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La crisi e i beni comuni

a cura di Mario Agostinelli

1. CONTESTUALIZZARE LA CRISI. Il “manifesto per un soggetto politico nuovo” affronta molte delle questioni irrisolte che riguardano un “popolo” determinato e sostanzialmente convergente verso il cambiamento, che tuttavia da ormai quindici anni affronta le nuove “fratture”, avanza e si ritrae da zone tematiche inesplorate (la pace globale permanente, i beni comuni, l’ingiustizia climatica, i diritti del lavoro globalizzato e dei migranti, solo per citarne alcune), senza trovare sintesi definitive, né riuscire a fissare nuovi rapporti di forza sotto forma di una rappresentanza di massa in una società che invece arretra nelle sue istituzioni partecipative. Ma non credo che l’adesione al “manifesto” sia l’unica forma per contribuire a fare il punto di una lunghissima fase di ricerca senza adeguato approdo. Anzi, io vorrei semplicemente mettere a fuoco le novità, rilevare alcuni limiti interpretativi, precisare alleanze e allargare il fronte dei contenuti senza pretese esaustive, stando però in un cammino comune ancora in corso, che trae la sua forza dall’inclusione e dall’ascolto.

Che la territorialità e i beni comuni costituiscano, in quanto ambito e contenuto, un punto di partenza indispensabile e dalle potenzialità non del tutto esperite per recuperare una soggettività conflittuale che si organizza stabilmente rispetto alla feroce astrattezza della globalizzazione, è un risultato che ha portato al successo dei referendum e che continuerà a produrre anche alle imminenti amministrative importanti effetti sulla rivitalizzazione delle autonomie locali. Il documento, tuttavia, non contestualizza la crisi e sottovaluta come l’attacco sociale e la gestione della recessione in corso siano riusciti a colpire in modo particolare la speranza di “un mondo diverso possibile”, rendendo più difficile la marcia di avvicinamento tra diverse esperienze, lasciandole confinate in spazi territoriali separati, senza fondere i rispettivi messaggi. Chi ha visto l’inizio della crisi come una opportunità, deve fare i conti adesso col fatto che, almeno in Europa, il discrimine posto dal “risanamento del debito” ad opera della “troika” è riuscito a bloccare una narrazione in atto che Uhlrich Beck riteneva vincente ed ha ribaltato il giudizio inappellabile delle nuove generazioni sul liberismo e sui disvalori del sistema capitalista (voi l’1%, noi il 99%) in una recriminazione nei confronti delle conquiste del lavoro e della democrazia sociale del dopoguerra, bollati come eccessivi e pregiudizievoli per un rientro in gioco dei giovani.

2. DOVE STA IL CONFLITTO? E’ proprio perché la caratteristica della crisi non si può ridurre ad aspetti settoriali, che il nuovo soggetto deve essere aperto, permeabile ad una prassi del conflitto che non ha bisogno di essere nominata preventivamente, nè circoscritta e nemmeno gerarchizzata , dato che il conflitto sociale è ormai penetrato nelle esistenze ed emerge in tutte le sue articolazioni – dal lavoro, alla natura, al genere – ad ogni passaggio in cui il potere rimarca l’insussistenza dei margini redistributivi entro cui nel passato si cercavano i compromessi sociali. Il conflitto potrebbe solo essere esorcizzato, “legalmente” abolito, ma non sembra esserci obiettivo di giustizia che si possa comporre “naturalmente” nella forma di un patto preventivo. Provatevi a scoprire la radicalità e la tensione al cambiamento che molti dei programmi per le prossime elezioni comunali vanno esibendo: noterete come spesso i partiti a livello locale sposino posizioni condivise dai loro elettori, che fanno strame delle rassicurazioni che Casini Alfano e Bersani mandano all’austerità montiana. Sono programmi che, per dare senso all’amministrare, cercano punti di contatto praticabili tra conservazione dei beni comuni e creazione di lavoro, mentre la scure delle privatizzazioni e dei tagli ai servizi spingerebbe proprio in direzione opposta. La categoria dei beni comuni evoca conflitto, ma occorre guardarsi dal ricondurre ogni forma di alternativa al concetto dei “commons”. Bisogna, a mio parere, approfondire una strategia, prima di allargarne a dismisura il campo di applicazione. Io penso che i riferimenti debbano per ora andare solo alla insostituibilità per la vita e la riproduzione: occorre allora andare oltre l’esperienza, pur formidabile, dell’acqua, per disegnare un approccio complessivo alla natura – e quindi al lavoro e all’esistenza intera – alternativo a quello che il capitale oggi impone, esulando dai confini tradizionali della geopolitica (il Novecento) e invadendo quelli della biosfera.

Continuo a rimanere deluso di una organizzazione post-referendum in cui i singoli movimenti permangono organizzati come se dovessero procedere “confederati”. Il rapporto energia-acqua-cibo-territorio dovrebbe essere invece pensato nella sua complessità e indissolubilità. Innanzitutto nell’ambito dell’autogoverno comunale e con la partecipazione della popolazione locale, e poi su su con concretezza, fino a contrastare la requisizione ad opera di un mercato che si organizza su scala continentale e mondiale. Si tratta già così di un programma politico di amplissime ambizioni: una alternativa alla dittatura delle borse e delle banche, che porta alla miseria i paesi, alla finanziarizzazione dei servizi locali essenziali, alla distruzione degli unici posti di lavoro programmabili in qualità e quantità con un livello di partecipazione autentico.

3. BENI COMUNI E RICONVERSIONE PRODUTTIVA. Il ritorno ad una descrizione qualitativa anziché solo quantitativa del mondo in cui viviamo ci consente di produrre sintesi politiche che i soli numeri e i modelli econometrici non sono in grado né di esprimere né di prevedere. Nella relazione tra gli elementi naturali rinnovabili, riproducibili ma anche degradabili, si ritrova un equilibrio tra uomo e ambiente in cui possono agire da mediatori il livello di civiltà che viene consegnata alle nuove generazioni e la creazione di un lavoro che trasforma conservando, nel segno della giustizia e della sufficienza. Un programma politico, potremmo dire, che funziona se trova rappresentanza adeguata e lotte vincenti. In pratica, si tratta di realizzare una organizzazione democratica della società ecosostenibile, ossia una società che soddisfa i propri bisogni senza alterare i complessi meccanismi che reggono il clima, che non preleva dalla natura più risorse di quanto essa possa rigenerare nel tempo, che non spreca e distrugge il territorio nella sua componente sociale e naturale. Questo proposito tiene insieme acqua, sole, aria, terra e cibo e consente l’avvio di una transizione che fissa anche i tempi urgentissimi del mutamento del quadro politico-organizzativo di riferimento. Inutile aggiungere che il mondo del lavoro torna ad essere il fulcro di un’azione che riporta al centro del conflitto la riconversione della produzione solo se di fronte al capitale riprende potere e si autorappresenta con la democrazia diretta.

Io credo che la questione energetica sia determinante e il tempo nuovo che stiamo vivendo e che offre la scoperta della soggettività relazionale, dell’emergenza di una coscienza di specie, richieda proprio quella democrazia dal basso a cui il “manifesto” dedica un’attenzione puntigliosa; un po’ astratta, forse, se non opta con decisione per il collegamento tra giustizia sociale e giustizia ecologica come leva interpretativa delle priorità per l’umanità e del superamento definitivo del produttivismo e della competizione.

4. L’IMPORTANZA DEL PARADIGMA ENERGETICO. Per il freddo calcolo dei banchieri al Governo una politica energetica “low carbon” e improntata alla riduzione dei consumi è roba da sognatori e il ripensamento imposto dal referendum un incidente da metabolizzare quanto prima. In effetti, c’è intima coerenza tra l’azione e la speculazione del mondo finanziario e il sostegno al modello energetico attuale. Ed è fuor di dubbio che il sistema delle grandi banche tragga profitto dal rallentamento e dalla non diffusione delle fonti rinnovabili. Corrado Passera ha segnalato la direzione del Governo per affrontare la tematica energetica nella sua complessità. Si tratta di fare dell’Italia l’hub del gas in Europa, lasciando sostanzialmente inalterata la dipendenza del sistema dei trasporti dal petrolio: in altri termini, l’Italia diventerebbe, con il sostegno del fondo per la sicurezza energetica messo a disposizione dalla UE, il punto di transito e di stoccaggio di gas e petrolio per l’Europa e di concentrazione della logistica per le merci di passaggio dai nuovi centri di produzione globali (il progetto della TAV Torino-Lione è del tutto coerente con questa logica). Niente, quindi, politica industriale di riconversione ecologica che, ponendo al centro rinnovabili e mobilità sostenibile, richiederebbe linee di credito trasparenti e basate sul consenso sociale, quando invece la “manna” del petrolio e del gas può giungere alle bocche dei soliti investitori con il corredo ulteriore di nuove centrali, condotte, navi, rigassificatori, stoccaggi sotterranei, perforazioni senza tregua.

Il conflitto è evidente, ma va di nuovo segnalato come sul cambio di paradigma incominciano a sintonizzarsi le autonomie locali più aperte e avvedute, che costruiscono coi cittadini, le associazioni ed i movimenti riassetti territoriali e piani regolatori partecipati, sistemi di mobilità sostenibile, progetti energetici innovativi per le loro città o i loro comuni. Siamo assai più avanti di quanto si dica. Il patto dei Sindaci, previsto dalla UE per i piani di azione per l’energia sostenibile (PAES), dispone direttamente fondi e sostegni alle comunità che in modo condiviso rendono virtuose le loro abitazioni, i loro stili di vita, l’approvvigionamento dalle fonti rinnovabili. Esistono oggi in Italia 1153 comuni che hanno aderito al patto dei sindaci su 2653 in Europa. Un movimento che è già intrecciato a gruppi di acquisto solidale, a reti di coenergia, ad azioni di risparmio solidale e che costituisce un brusco richiamo alle ipotesi finanziarie di creare multiutility da quotare in borsa. Perché allora non unificare quanto prima in progetti coerenti almeno i riferimenti territoriali che sui beni comuni sono già all’opera?

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Enel in Patagonia: la rapina dell’acqua

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano online – 27 aprile 2012

Spesso il dibattito sul futuro dell’energia sembra ristretto all’opzione di fondo tra fossili e uranio da una parte e rinnovabili dall’altra. C’è una questione altrettanto determinante, ma che viene messa in secondo piano: se la direzione di marcia è verso un sistema fortemente decentralizzato oppure continueremo ad essere invasi da grandi impianti, lunghissime reti di distribuzione, prevalenza dell’economia finanziaria, anche nel caso di ricorso a “fonti pulite”. Non c’è dubbio che le corporation puntano a far sopravvivere il sistema attuale e quindi a rendere la vita dura alle fonti naturali, sia ostacolandole nella loro diffusione, che riassorbendole nell’attuale modello a forte centralizzazione. In questa ottica di sostanziale continuità con gli interessi e i poteri delle imprese dell’era dei fossili, vengono proiettati nel futuro i progetti Desertec e Seatec per concentrare e trasportare in Europa l’energia del sole del Sahara e del vento del Mare del Nord. E, in attesa, vengono accelerati i sequestri ad uso energetico di ingenti quantità d’acqua dei fiumi più ricchi al mondo, anche ad opera di attori nostrani come Enel, formidabili player oltreconfine nel settore nucleare e delle grandi dighe.

E’ scandaloso il silenzio della nostra stampa sul progetto Hydro-Aysén, il cui iter è iniziato nel 2006, e prevede 5 centrali idroelettriche sul rio Baker, il principale fiume della Patagonia cilena, e sul rio Pasqua. Nel 1981 il Cile di Pinochet mise sul mercato l’acqua dei suoi fiumi, che, per lo sfruttamento elettrico nel Sud (dove si trova l’80% delle riserve idriche del paese), dal febbraio 2009 è finita in mano ad una società per il 92% appartenente ad Enel. I lavori preliminari sono stati avviati ed il progetto può considerarsi in fase di realizzazione. La presenza di 5 imponenti opere idrauliche, danneggerà l’ecosistema fluviale, interrompendone la naturale continuità, necessaria per le dinamiche riproduttive delle specie ittiche e formando degli invasi non naturali che influenzeranno la temperatura locale. Oltre alle dighe, verrà realizzato un elettrodotto di 2300 km (lungo quasi metà del territorio cileno) dalle torri alte fino a70 metri, che attraverserà decine di parchi ed aree protette. C’è una enorme preoccupazione per il clima mondiale, perché i mutamenti in Patagonia avrebbero effetti rilevantissimi su riserve di ghiaccio di vastissima estensione, oltre che di bellezza incomparabile. Gli ambientalisti e la popolazione locale dell’Aysén si sono ribellati e hanno costituito il movimento Patagonia sin Represas (Patagonia senza dighe). Chiedono di sospendere il progetto e propongono alternative meno impattanti, quali ad esempio la realizzazione di più mini impianti idroelettrici, o l’utilizzo più intensivo del fotovoltaico.

Del problema è stato investito il Forum sociale Mondiale e se ne è discusso al recente Forum sull’acqua a Marsiglia. La convenienza economico-finanziaria di un modello che viola i diritti, compromette l’ambiente, distrugge le economie locali, viene confutata promuovendo un modello alternativo, fatto di decentralizzazione, energy mix, impianti di piccola scala, partecipazione della comunità locali alle decisioni ed alla gestione.

E’ questo il cuore di una riscrizione del sistema energetico sui tre pilastri della riduzione e dell’efficienza, della decarbonizzazione, del passaggio alle fonti rinnovabili a dimensione territoriale. Un cuore non solo tecnico, evidentemente, ma pulsante di partecipazione, democrazia, conservazione della natura, riarmonizzazione dell’elemento “fuoco” con acqua, terra, vento.

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21 aprile: Iniziativa di lancio della campagna “pRIOrità futuro”

scenaRIO futuro

Iniziativa di lancio della campagna

21 aprile 2012 – h. 14–19 – Teatro Valle Occupato – ROMA

Scarica la locandina

Rigas, la Rete Italiana per la Giustizia Sociale ed Ambientale, lancia verso il Vertice di RIO +20 che si terrà in Brasile nel prossimo giugno, la campagna “pRIOrità Futuro – i Popoli per la giustizia ambientale e sociale”.

Dopo due decenni di fallimenti dal precedente Summit della Terra di RIO del 1992 e sotto la scure dell’attuale crisi che lungi dall’essere soltanto economica e finanziaria è soprattutto ecologica, le reti sociali si riuniranno ancora una volta parallelamente al vertice governativo per discutere e promuovere la propria alternativa al modello attuale. Un’alternativa costruita attorno alla giustizia ambientale e sociale, la democratizzazione dello sviluppo, la riconversione ecologica, che RIGAS porterà a Rio riaffermando che la priorità è appunto pensare al futuro. Promuovendo un percorso di informazione, discussione, mobilitazione e articolazione di proposte sui temi della giustizia ambientale e sociale e sulla necessità di operare una transizione verso un modello fondato sulla giustizia, Rigas si fa portatrice delle istanze di sindacati, comitati, centri di ricerca, organizzazioni sociali e ecologiste, università.

La campagna verrà lanciata dall’evento “scenaRio futuro” che si terrà a Roma, al Teatro Valle Occupato sabato 21 aprile a partire dalle ore 14.00. L’iniziativa intervallerà interventi di rappresentanti delle organizzazioni sociali, del mondo della cultura, dell’informazione, dei sindacati e contributi artistici.

Tra gli interventi:

Mario Agostinelli/Energia Felice – Andrea Alzetta/Action – Raffaella Bolini/ Arci – Paolo Cacciari/Rete@sinistra – Danilo Chirico/daSud – Angelo Consoli/Cetri – Giuseppe De Marzo/A Sud – Livio De Santoli/Citera – Federico Del Giudice/Rete della conoscenza – Marica Di Pierri/CDCA – Marco Gulisano/ Amig@s MST – Francesca Koch/Casa Internazionale delle Donne – Maurizio Landini/FIOM – Mattia Lolli/comitato 3e32 – Fulvio Molena/Valle Occupato – Emilio Molinari/Contratto Mondiale dell’Acqua – Roberto Natale/FNSI – Maria Pia Pizzolante/Tilt – Marco Revelli – Mimmo Rizzuti/SEM Sinistra Euro Mediterranea – Raffaele K.Salinari/Terres des Hommes – Carla Ravaioli – Patrizia Sentinelli /Altramente – Luca Tornatore/Ya basta – Guido Viale – Alex Zanotelli

Contributi artistici di:

Ascanio Celestini, Ulderico Pesce, Tete de Bois e in più.. incursioni artistiche del Teatro Valle Occupato

Info e contatti: www.prioritafuturo.itwww.reteambientalesociale.org

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L’energia di Monti sotto il segno della Bce

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano online – 16 aprile 2012

L’intervento di Corrado Passera a fine marzo rappresenta uno dei primi segnali della volontà del Governo di affrontare il tema dell’energia nella sua complessità. Il ministro ha insistito su tre linee di messaggio: attribuire grande importanza all’efficienza energetica; ridimensionare il contributo alle fonti rinnovabili, considerandole complementari e non certo sostitutive dei fossili; raddoppiare la produzione nazionale di idrocarburi e fare dell’Italia l’hub del gas in Europa, lasciando sostanzialmente inalterata la dipendenza del sistema dei trasporti dal petrolio.

Passera conta non poco ed è assieme a Monti l’uomo più vicino alla filosofia della “troika” (Bce, Fmi, Commissione Ue). Sicuramente condivide la funzione che il mondo finanziario ha ancora ultimamente assegnato al nostro Paese nella divisione internazionale della produzione (e del lavoro). Ruolo rigidamente previsto, per cui l’Italia diventerebbe, con il sostegno del fondo per la sicurezza energetica messo a disposizione dalla Ue, il punto di transito e di stoccaggio di gas e petrolio per l’Europa. Oltre a diventare il luogo di concentrazione della logistica per le merci di passaggio dai nuovi centri di produzione (il progetto della Tav Torino-Lione è del tutto coerente con questa logica).

Per il freddo calcolo dei banchieri al Governo una politica energetica “low carbon” è da sognatori e il ripensamento imposto dal referendum un incidente da metabolizzare quanto prima. In effetti, c’è intima coerenza tra l’azione e la speculazione del mondo finanziario e il sostegno al modello energetico attuale. Ed è fuor di dubbio che il sistema delle grandi banche tragga profitto dal rallentamento e dalla non diffusione delle fonti rinnovabili.

Basta ragionare sulla struttura di un mercato collaudatissimo. Per il brent, e in parte il gas, si è costituito un mercato nel quale si fa finta di comperare e vendere barili di petrolio in base a scambi che dovrebbero fissare il prezzo di tutti i tipi di petrolio prodotti nel mondo. Ma non si tratta di scambi in materia: si comperano e vendono semplicemente dei contratti di carta, che nominalmente fanno riferimento a un volume “teorico” di petrolio (1000 barili per ogni contratto), ai quali non è associata la proprietà effettiva di alcuna merce. Ogni giorno, come documenta G.B. Zorzoli, si effettuano transazioni per un ammontare di circa 500 miliardi di dollari, in un mercato non trasparente, in mano alle maggiori istituzioni finanziarie mondiali che, spostando masse monetarie gigantesche, riescono a influenzarne l’evoluzione.

I grandi manovratori dei mercati finanziari hanno quindi a disposizione un’enorme massa monetaria che attrae o respinge investitori, generando profitti incommensurabili. La liquidità per queste operazioni è resa disponibile dai grandi istituti di credito, che non finanziano più le attività delle imprese, perché investono di preferenza al di fuori dell’economia reale le enormi somme che la Bce ha messo loro a disposizione a interessi irrisori. Somme formalmente elargite per comprare titoli di stato ma, di fatto, dirottate in ben altra direzione. Perché mai impiegare denaro, dato praticamente gratis in prestito, per comperare bond che fruttano il 4-8%, quando lo stesso denaro può rendere il 30-100% se va a finanziare il settore delle fonti fossili? Cosa c’è di più insidioso del progetto di sostituzione delle rinnovabili al sistema attuale?

L’attuale Governo non è certo nato per rinunciare a un gioco con una posta così alta, ma per farne parte. E non ipotizza neanche di lanciare una politica industriale di riconversione ecologica che, ponendo al centro rinnovabili e mobilità sostenibile, richiederebbe linee di credito trasparenti e basate sul consenso sociale. Perché cambiare, quando la “manna” del petrolio e del gas può giungere alle bocche dei soliti investitori con il corredo ulteriore di nuove centrali, condotte, navi, rigassificatori, stoccaggi sotterranei, perforazioni senza tregua? Il futuro per l’Italia è il riciclo del passato, come nei fatti sostengono Scaroni e Gros-Pietro (manager energetici intramontabili sotto qualsiasi governo politico o tecnico si sia succeduto), quando fin da ora optano per il gas non convenzionale (shale gas), che peggiora il bilancio di CO2, ma nelle loro speranze allontana nel tempo la parity grid a cui tende il temutissimo fotovoltaico. Dove è finita la lungimiranza di cui tutti invochiamo il ritorno, quando riflettiamo sulla crisi climatica e occupazionale? C’è la crisi – ci viene ripetuto – e la crisi la devono pagare sempre gli stessi. Ne deve uscire intatta solo l’imprevidenza che l’ha generata.

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