetto in fase di sviluppo è in carico a soggetti islandesi e fa ricorso al Fondo africano per l’energia rinnovabile. L’Indonesia sta attivando il più grande gasdotto geotermico, mentre Guatemala, Honduras e la Nuova Zelanda stanno facendo investimenti in un settore in cui l’Italia è sempre stata all’avanguardia. L’India sostenuta dal fondo monetario, sta avviando il più grande progetto finanziario per incentivare il risparmio energetico.

La breve rassegna qui esposta dice che nel mondo si va da tutt’altra parte e, tra l’altro, in settori in cui l’Italia vanta una posizione di primo piano. O meglio, vantava. I dati definitivi del settore elettrico, diffusi come di consueto da Terna a metà luglio, dicono che la grande crescita nelle rinnovabili è cessata nel 2014 e che la nuova potenza rinnovabile installata è di “soli” 676 MW.

La luce del sole, dati alla mano, dovrebbe abbacinare la frenesia delle nomine lottizzate e delle trivelle: infatti lo scorso anno le FER hanno generato 120.679 GWh, un bel 7,7% in più del 2013, una quantità di elettricità equivalente ai consumi totali di tre regioni energivore come Lombardia, Veneto e Piemonte o quasi equivalente al totale dei consumi dell’industria italiana (122,5 TWh)! Il loro peso è stato pari al 39% della domanda totale (che è stata pari a 310,5 TWh) e al 43% della produzione nazionale lorda (pari a 279,8 TWh). Nel 2015 invece la produzione da fonti rinnovabili ha segnato una flessione mentre la produzione da fonti fossili è in un aumento. Ben vengano allora le proteste e le manifestazioni di questi giorni.

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Cambiamenti climatici: la svolta di Obama

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Il conto alla rovescia per la XXI Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici (Cop 21), che si terrà a Parigi nel dicembre 2015, è già iniziata.  Da noi, con un governo impegnato allo stremo per le “riforme” non se ne parla proprio.  Dopo la pubblicazione della sua straordinaria enciclica Laudato Sì, il papa il 21 Luglio ha accolto sindaci e governatori delle principali città di tutto il mondo (comprese Milano, Roma, Napoli), che hanno firmato, assieme a Francesco, una dichiarazione che invita i governi di tutto il mondo ad adottare misure audaci alla Cop21 per limitare entro i 2°C l’aumento di temperatura, dato che la crescente preoccupazione per la salute del pianeta non accenna a diminuire.

In un nuovo rapporto sulla base di input da 413 scienziati provenienti da 58 paesi, la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) degli Stati Uniti ha concluso che il 2014 è stato l’anno più caldo mai registrato. Il direttore dei Centri nazionali di informazione ambientale NOAA Thomas Karl ha avvertito che il cambiamento climatico non solo si registra con la temperatura dell’aria, ma anche con quella sul fondo dell’oceano e dell’atmosfera più esterna. Come risultato di questa situazione ci sono stati 91 cicloni tropicali nel 2014, ben al di sopra della media di 82 tempeste che si sono verificate nel periodo 1981-2010, secondo le conclusioni della NOAA.

Ora tocca ai politici a mostrare la loro dimensione di statisti mondiali. Diplomatici e politici sarebbero responsabili di un fallimento a Parigi, dato che il fallimento non è un’opzione. In questo quadro Obama ha deciso di giocare la sua eredità, oltre che su un avanzamento del sistema sanitario fortemente combattuto dai conservatori su una battaglia efficace per il clima. In una nota del New York Times del 2 Agosto firmata da Coral Davenport e Gardiner Harris e in un video postato su Facebook a mezzanotte dallo stesso presidente, si comunica che gli Stati Uniti intraprenderanno la più forte azione mai presa per combattere le emissioni climalteranti.

Il regolamento, che verrà imposto a tutti gli Stati federali, introdurrà una radicale trasformazione del settore elettrico degli Stati Uniti, favorendo uno spostamento “impetuoso” dall’energia elettrica prodotta con carbone alle energie rinnovabili. Per le centrali esistenti si ridurranno del 32 per cento entro il 2030 le emissioni conteggiate al 2005. La quota di fonti rinnovabili con capacità di generazione di energia nel 2030 sarà superiore del 28 per cento rispetto all’attuale.

Per favorire l’espansione sostitutiva di rinnovabili, l’amministrazione Obama ha anche cambiato la sua proiezione sulla quota del gas naturale nel mix di potenza degli Stati Uniti nel 2020, per evitare quella che sarebbe un “corsa veloce al gas” per allontanarsi dal carbone. Il piano spinge, prima del cambio di combustibile (da carbone a gas), a programmare riduzioni di consumi attraverso l’efficienza energetica e a compensi di potenza con energia naturale (sole, vento, acqua, biomasse). Il piano sarà fondamentale per il contributo degli Stati Uniti per un accordo delle Nazioni Unite per affrontare il cambiamento climatico, in cui l’amministrazione Obama ha annunciato di voler svolgere un ruolo di leadership.

Naturalmente occorrerà vedere la traduzione reale di queste decisioni, quanto ci sia di diplomatica propaganda in vista di Parigi e quanto verrà contrastato dalle lobby dell’energia fossile, già in movimento. Le associazioni del settore e alcuni legislatori di stati come Virginia e Maryland, che hanno contato da sempre su energia da carbone, hanno detto che si sfideranno nelle Corti e attraverso tutte le possibili manovre nel Congresso, accusando l’amministrazione di un assalto normativo che farà salire i prezzi dell’energia. Ma nel piano c’è già una prima risposta: “ridurre la bolletta energetica per le famiglie a basso reddito” di almeno 85 $ e abbattere i costi delle tecnologie energetiche rinnovabili, argomenti da anticipare per gli avversari che sosterranno che il piano sarà troppo costoso.

Il cambiamento climatico non è un problema per un’altra generazione, non più“, ha detto Obama nel video di sabato scorso. L’Enciclica papale rivolge la sua carica all’emergenza di fronte a cui siamo. Il dibattito si allarga con una presa di coscienza sempre più ampia. C’è solo da augurarsi che anche la nostra opinione pubblica non venga ulteriormente distratta (chi parla della Cop 21 a EXPO 2015?) e che una classe dirigente tutta intenta a contendersi e conservare il comando di un vascello alla deriva si accorga da dove provengono le tempeste.

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Il prezzo del petrolio tra Teheran e Parigi

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015E’ passato un anno dall’inatteso crollo delle quotazioni petrolifere che ha portato il prezzo del greggio dal valore di 116,7 dollari al barile di giugno 2014 a quello di 58 dollari di gennaio 2015. Si tratta di una questione fondamentale in una società ed una economia che si sviluppano su una piattaforma energetica in vigore da quasi 200 anni, dato che il capitalismo moderno poggia ancora sul petrolio.

Perché questo crollo? Diverse sono state le interpretazioni, ma due sono stati i fattori decisivi: l’intensità della cosiddetta shale revolution, ossia la rivoluzione dello shale oil americano, oggi in crisi di prospettiva sul medio termine e la decisione saudita, adottata dall’intera Opec, di non limitare le estrazioni ed, in tal modo, di non tentare alcuno sforzo per limitare la riduzione dei prezzi. La storia dei prezzi del greggio è sempre stata caratterizzata da questo problema: riducendo la questione all’osso o ce n’é troppo (prezzo basso) o ce n’è troppo poco (prezzi alti).

Oggi il mercato è caratterizzato da un eccesso di offerta quantificabile in 2 milioni di barili al giorno di troppo. Come conseguenza, i produttori nordamericani di shale sono andati in crisi e nel primo semestre il numero delle perforazioni ha registrato un calo costante, settimana dopo settimana. Va detto che le piccole aziende dello shale oil (parliamo di 13 mila imprese), hanno mostrato una capacità di reazione e di riduzione dei costi imprevista, stimolata dalla natura di questo tipo di attività che richiede continue perforazioni e quindi continui investimenti. I prezzi in caduta hanno certamente bloccato lo sviluppo dello shale oil fuori degli States, mentre all’interno hanno portato a un dimagrimento del settore, ma non ancora ad un crollo (anche se gli analisti del settore vedono nero nel medio-lungo periodo).

In Italia il consumo largamente prevalente del petrolio è nell’autotrazione, perché nella generazione elettrica è residuale (nel 2014 ha assorbito 1,5 milioni di t. sul totale di 57,6). Per gli automobilisti, quindi, non si preannuncia alcun ritorno a nuovi rialzi, ma neppure sono da attendersi significativi ribassi, poiché sui carburanti è applicato un carico fiscale enorme e la materia prima nel 2014 ha contato solo il 30% del prezzo finale del carburante ed è su questa quota residuale che ha effetto il calo delle quotazioni del greggio.

L’accordo sul nucleare con l’Iran, fortemente voluto da Obama per ragioni geopolitiche prima che economiche, rafforza la previsione di una prosecuzione del periodo di ribasso dei prezzi. Infatti, l’aumento dei consumi previsto sarà ampiamente compensato dall’offerta di greggio iraniano che nei prossimi mesi tornerà sul mercato. Teheran ha infatti annunciato l’intenzione di aumentare l’export di 500 mila barili al giorno, per arrivare dopo sei mesi a raddoppiare.

La morale della favola è che in un mondo che ha una capacità produttiva di greggio pari al 13% in più del consumo la rinascita iraniana produrrà un nuovo ribasso, nel contesto di una lotta senza quartiere fra i diversi produttori che continuano a spingere sull’acceleratore delle estrazioni per sopravvivere al calo delle entrate (Iraq ed Arabia saudita stanno producendo a livelli record).

Ma il petrolio a basso costo è un bene? In una economia basata su questa fonte (e sulle “sorelle” fossili) sì, ovviamente, dal punto di vista del denaro e della finanza. E purtroppo il mondo di oggi, nonostante tanto parlare di “energie pulite”, rimane un mondo dove si scava, si estrae e si brucia quello che madre natura ha preparato nel corso dei millenni.

Ma in un mondo meno dipendente dalla combustione l’aria sarebbe diversa, nel vero senso della parola e a questo mondo cerca di volgere lo sguardo la prossima conferenza di Parigi sul clima (COP 21), tentando un accordo per limitare l’aumento medio della temperatura a due gradi, per non rischiare di star male come accade quando la temperatura corporea supera i 39 gradi, come nella stagione attuale anche qui da noi.

L’obiettivo di Parigi è possibile solo se ci si impegnerà a bruciare meno fonti fossili, petrolio e gas in particolare, lasciandole sottoterra o in qualsiasi altro posto si trovino. Quindi il petrolio a basso costo non aiuta a rivoluzionare il settore dei trasporti, dove regna sovrano, e la leva economica non favorirà buone scelte nel campo energetico in generale. Occorre maggior impegno politico (nel senso buono del termine, visto che ormai la sua connotazione risulta negativa) per prendere sul serio la sfida del clima.

L’enciclica del Papa e la battaglia per evitare il disastro climatico hanno quindi un avversario molto potente sul piano dei costi attuariali e delle convenienze a breve termine.
La difficoltà a prendere sul serio questa sfida è legata ad un deterioramento etico e culturale, che accompagna quello ecologico. L’uomo e la donna del mondo postmoderno corrono il rischio permanente di diventare profondamente individualisti, e molti problemi sociali attuali sono da porre in relazione con la ricerca egoistica della soddisfazione immediata, con le crisi dei legami familiari e sociali, con le difficoltà a riconoscere l’altro”.

Ma c’è un momento nella vita di ciascuno di noi, in cui ci si rende conto di avere una responsabilità verso noi stessi e le facce che ci stanno intorno. In quel momento capiamo anche che solo accettando questa responsabilità troveremo un senso alla nostra vita. E’ tempo che collettivamente emerga questa consapevolezza e che quindi all’oro nero sia tolta la sua corona.

a cura di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

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