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Calo delle energie rinnovabili in Italia. Perché?

a cura di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

logo-il fatto quotidiano 2015Nell’indice Recai relativo al 2015 (Renewable Energy Country Attractiveness Index) la produzione delle rinnovabili nel mondo risulta in netta crescita, con una sorprendente eccezione dell’Europa. Nella classifica mondiale solo la “testarda” Germania difende il quinto posto, mentre scivolano in basso Francia (ottava), Regno Unito (tredicesimo), Olanda (diciassettesima), Belgio (ventesimo). L’Italia non scivola perché sprofonda al ventiseiesimo posto (eravamo al quinto nel 2012!).

Nel resto del mondo, invece, il 2015 è stato un nuovo anno record per gli investimenti green: 329 miliardi di dollari sono stati spesi per rinnovabili ed efficienza energetica. La quota delle rinnovabili, in euro, è stata di 298 miliardi, +26% rispetto al 2014, ed è stata appannaggio soprattutto del fotovoltaico e dell’eolico: 116 i miliardi investiti nel sole, 92 nel vento. È giusto sottolineare che “ciò che è veramente straordinario di questi risultati è che sono stati raggiunti nel momento in cui i prezzi dei combustibili fossili erano ai minimi storici e che le fonti rinnovabili sono rimaste in svantaggio significativo, in termini di sussidi governativi alle fossili” (Citazione di Christine Lins, Segretario esecutivo di REN21).

Concentrandoci sugli investimenti in nuovi impianti, ci sono tre elementi da sottolineare:

Gli investimenti europei sono calati da 90 a 64 miliardi di euro; solo Regno Unito, Germania e Francia, con rispettivamente 13, 11 e 5 miliardi di investimenti (oltre il 45% del totale europeo), continuano ad avere piani di sviluppo delle rinnovabili di qualche rilevanza. L’Italia è tornata purtroppo a giocare un ruolo marginale”, dopo aver recitato un ruolo di primo piano nel periodo 2010-2012.

Interessante notare come la crescita delle Fer (Fonti energetiche rinnovabili) vada di pari passo con la creazione di nuovi posti di lavoro; secondo l’agenzia Onu Irena (International Renewable Energy Agency), ci sono 8,1 milioni di persone che lavorano nel settore delle energie rinnovabili, un dato in costante crescita al di fuori dell’Europa, dove invece, negli ultimi due anni, gli occupati sono in calo. Purtroppo l’Europa non sta mostrando lungimiranza nella sua strategia energetica, prigioniera delle grandi lobby energetiche. Pari dignità viene dato allo sviluppo di shale gas e alla cattura e sequestro del carbonio per continuare a rimanere nel settore fossile. Riguardo poi al nucleare, il recente Nuclear Illustrative Programme (Pinc) parla della necessità di investire dai 3.200 ai 4.200 miliardi di euro dal 2015 al 2050, per mantenere la produzione attuale del nucleare, generata oggi da 129 vecchi reattori, la cui età media è di trent’anni.

Più in dettaglio, per l’Italia abbiamo 50,3 gigawatt di potenza installata per fare elettricità; un terzo è costituito da centrali idroelettriche (il 90% c’era già prima del 2008), un terzo di solare, un terzo suddiviso fra eolico, biomasse e geotermia. Sono valori di eccellenza a livello mondiale, ma sono il risultato del passato perché, rispetto al 2014, lo scorso anno registriamo un calo produttivo del 9,6%. L’andamento è preoccupante ed è confermato dai dati dei primi quattro mesi del 2016 che indicano un ulteriore calo del 6,5% della produzione di energia da fonti rinnovabili; calo determinato da una diminuzione del 12,3% della produzione da idrico e da una flessione del 13,7% della produzione da fotovoltaico, mitigata dalla produzione da eolico, in salita del 10,3%. Per il solare si tratta della prima flessione di produzione, sinora era sempre stato in crescita e ciò deve suonare come un campanello di allarme.

Siamo leader sulle energie rinnovabili in Europa. Quelli che dicono il contrario dicono il falso (…). L’obiettivo è arrivare al 50% delle rinnovabili entro fine legislatura sul totale dell’energia elettrica” (Matteo Renzi). Anche questa volta tra il dire e il fare c’è di mezzo… un mare di petrolio e gas.

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Diritto di Pace – Articolo 11 della Costituzione

di Mario Agostinelli

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Forse il punto più meditato di interazione e contaminazione tra cultura comunista e cattolica dopo una guerra senza identificazione se non sul fronte interno antifascista e l’atto più autonomo nella prospettiva di indipendenza internazionale di uno stato nascente.

Mi identifico nel progetto di Costituzione Cantata: riferire espressioni musicali a realtà non musicale per erigere un monumento alla libertà, al sentimento del popolo.

(Mozart 1777) «Carissimo papà, non so scrivere in modo poetico: non sono un poeta. Non so distribuire le frasi con tanta arte da far loro gettare ombre e luci: non sono un pittore. Non so neppure esprimere i miei sentimenti con i gesti e con la pantomima: non sono un ballerino. Ma posso farlo con i suoni: sono un musicista».)

Yehudi menuhin 1946 “Ma era la musica di Beethoven a tra­smettere il messaggio, io non ne ero che il latore. Perciò il fenomeno del nazionalsocialismo, nella sua assenza di dignità, era per me un tradimento totale che mi empiva d’incredula indignazione, di appassionato e selvaggio sdegno, di tutta la collera che noi tutti proviamo quando l’uomo distrugge i propri valori e, quindi, distrugge essenzialmente se stesso”.

Bella l’idea di restituire alla politica quella complessità, quella ricchezza, quel fascino, e quel tanto di sfida che originariamente le era propria in un momento storico in cui viene sminuita.

ONU 10 Dic 1948 Dichiarazione diritti Uomo

L’art.11 è paradigmatico di una Costituzione di programma per una nuova organizzazione del potere nei rapporti tra società e stato. Non rapporti definiti, ma basi della loro dinamica nella dialettica sociale e politica (visione della sinistra). Stato è società politica attiva. Stato-comunità è sede di elaborazione della politica nazionale. Non stato apparato, ma stato di indirizzo politico elaborato in seno alla società civile, che si auto-organizza sulla base dell’art. 2. Politica interna-estera: politica armamenti.

Eredità kantiana

Sradicamento della guerra grazie al fatto che il rapporto di reciproco rispetto tra Stati indipendenti, sovrani ed eguali assume progressivamente una configurazione giuridica, con l’attenzione che l’agognata pace perpetua non si rovesci in una monarchia universale che è sinonimo del peggior dispotismo. (distinzione tra autentici progetti di pace duratura e ambizioni mal ca­muffate di dispotismo planetario; Francia e Inghilterra)

Eredità marxista

Solo con la scomparsa dell’antagonismo fra le classi, all’interno della nazione, scompare l’ostilità fra le nazioni stesse. Perché siano divelte una volta per sempre le radici della guerra la giustizia sociale va eliminata sul piano interno e su quello mondiale. “Una nuova società il cui principio internazionale sarà la pace, per il fatto che in ogni nazione domina il medesimo principio, il lavoro” (Manifesto)

Per la tradizione Kantiana e Comunista, la pace perpetua è parte integrante dell’ordinamento che occorre realizzare a livello mondiale. Da cui lo schema dell’art. 11

Diritto “di” pace, non “alla” pace.

Il “diritto di pace”, riguarda una concezione del diritto attributiva ai popoli del potere di “autodeterminazione” e conferma il ruolo antagonistico della “sovranità popolare” rispetto al ruolo dell’élite economico-politiche dominanti

Il diritto “di” pace è l’opposto del diritto che vige in guerra e che riguarda l’uguaglianza e la giustizia sociale senza cui non c’è “pace” possibile né in ambito nazionale né in quello internazionale. Rompere la Costituzione delle Repubblica antifascista e di democrazia-sociale “fondata sul lavoro” e sul diritto “di” pace, è di fatto una rottura di grandi proporzioni, in quanto limita la sovranità popolare che ha la sua rappresentanza nel Parlamento, non nel Governo.

All’art. 11 si ripudia non solo la guerra offensiva, ma non solo si esclude la minaccia armata come potere del sovrano, ma si vincolano la Repubblica e i suoi governi alla ricerca della Pace. Non si dice “Lo Stato…”, ma bensì “L’Italia ripudia la guerra…” e cioè tutta la comunità dei cittadini-individui. E’ questo uno di quei casi in cui emergono quei diritti naturali e inalienabili dell’uomo che vengono posti dalla Costituzione prima dello Stato e dell’ordinamento. Emerge quindi una considerazione non nuova: che il principio di maggioranza non sempre è di per sé coincidente con il principio di democrazia. Lo sterminio è irreversibile: nucleare, clima v. Ghedi, Aviano, F35). La democrazia si regge sul principio della reversibilità delle scelte e deve evitare che possa sorgere un’autorità con il potere di decidere al di sopra della volontà popolare.

Globalmente tutti gli Stati spendono per le forze armate più che per salute +educazione. Dopo 1945 ministri della guerra chiamati della difesa.

Yehudi Menuhin

Che cos’è la pace? Nel migliore dei casi un concetto assai relativo che su­scita in ciascuno di noi immagini differenti e assume significati diversi a se­conda della persona, del luogo e del tempo, un ideale, insomma, che di vol­ta in volta diventa reale soltanto in un determinato contesto. L’anelito di potere e ricchezza, sia esso individuale o collettivo, se non viene mantenuto entro certi limiti mediante valori più elevati (il che richiede certo molta forza, molto coraggio fisico e morale) finisce per condurre troppo facilmente all’insoddisfazione, alla corruzione e alla guerra. Nel nostro insaziabile egoismo vi abbiamo aggiunto una nuova dimensione: con un cinismo insuperabile consumiamo, i nostri elementi naturali, l’aria, l’acqua, la terra, la flora e la fauna da cui dipende la vita tutta. Una meravigliosa poesia di Hinderlin – Il mio regno ci rammenta che esiste una potenza superiore all’essere umano, ammonendoci ad averne riguardo:

E dal cielo la luce guarda agli operosi
dolce attraverso i rami, ne divide
la gioia. Non soltanto mani d’uomini
hanno cresciuto i frutti.

Spinoza: “il sapersi tutt’uno con il mondo della realtà pensante in movimento, il secondo gradino consiste nella consapevolezza dell’identità tra questo mondo nel suo esser relativo e l’essere vero dello spirito”.

Giacché anche la pace ha una duplice dimensione, una interna e una esterna. Il grande essere invisibile presente in noi, del quale noi dovremmo essere l’immagine e il riflesso, costituisce la caratteristica costante e universale di ciascuna cellula vivente; esso partecipa sia del nostro stato di veglia che del sogno e il suo nome è consapevolezza, coscienza conoscitiva. La nostra ragione è solo una caratteristica della continuità, poiché noi non possiamo semplicemente permetterci di immaginare un universo fatto a pezzi, qualcosa senza passato né futuro, qualcosa, quindi, di sconnesso dal tutto. Nessun avvenimento può essere scisso dal suo passato o dal suo futuro. Lao-tzu disse: «Tra due litiganti ha la meglio colui che pensa», e io sono fermamente convinto che colui che sappia accogliere nel suo pensare il passato e il futuro è in grado di riflettere meglio e più profondamente di colui che si limiti a considerare solo il presente.

Che cos’è però la pace esterna? A che punto è possibile raggiungerla? Quali sono i suoi limiti? Io vorrei definirla come l’equilibrio dinamico tra innumerevoli forze, sia simili che opposte costantemente. Chi sono i nostri consimili insieme ai quali dobbiamo cercare di conquistare questo stato di equilibrio armonico difficile da definirsi? Da un punto di vista geografico e culturale vien da volgersi senza esitazionc all’Europa e agli europei senza cortine di ferro o barriere di sorta. Lo spirito europeo infatti è riuscito a sua volta, lasciando per ora in sospeso la domanda se ciò sia poi un fatto positivo o negativo, a penetrare in America, in Australia, in Sudafrica e persino in Giappone. Mai più dovremmo tollerare faide familiari fratricide, il doloroso estraniamento e le guerre civili tra europei.

Pace senza crescita

Guerre per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre per la terra, guerre per l’atmosfera: la scarsità di risorse e il loro rapido deterioramento sono all’origine di conflitti di così devastante impatto sulle condizioni di vita da provocare ondate di migrazioni. Il degrado di materia vitale alla massima velocità (i processi naturali non ricorrono a forme di combustione) e con un impiego inusitato di energia (le esplosioni richiedono che la trasformazione energetiche si consumino nel più breve lasso di tempo possibile) trascende le potenzialità della natura e impedisce una rigenerazione della vita in dissintonia con i tempi della natura. Per semplificare, quanto più elevata sarà la densità energetica di una bomba, (termica chimica o nucleare), tanto più lunghi saranno i tempi di bonifica del territorio distrutto.

L’impronta ecologica della guerra si unisce a quella della globalizzazione ad altissima entropia e rende tanto più stringente per i popoli il “diritto della pace”, certamente più integrale del “diritto alla pace”. Per conquistare la pace si deve abitare la Terra con leggerezza, distribuire le sue risorse vitali in modo equo, mantenere lo spazio ecologico delle comunità. Si prepara invece un mondo trascinato nei vortici di un potere repressivo internazionale che alimenta quello repressivo interno ai vari Paesi, fino a che l’esibizione della forza, come nell’età premoderna, diventa il criterio distintivo di qualsiasi confronto o conflitto. La superiorità tecnica diventa parametro di civiltà e anche l’emancipazione – stroncata sul nascere nelle sue speranze – scivola nella violenza, come dimostra il crescente abbandono al terrorismo di aree impegnate o emarginate nella competizione globale. La velocità, intesa come rapida espansione dominatrice, si trova alla base anche della teoria della guerra lampo, introdotta per la prima volta dal regime nazista per la conquista di quei territori che avrebbero dovuto garantire alla Germania il suo spazio vitale e, ora, concettualmente estesa a livello globale per presidiare le risorse e le loro canalizzazioni verso i grandi consumatori. Non c’è guerra che non inizi se non con la notizia di “raid notturni”. Vita di giorno – per quanto si riesce a sottrarla civilmente alla paura – coprifuoco, morte e distruzione di notte, in una dicotomia in cui i cittadini da una parte e gli stati “democratici” e le organizzazioni terroristiche dall’altra, accettano di fare due parti distinte: sequestrare il sonno necessario da un lato, proteggerlo o interromperlo per sempre dall’altro.

Anche in campo bellico la svolta scientifica porta grandi novità: e non solo per i livelli inusitati di potenza distruttiva impiegata, ma anche per l’asimmetria e per la sproporzione di forze a favore delle tecnocrazie che impiegano le armi come prosecuzione del dominio, senza nemmeno abbozzare un ricorso alla politica. Come di fronte al più tremendo dei tumori, ci si limita, in generale, a dichiarare che i tumori non li vogliamo, e a proporre rimedi come, nel caso dell’estensione dei conflitti, della riduzione della spesa militare. Una disposizione alla guerra permanente, tecnologicamente avanzata, aggiornata ed agganciata al comparto industriale di riferimento spinge l’intero apparato a riconvertirsi secondo il modello dell’impresa. Con un occhio di riguardo al risparmio (sul personale) acquisto di macchine da guerra compatibili con gli standard di proiezione globale della Nato, sistemi di comunicazione intranet, criptati o aperti a seconda delle coalizioni che si schierano in guerra. In fondo, meno uomini è più apparati tecnici (droni, F35, Cyberwar) è segno di un investimento corposo nel capitale fisso a scapito di quello variabile, esattamente come avviene in qualunque grande impianto produttivo (e guarda caso esattamente come avviene nel comparto industriale militare internazionale da oltre trent’anni). Nulla di strano: dopo l’89, la politica militare è in fase di privatizzazione spinta . I generali e gli ammiragli, a fine carriera entrano nei C.d.A dell’industria bellica, i soldati professionalizzati in congedo trovano impiego come contractors nella florida industria mercenaria, i tecnici che redigono le analisi di scenario e le dottrine da cui discende la politica militare ed estera sono organici agli stessi settori industriali. E’ noto come il management (sempre governativo) di Finmeccanica, tra uno scandalo e l’altro, ha progressivamente dismesso assets strategici per lo sviluppo nazionale (energia e trasporti) di fatto giocandosi tutto sulla tecnologia militare più avanzata). Dovremmo comprendere che guerra, Finmeccanica, Eni, Forze armate, emergenze ambientali (interne ed esterne), flussi migratori, politica estera e commerciale, conversione energetica e ecologica sono tutti nodi politici legati inevitabilmente gli uni agli altri. Ecco allora delinearsi il contorno di una grande sfida: recuperare la capacità analitica e politica di una visione unitaria e organica di tutte le questioni che stanno dietro al sipario della guerra.

I membri del Bulletin of the Atomic Scientists, una pubblicazione che tratta temi legati alla sicurezza globale, nel 2015 hanno spostato avanti di due tacche le lancette del Doomsday Clock, l’Orologio dell’Apocalisse in cui la mezzanotte simboleggia la fine del mondo causata da una guerra atomica. Le ragioni sono così riassunte: “nel 2015, i cambiamenti climatici incontrollati, l’ammodernamento globale delle armi nucleari e gli arsenali atomici fuori misura pongono straordinarie e innegabili minacce per la sopravvivenza dell’umanità[1]

Stéphane Hessel e Albert Jacquard ammoniscono sul rischio che con l’avvento dell’era nucleare qualsiasi deterrente si tramuti in un fragilissimo equilibrio del terrore e che in tali condizioni il diritto della pace sia di fatto cancellato. Viene così ad assumere centralità la problematica giuridica del diritto al disarmo e dell’illegittimità del possesso di armi di distruzione della specie umana.

A conclusione di queste valutazioni riteniamo che lo spostamento di investimenti dalla macchina militare alla prevenzione della catastrofe climatica sia un’urgenza assoluta.

“Un mondo diverso è possibile, se l’azione dei popoli saprà costruire un altro modello energetico equo e democratico, non più alimentato dai combustibili fossili e dal nucleare, ma basato sul risparmio dell’energia e sull’uso distribuito e sostenibile delle risorse rinnovabili quali sole, vento, biomasse, geotermia, mini idroelettrico e maree. La transizione ad un’economia “leggera” nell’uso delle risorse energetiche richiede una duplice strategia: la reinvenzione dei mezzi (efficienza) e una prudente moderazione dei fini (sufficienza)”. Così si apriva il “Contratto mondiale per l’energia e il clima, per bandire guerre e povertà e fermare i cambiamenti climatici” elaborato nel 2005 da 12 associazioni italiane (tra cui ATTAC e ARCI) e sottoscritto dall’assemblea generale del Forum Sociale Mondiale di Bamako nel 2006. La logica di tipo geopolitico relativo allo “spazio vitale” è tornata prepotentemente sulla scena, mentre svaniscono le illusioni di un multipolarismo capace di far nascere nuovi modelli di sviluppo in diverse parti del mondo. Così, non può che entrare definitivamente in crisi il rapporto di credibilità tra politica e società e tra neocapitalismo e culture dei popoli.

In queste settimane di riacutizzazione di una guerra mondiale asimmetrica in corso da decenni per l’appropriazione delle risorse energetiche sempre più scarse e la privatizzazione dei beni comuni naturali sempre più sottratti ai territori di appartenenza,

La Cop 21 si avvia a ratificare un trattato non giuridicamente vincolante che, secondo una formula più blanda e inconcludente perfino rispetto al protocollo di Kyoto, concordi approssimativamente sulla convergenza verso i 2°C e certifichi che ogni singolo paese attuerà volontariamente impegni di riduzione nella direzione condivisa

Il cambiamento climatico è direttamente correlato alla crescita del terrorismo. Uno studio della CIA avverte che i paesi di tutto il mondo stanno “andando a lottare su una quantità limitata di acqua, quantità limitate di terra per coltivare i loro raccolti e si stanno riconsiderando sotto questo profilo tutti i tipi di conflitto internazionale”. In parole povere: la guerra e il militarismo alimentano esse stesse il cambiamento climatico e ne sono alimentate. In quanto al terrorismo, oltre a ricordare un introito di circa 500 milioni di dollari all’anno dalle vendite del petrolio che è nella disponibilità dei terroristi di ISIS, come possiamo sorprenderci per gli attentati nel cuore dell’Europa, dato che per le rotte energetiche fossili siamo guerra, noi Europa, noi Nato, prima nei Balcani e poi nel Vicino Oriente e non da oggi? Non c’è compatibilità tra guerra e ecologia e, quando la prima prevale, il senso di impotenza è devastante, come ci ha rivelato drammaticamente Alex Langer. Scommettiamo allora sulla pace. Quella della risposta nonviolenta e creativamente dissuadente e assimilante è una strada che non abbiamo mai percorso: eppure l’alfabeto dell’energia rinnovabile, della sufficienza attraverso il risparmio, della compatibilità con la biosfera, ci suggerisce questa strada unificante, lontana dallo scontro di civiltà. Mantenendo un assetto di guerra alle frontiere, come potremmo ancora distinguere tra rifugiati politici e migranti per ragioni economiche quando si calcola che sono ormai 50 milioni i migranti per motivi climatici?

Conclusioni

Adesione a unità che non esclude differenze e contraddizioni. Storia è scandita da progressiva costruzione dell’universalità e dell’unità del genere umano Se da un lato è ben lungi dal descrivere una marcia trionfale o comunque infallibilmente progressiva, dall’altro la storia dell’ideale della pace perpe­tua non è neppure il succedersi di un fallimento all’altro. È invece la storia di una lotta che abbraccia secoli e che è ancora molto lontana dalla sua conclusione; ed è una storia che può essere considerata unitaria per il fatto che l’ideale campo di battaglia su cui si svolge rivela una sostanziale conti­nuità. C ‘è però una caratteristica su cui vale la pena di soffermarsi. Le forze contrapposte, che su questo campo di battaglia si scontrano, agitano o sem­brano agitare la medesima bandiera: l’ideale di «pace perpetua», di «pace universale», di «pace definitiva», di pace che in modo stabile e duraturo ponga fine al flagello della guerra e all’anarchia dei rapporti internazionali. Certo, anche per la storia di altri ideali, ad esempio quelli di «socialismo» o di «democrazia», si può fare una considerazione analoga: vediamo forze contrapposte agitare almeno in apparenza la medesima bandiera. In tutti questi casi l’assonanza, che la superficialità assume sbrigativamente quale sinonimo di contiguità ideologica e politica, a un’analisi più attenta si ri­vela invece quale espressione di antagonismo. Ciò vale in modo particolare per l’ideale della pace perpetua.

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Clima, guerre e migrazioni. Ecco il 2 giugno

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Abdul Aziz, 35 anni, è trascinatore di risciò a Dacca, capitale del Bangladesh. Ha perso tutti i suoi averi per le inondazioni del fiume Meghna. Aziz aveva una bella casa e una grande quantità di terra arabile. L’erosione del fiume gli ha strappato tutto il terreno coltivabile ed è stato costretto a rifugiarsi in una baraccopoli senza servizi e scuole e l’intera sua famiglia non ha di che sostentarsi. Secondo gli scienziati il Bangladesh è uno dei paesi al mondo più vulnerabili ai cambiamenti climatici e all’aumento del livello del mare, che ha già costretto milioni di persone a lasciare villaggi semi sommersi.

Il ciclone Sidr, nel novembre 2007, ha innescato un’ondata di marea alta cinque metri nella fascia costiera e si è portato via 3.500 morti, provocando due milioni di sfollati. Nel maggio 2007, un altro devastante ciclone, Aila, ha colpito la costa uccidendo 193 persone e lasciando un milione di senzatetto. Quasi tutti i migranti non tornano più ai loro luoghi di origine. Da 50.000 a 200.000 persone, ogni anno, lasciano le loro terre là dove sfociano Gange, Brahmaputra e Meghna, con la previsione che, se il livello del mare aumentasse di un metro, come previsto entro il 2060, circa 20 milioni si sposteranno per sempre.

La questione è stata sollevata al vertice mondiale umanitario a Istanbul il 23-24 maggio. Oggi, a seguito delle previsioni realistiche di cambiamento climatico, sono valutati in 130 milioni le persone più vulnerabili in disperato bisogno di assistenza nel mondo, che si aggiungono ai 50 milioni già fuoriusciti fino ad oggi. Il Vertice di Istanbul è il frutto di un lungo processo di consultazione durato tre anni, che ha coinvolto oltre 23.000 soggetti interessati ed ha registrato la presenza di 9.000 partecipanti provenienti da 173 paesi. A dispetto di tutto ciò, i massimi leader dei sette paesi più industrializzati (G7), e dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sono stati tutti a casa: tra questi solo Angela Merkel, dimostrando maggior lungimiranza, è intervenuta. Il nostro premier Renzi si strizzava la cravatta altrove, in una delle sue incessanti conferenze stampa in giro per il mondo dove, a prescindere dall’argomento di partenza, finisce irrimediabilmente per incrociare i guantoni con la minoranza del Pd e tutti quelli che non capiscono che il futuro cambia… se si vota Sì al referendum!

Nonostante il silenzio dei nostri media (ne ha giusto parlato il Papa da piazza San Pietro) il vertice è riuscito a inviare un campanello d’allarme senza precedenti della sofferenza umana: purtroppo non ha raggiunto l’obiettivo di attrarre i fondi massicci necessari per alleviare il dramma umanitario, in quanto nessuno dei leader assenti ha battuto un colpo. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha espresso forte “delusione”, visto che “le risorse necessarie per salvare la vita di decine di milioni di esseri umani rappresentano solo l’1% della spesa militare mondiale totale. Il vertice ha portato alla ribalta dell’attenzione globale la portata delle modifiche richieste, se vogliamo affrontare la grandezza delle sfide davanti a noi. I partecipanti hanno reso enfaticamente chiaro che l’assistenza umanitaria da sola non può né affrontare adeguatamente né ridurre le esigenze di oltre 130 milioni di persone tra le più vulnerabili del mondo”.

Un nuovo e coerente approccio si basa sulle cause profonde, mantenendo le promesse della Cop 21 di Parigi già dimenticate, aumentando la diplomazia politica per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti, e compiendo ogni sforzo di costruzione della pace. L’azione umanitaria non può essere un sostituto dell’azione politica, dato che in realtà, la maggior parte dei flussi di rifugiati del mondo riguardano o “rifugiati climatici” – coloro che fuggono la morte causata da siccità senza precedenti, inondazioni e altri disastri in gran parte causati dai consumi energetici dei paesi più industrializzati – o sono risultati diretti di guerre in cui i paesi del G7 e gli stati permanenti del Consiglio di sicurezza, tranne la Cina, sono coinvolti.

Jan Egelend, che dirige il Norwegian Refugee Council ed è anche il Consigliere speciale di Staffan de Mistura, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, ha detto che la comunità internazionale ha bisogno di una “lista nera” di qualsiasi gruppo o qualsiasi governo che contribuisce all’allargarsi delle guerre fornendo armi, bombe, velivoli. Dopo aver firmato di corsa a New York l’accordo sul clima senza nemmeno un impegno quantitativamente verificato in un dibattito parlamentare, dopo aver partecipato “per motivi umanitari” ad ogni spedizione militare che si fosse delineata all’orizzonte ed aver registrato che nulla ha gettato discredito sull’Europa più del comportamento erratico dei governi nazionali e dell’Ue di fronte al massiccio flusso di immigrati disperati, non sarebbe il caso di uscire dalla retorica e dedicare ai rifugiati e alle ragioni profonde e tragiche delle morti in mare l’articolo 11 della Costituzione – quello sul diritto alla pace – proprio mentre il 2 Giugno si osserva lo sfilare degli eserciti ai Fori Imperiali?
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Oltre il referendum del 17 aprile

a cura di Mario Agostinelli

Siamo nel mezzo della crisi energetica più rilevante nella storia dell’umanità. Se per gioco volessimo rappresentare con una novantina di illustri individualità a nostra scelta – da Pitagora a Pericle a Cesare a Carlo Magno a Marco Polo a Napoleone a Einstein a Obama – le generazioni che succedendosi hanno “plasmato la memoria” su cui risiede la nostra civiltà occidentale (90 personalità x 25 anni a generazione =2250 anni di storia), quanti nuovi personaggi potremmo prevedere che possano salire d’ora in avanti su un palco siffatto? A detta del mondo scientifico più responsabile e accreditato non più di quattro o cinque, se si limiteranno a replicare il “business as usual” nelle politiche energetiche, sfasciando irrimediabilmente la ribalta in seguito agli effetti irreversibili di esse sul clima. Molti e molti di più, invece, se risulteranno dall’interpretazione di una svolta radicale rispetto all’odierno sistema fossile centralizzato e asseconderanno la cittadinanza globale nella consapevolezza della priorità delle ragioni della biosfera su quelle della geopolitica.

Occorre riconoscere che siamo in una fase nella quale le contraddizioni interne al sistema energetico dominante non possono più essere risolte ristrutturando il sistema tale e quale. Questa sarebbe la strada più facile da percorrere, ma pure la più irresponsabile, anche se parrebbe quella privilegiata da chi misura il futuro sulle scadenze elettorali (sono, verosimilmente, i casi recentissimi di Renzi con il boicottaggio del referendum, di Cameron con l’impegno a mantenere i 10.000 addetti britannici al carbone, dei premier di Polonia e Ungheria con le dichiarazioni di dar fondo senza alcun riguardo alle loro riserve di lignite).

Le soluzioni alternative che si fronteggiano e che hanno alle spalle culture di solide radici (quella ereditata dall’Illuminismo e dalla rivoluzione industriale e quella più recente definita “dell’ecologia integrale”) e non banali opportunismi, si caratterizzano per valutazioni che si situano in scale temporali e in un rapporto con la natura assai diversi.

C’è quella che si ostina a mantenere in vita il presente nella illusione che le previsioni sul cambiamento climatico non siano confermate e che il trascorrere del tempo venga sanato miracolosamente dal ritrovamento di soluzioni tecnologiche oggi non alle viste. Una ideologia dichiaratamente antropocentrica, prima che una proposta di rimedi provati, nata nella presunzione di risanare a valle la devastazione dei processi biologici e naturali compromessi per tempi incommensurabili dal ricorso a fonti di energia sempre più intense (il nucleare in primo luogo) e con effetti mascherati nell’immediato (il sequestro di CO2, la liberazione di metano per il petrolio nell’Artico, il confinamento delle scorie). In sintesi: crescita in economia e impiego di trasformazioni energetiche che prescindono dalla compatibilità con il sistema vivente.

C’è, dall’altra parte, l’opzione di trasformare su scala territoriale diffusa le fonti naturali, riducendo strutturalmente attraverso esse i tempi dell’intero ciclo di fornitura (trasporto e distribuzione in particolare), migliorandone costantemente l’efficienza, superandone gli svantaggi di intermittenza e compensazione con sistemi e reti digitali, considerandone l’eccezionale curva di apprendimento che ne abbassa continuamente i costi, rimarcandone la capacità di creare lavoro stabile anche in assenza di crescita e mettendo in rilievo infine la compatibilità dei processi che le utilizzano con l’estensione di un governo democratico dell’economia su base regionale e territoriale. Lo sfruttamento delle fonti rinnovabili – al contrario del percorso ipertecnologico per “rendere puliti” (?) i settori del fossile e del nucleare – si inserisce, agendo a monte, in una dimensione temporale in sincronia con la natura, i suoi cicli, la sua capacità di rigenerazione e si può sottoporre ad un esteso e efficace controllo sociale.

Se non ci si schiaccia sulla tattica politica del momento (e io non sono interessato a seguire il Presidente del Consiglio nella riduzione di temi di questo rilievo alle mene interne al PD) occorre essere già oggi fuori dalla difesa dell’esistente e non firmare con una mano a New York l’accordo Cop 21 e rilasciare con l’altra crediti alle corporation di gas e petrolio. Se, come indica l’intesa di Parigi, pur con le sue ambiguità e lacune, ci si vuole collocare dalla parte della seconda tra le opzioni descritte sopra, allora essa va praticata da subito in chiave sostitutiva ai fossili e andrebbe favorita e accelerata da processi di efficienza e riadeguamento su tutta la rete di distribuzione, accumulo e scambio, anziché osteggiata da misure tariffarie e incentivi alla rovescia. Quindi, i primi effetti sostitutivi vanno programmati laddove la questione ambientale è più drammaticamente urgente: le centrali a carbone e le trivelle in mare sono un esempio di questa priorità.

Questa sembra oggi, delle due alternative quella indiscutibilmente più in linea con la salvaguardia della vita sul pianeta ed è il quesito vero, di profilo storico, che è stato posto il 17 Aprile. Per cui quella data referendaria andrà inquadrata come segnale, ancorché insufficiente, in un processo che è in corso, anche se i media nostrani e il Governo non sanno dare ad esso rilievo, presi come sono dallo spostamento quotidiano da una notizia all’altra, schiacciati in un eterno presente da cui non si esce mai, visto che viene conculcata la partecipazione e non richiesta alcuna corresponsabilità. Ci troviamo in un percorso di transizione già in atto, certamente da istruire e completare, ma sul quale un segnale inequivocabile è stato dato: decarbonizzare e, contemporaneamente, assumere soluzioni sostitutive alternative, imprimendo al sistema un orientamento che con il tempo si farà dominante. Oggi il sistema oscilla ancora in modo disordinato, spinto da logiche contraddittorie. Comunque sia, il risultato delle pressioni dei movimenti sociali delle nuove eco-imprese e delle comunità locali si fa sempre più coerente e non è poco. trovarsi già, pur essere stati derubati del tempo sufficiente all’informazione e al confronto, con il 30% sul totale degli aventi diritto al voto che auspica e vorrebbe veder svilupparsi un sistema energetico differente.

Una delle curiosità – tra le altre – è che il referendum, secondo Swg, ha richiamato il 16 per cento di chi non vota più per principio alle politiche e un terzo di chi si dice indeciso su chi votare. Inoltre, tra coloro che hanno usato internet come fonte di informazione per capire di più della consultazione sulle trivelle, la quota che si è recata al voto è del 44% rispetto al 29% di chi si è informato solo ai TG. E’ evidente come si stia formando, fuori dagli equilibri politici e economici, un’opinione avversa alla strategicità del fossile, perseguita da Bersani a Monti a Passera e a De Vincenti secondo l’immagine inquietante dell’Italia “hub del gas” e avvalorata da una strategia energetica nazionale (SEN) mai portata all’approvazione del Parlamento.

E, questa volta, non c’è da accampare per i risulati del referendum la scusa della “complicità emotiva” (come per Fukushima e Chernobyl), tanto più che siamo a condizioni rovesciate, visto che del disastro del petrolio nel Polcevera l’opinione pubblica votante è stata tenuta accuratamente all’oscuro. Anzi,si è fatto forza sull’idea che 2000 posti di lavoro fossero la questione. In questi mesi 50.000 lavoratori delle aziende del gas ex municipalizzate verranno riassunti col Job Act e ripagandosi la pensione, grazie allo scarso interesse del Governo per il lavoro.

Era dal 2011 (referendum acqua, nucleare e legittimo impedimento), che la politica e soprattutto la narcotizzata società italiana non veniva investita dal dibattito su un tema fondante per il futuro del Paese. Chiedere ai cittadini di disertare le urne e non far maturare un dibattito dopo la Laudato sì e la Cop 21 è delittuoso e dà l’idea della fragilità di una politica che punta solo a ritardare processi per salvaguardare poteri non legittimati dalla risorsa del confronto continuo. Tra l’altro, occorrerà prestare attenzione ad un aspetto sottovalutato finora: non essendo state abrogate da un referendum, le altre norme sulle trivelle cancellate dal governo prima di andare al vaglio della Corte Costituzionale, possono essere ripresentate in qualsiasi momento all’interno di un Consiglio dei Ministri che non ha dato alcuna garanzia di lealtà sugli impegni presi. Non sarà semplice né facile riportare la politica su queste linee a sguardo lungo nel tempo.

Ho l’impressione che anche l’insistenza di molti commentatori a sinistra nel trovare connessioni tra l’esito referendario del 17 Aprile e le previsioni per quello autunnale sulle riforme istituzionali sia fuorviante, a meno che si inquadri la questione costituzionale come una priorità del futuro e non una reiterazione del passato, seppure glorioso. Il futuro della sinistra è quello di applicarsi alla sociologia delle emergenze, interpretando le tendenze che possono essere determinanti per affrontarle. Su questa base stanno intervenendo tendenze di riunificazione nell’area della sinistra e nelle componenti religiose: esse però vengono messe in difficoltà dallo spostamento al centro di forze che hanno ereditato l’organizzazione dei movimenti operai del dopoguerra e oggi giocano nel campo avverso. E’ il caso, sempre più netto del PD renziano in e questo schiacciamento sul presente e oscuramento del futuro è un danno enorme per la politica e per la conquista ad essa delle nuove generazioni. Il neoliberismo è un’immensa macchina di produzione di aspettative negative, in modo che le persone non possano conoscere i motivi reali della loro sofferenza, accontentandosi di quel poco ancora che hanno, paralizzati dalla paura di perdere. La riunificazione di sinistra e forze religiose serve ad attenuare la paura e a propiziare il ritorno di qualche speranza. (ed è quanto era accaduto a Milano con Pisapia ma, forse, non è stato da lui stesso abbastanza compreso). La speranza è un concetto aperto e attiguo alla partecipazione. Proprio perciò la tenuta e la chiarezza sulla questione costituzionale diventa determinante per il futuro, così come attuare un sistema elettorale più rappresentativo e più trasparente e rafforzare la democrazia partecipativa. Una democrazia finalizzata ad una interpretazione del mondo e della vita altamente condivisi e inverati nel patto sociale che non può che avanzare, altro che arretrare!

Concludo queste considerazioni sul quadro nazionale trasferendole nel contesto in cui la transizione energetica rimescola le carte della supremazia del neoliberismo sul piano globale. Dopo l’Enciclica papale (impossibile non considerarla per i suoi effetti vistosi in America e in Africa) e le conclusioni a Dicembre e le firme ad Aprile dell’accordo di Parigi, l’impermeabilità al forte messaggio di trasformazione è un lusso che in politica deve avere un costo. Italia, Inghilterra, Polonia e Ungheria guidano – e non da ora – il fronte della staticità del sistema fossile in Europa, addirittura con implicazioni sullo svolgimento della trattativa sul TTIP per la liberalizzazione del gas e del petrolio da scisto proveniente da America e Canada. Non è che le politiche di Obama, Merkel, Xi Jinping siano esenti da contraddizioni: pensiamo alle problematiche ambientali statunitensi del fracking, all’uso della lignite tedesca, all’inquinamento delle città cinesi. Ma quelli sono leaders che danno l’impressione di avere una visione che li ha portati ad avviare una profonda trasformazione dei sistemi energetici. Le primarie negli Usa vedono il climate change, la costruzione di oleodotti, i vincoli sulle emissioni dei veicoli come discriminante tra democratici e repubblicani. E la piena occupazione dei giovani e il minimo salariale sotenute come priorità da Bernie Sanders vengono osteggiati esplicitamente e con durezza dalle corporation del petrolio e del gas e dai grandi consumatori di fossili come la Walmart con i suoi 4000 centri commerciali e oltre 7500 TIR. In ogni caso gli investimenti mondiali sulle rinnovabili nel 2015 sono stati del 60% più elevati della somma di quelli delle nuove centrali elettriche a carbone, a gas e nucleari: c’è quindi una politica industriale e una riconversione ecologica delle produzioni con dinamiche occupazionali assai interessanti che sono in attesa.

Va tenuto aperto il dibattito pubblico sul tema del modello di sviluppo che l’Italia vuole perseguire alla luce degli accordi sulla riduzione dei gas climalteranti, mettendo in luce al contempo l’incompatibilità della compromissione della politica con gli interessi economici delle multinazionali del petrolio e i poteri forti.  Altro che ridurre tutto alle dinamiche interne al PD!  Sono assai ridotti i sostenitori di un’economia fossile in grado di presentarsi ai cittadini con trend economici positivi e capacità di rispondere alle esigenze di abbattimento dei costi ambientali. Perciò i15 milioni di cittadini alle urne dimostrano quanto sia necessario creare continuità tra linguaggi delle piazze e strumenti di partecipazione di massa. Se guardiamo al referendum come ad un passaggio intermedio di una battaglia di lungo periodo e connessa a tematiche che vanno ben oltre il tema dell’estrazione di idrocarburi offshore, la prospettiva è tutt’altro che a tinte fosche, e possiamo considerare questo come l’inizio di un ancora lungo lavoro di articolazione sociale che persegue un modello produttivo e di consumo frutto di una forte richiesta di partecipazione. Se ci muoviamo progressivamente in questa direzione, anche in occasione e in preparazione delle prossime scadenze elettorali, eviteremo di entrare nel gioco condotto da Renzi di riservarsi il prossimo gradino da cui rendere più agevole il balzo verso quella che Boaventura Sousa De Santos chiama “democrazia ad intensità molto bassa”.

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Referendum: le trivelle in mare vengono da lontano

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Nel gennaio del 1988, il manifesto pubblicava un articolo scritto da Attilio Tronconi, ricercatore della Asea Brown Boveri e dal sottoscritto, allora segretario della Cgil Lombardia contro un progetto dell’Enel per costruire una centrale off-shore da 2500 MW al largo delle coste emiliane nell’Adriatico. Questa storia delle trivelle in mare, per cui andremo a votare il 17 aprile, ha alle spalle antenati ben irresponsabili, politicamente e economicamente egemoni prima dei referendum sul nucleare e la cui eredità perdura nei governi attuali, nonostante le formali adesioni di premier e ministri agli obiettivi della recente conferenza di Parigi.

Referendum: le trivelle in mare vengono da lontano

Risottolineo oggi, con quell’articolo sottomano – e rileggendo la ripresa scandalizzata della notizia di una centrale in mare in un numero monografico de “il Mondo” del 20 febbraio del 1988 e in un servizio di Panorama del 31 gennaio 1988 – la mancanza di cura, se non la temerarietà, con cui la classe dirigente trattava l’ambiente prospiciente le spiagge allora inquinate per l’eutrofizzazione.

copertina il mondo - centrale off shore

L’allora ministro Battaglia, punto nel vivo dalla vittoria dei Sì al referendum per la cessazione del nucleare, a colpi di fiducia in Parlamento e con il placet del Cipe e del consiglio di amministrazione dell’Enel, aveva dato il via libera:
a) alla riconversione dell’impianto nucleare in costruzione a Montalto di Castro in un polo termoelettrico da ben 3300 MW,
b) alla proroga del sovrapprezzo termico sulle tariffe dell’elettricità, al fine di trasferire all’Enel alcune centinaia di miliardi di lire a titolo di risarcimento per il blocco nucleare,
c) alla riserva di ulteriori 3000 MW per nuovi impianti e ripotenziamenti di quelli esistenti.

In spregio alla partecipazione democratica e al diritto all’informazione, le decisioni sulla politica energetica venivano assunte in organismi ristretti, per rassicurare gli interessi intaccati da un referendum popolare. Non a caso, il mese prima l’Enel aveva approvato il finanziamento per 33 miliardi di lire della progettazione esecutiva di una centrale off-shore da 2500 MW al largo delle coste emiliane. La realizzazione di una centrale termoelettrica su un’isola artificiale era indicata tra le ipotesi del Piano Energetico come una soluzione da prendere in considerazione, ma solo dopo il 1995. Per il potente ministro dell’Industria c’era bisogno di “andare a mare” al più presto, ponendo la localizzazione dell’isola artificiale “nel mare Adriatico in una zona compresa fra i 10 e 30 Km, in cui possibilmente risulti presente nel corso dell’anno una foschia così da renderla invisibile dalla spiaggia”. Veniva altresì suggerita la preferenza di localizzare l’isola e il porto di rifornimento fuori dalle acque territoriali in modo da non pagare le imposte sui combustibili, l’Iva e l’imposta di fabbricazione.

Evidentemente si dava già allora per auspicabile la strada (o l’autostrada) di proliferazione di impianti di estrazione e trattamento di gas e petrolio al di là delle implicazioni che riguardano la sicurezza militare, i vincoli di spostamento dei lavoratori addetti, l’impatto ambientale, la pesca, il turismo, lontani dal controllo sociale e in grado di minimizzare (almeno alla vista) l’impatto ambientale, con controlli delegati alle sole istituzioni centrali esautorando le Regioni e le autonomie locali. Quel disegno è stato contrastato dalla coscienza popolare cresciuta durante la campagna referendaria sul nucleare, che oggi, nel caso dei fossili il governo ha voluto eludere. Sarebbe stato magari messo in cantiere, al prezzo di un restringimento della democrazia e di un accentramento dei poteri di decisione ogni volta che si profila un cambiamento della portata dell’abbandono del nucleare e, oggi, del passaggio alle rinnovabili.

Scrivemmo in quell’articolo del 1988: “Non si dà riconversione ecologica dell’economia senza più democrazia. Gli obiettivi della politica energetica vanno attuati con il concorso e il consenso della popolazione, con il contributo delle forze sociali e con il più vasto apporto delle forze intellettuali”. Quel vizio di fondo di considerare l’ambiente – e quello marino in particolare – un aspetto residuale è rimasto quasi intatto dopo quasi 30 anni in una ristretta cerchia delle classi dirigenti e il referendum di domenica ne riscopre gli enormi limiti in una prospettiva temporale che si fa sempre più stringente.

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