Tariffe, incentivi, bollette: facciamo i conti

da Il Fatto Quotidiano – 4 luglio 2013

di Mario Agostinelli

Dal 6 luglio non è più previsto alcun incentivo per i nuovi impianti fotovoltaici. Questo non significa la fine della storia delle celle solari in Italia, anche se qualcuno vorrebbe decretarne la marginalità.

Certo, la campagna contro le rinnovabili incrementerà la sua recrudescenza e, con il sostegno di Assoelettrica,  si cercherà di alzare  l’asticella della “parity grid” e di ostacolare i necessari processi di decarbonizzazione. Sono parecchi gli indizi di una svolta involutiva e di un ritorno al passato. La miopia della Strategia Energetica Nazionale, varata alla chetichella e sotto la sponsorizzazione delle lobby dei fossili, si è trasformata in orientamento anche del connivente governo delle “larghe intese”. L’asservimento della stampa e dei media alla campagna contro gli incentivi alle rinnovabili ha portato il dibattito pubblico a considerare i 6,7 miliardi di euro l’anno per il fotovoltaico come sinonimo di “spreco” o di “bolla speculativa che ha favorito gli stranieri”, con un accanimento che va dal Corriere  ai giornali di provincia. Da ultimo, l’Authority per l’Energia, anziché dare un contributo positivo all’attuazione dei traguardi fissati per L’Europa dal pacchetto 20-20-20 e ai profondi mutamenti legati all’intensa penetrazione delle rinnovabili e allo sviluppo di nuove tecnologie, tratta la generazione distribuita come fuga dal mercato e addita nel sostegno alle fonti naturali la responsabilità delle alte tariffe che gravano su cittadini e imprese. Forse trascura che almeno 25 terawattora di produzione fossile presso gli insediamenti storici della manifattura italiana sono da sempre esentati dalla copertura dei costi del sistema elettrico e ricadono in bolletta.

A questo proposito Legambiente ha elaborato un dossier che individua oltre 5 miliardi di Eurodove si potrebbe intervenire subito, tra sussidi alle fonti fossili, oneri impropri, sconti in bolletta ai grandi consumatori di energia elettrica. Secondo poi l’Irex Annual Report 2013 il bilancio costi-benefici della crescita delle rinnovabili, considerando dunque la spesa per gli incentivi e i vantaggi (riduzione prezzo elettricità, rischio petrolio, emissioni di CO2, effetti sull’occupazione e sul Pil), è ampiamente positivo con benefici netti compresi tra 19 e 49 miliardi. Stessa cosa non si può dire per i 52 miliardi di euro che complessivamente abbiamo regalato e stiamo continuando a regalare a inceneritori e centrali inquinanti e da fonti fossili, attraverso il meccanismo del CIP 6 pagato con le bollette.

In definitiva, secondo i calcoli più precisi, su un totale di una bolletta tipo per una famiglia (511 €/anno), cresciuta di ben il 53% in dieci anni, gli incentivi per le rinnovabili sarebbero pari al 16%: poco meno di 7 € a famiglia ogni mese, mentre la differenza di prezzo con l’Europa è dovuta soprattutto al prezzo del gas e alla valutazione del petrolio.

Il colmo arriva ora con un documento dell’Authority (DCO 183/2013/R/EEL) rispetto alla generazione distribuita. In base ad esso i costi di mantenimento e sviluppo della rete e del sistema elettrico (inclusa l’incentivazione delle rinnovabili) non devono più essere ripartiti in base all’utilizzo del sistema (misurato dai prelievi di elettricità dalla rete), ma dei consumi: se copro quindi parte del mio fabbisogno con un impianto fotovoltaico sul tetto, questa diventerebbe base imponibile incrementale rispetto a quella intercettata dal contatore! In sostanza, l’energia che viene prodotta, consumata e/o venduta senza passare dalla rete, dovrebbe pagare gli oneri di utilizzo della rete stessa. Insomma, si incolpano le rinnovabili di delitti altrui, senza considerare i benefici diretti (riduzione del prezzo dell’elettricità nelle ore di punta quando c’è tanto sole e riduzione delle importazioni di fonti fossili) e quelli indiretti (legati alla riduzione dell’inquinamento e delle emissioni di gas climalteranti).

Ci sarebbe invece bisogno di un provvedimento per la vendita diretta di energia tra privati e la messa a punto di norme per promuovere i sistemi di accumulo, come sta avvenendo in altri paesi europei, affinchè non si perda quest’opportunità industriale e occupazionale, riguardo a una tecnologia nella quale l’Italia è all’avanguardia. Occorre dare una scossa ad interessi e governi pigri e incapaci di guardare lontano. Dal mondo scientifico, del lavoro e ambientalista è partito un appelloper una inversione di tendenza. La sua diffusione e un sostegno convinto ad esso sono un contributo per non ricadere nella trappola di chi ci vuol far camminare con la testa rivolta dietro le spalle.

Competizione tra energia e cibo. La produzione di energia da biogas nella Pianura Padana

Giovanni Carrosio – gcarrosio@units.it 

 

Introduzione

Le competizione per la terra è un fenomeno molto complesso, frutto dell’interazione di una molteplicità di fattori che ne sono la causa. Produzioni feed-food, infrastrutture, urbanizzazione, attività estrattive, conservazione ambientale sono gli utilizzi del suolo che in un paese carente di grandi spazi aperti come l’Italia entrano in competizione. Alla tradizionale competizione per la terra, da qualche anno si è aggiunto anche il fattore energetico.
Negli ultimi anni, la pianura Padana ha visto il proliferare di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Fotovoltaico a terra, impianti a biogas, centrali a biomasse sono le principali tecnologie che implicano un utilizzo diretto e indiretto di suolo. Gli impianti fotovoltaici occupano direttamente terreno agricolo, mentre biogas e biomasse hanno bisogno di vaste estensioni per la coltivazione di colture energetiche dedicate.
Le differenti possibili destinazioni d’uso dei terreni stanno dando vita ad una competizione per la terra, che è frutto della combinazione di diversi fattori: a livello globale sta crescendo e cambiando drasticamente la domanda di prodotti alimentari, si stanno modificando i modi di approvvigionamento energetico a causa dell’esaurirsi delle risorse fossili e gli organismi di governo, su diversi livelli, adottano politiche per contrastare il cambiamento climatico che hanno conseguenze secondarie sull’utilizzo della terra. Politiche per il clima, fabbisogno energetico ed alimentare sembrano non trovare una integrazione sostenibile sui territori, tanto è vero che a livello internazionale si inizia a parlare di “food-energy-environment trilemma” (Tilman e altri, 2009).
La questione è molto complessa e difficile da districare. Il land use change (Luc) diventa complesso in un sistema nel quale interagiscono mercati locali e mercati internazionali delle commodities, per cui le modificazioni d’uso dei terreni non sono immediatamente visibili a livello locale, ma si manifestano in modo indiretto (iLuc), coinvolgendo luoghi diversi del pianeta. Per questo motivo l’articolo intende circoscrivere l’ambito di analisi alla produzione di energia da biogas nel Nord Italia, per provare a tracciare alcune dinamiche e comprendere i nessi causali tra modi di organizzare la produzione di energia e conseguenze nell’utilizzo del suolo. Gli obiettivi sono perciò minimi rispetto alla complessità del tema della food-fuel competition: capire quali legami esistono tra stili organizzativi della produzione di energia da biogas e consumo di suolo. La competizione con il cibo viene vista da un punto di vista quantitativo, ma anche da un punto di vista qualitativo, indagando il legame tra energia e filiere di qualità.

Land use change ed energie rinnovabili

Il tema della competizione per l’utilizzo della terra ha riacquistato una rilevanza nella letteratura internazionale a partire dalla diffusione massiccia delle energie rinnovabili. In particolare, la maggior parte degli studi si concentra sulle conseguenze della diffusione degli agrocarburanti su scala industriale, considerati come principali competitori della produzione di cibo (Carrosio, 2011). A livello italiano, tuttavia, è stata rivolta poca attenzione a questo problema. Nel nostro paese pochi terreni sono stati convertiti a colture energetiche destinate alla produzione di agrocarburanti, ma si sono diffusi in maniera molto rapida impianti a biomasse, digestori per la produzione di biogas e grandi impianti per il fotovoltaico a terra. Essi, in forme diverse, implicano l’utilizzo di vaste porzioni di terreno. Nel caso del fotovoltaico abbiamo una occupazione diretta di terreno per l’installazione dei pannelli (Frascarelli e Ciliberti, 2011). La diffusione di grandi impianti a terra ha avuto una accelerazione grazie a tariffe incentivanti molto allettanti per i grandi investitori, ma ha subito una brusca frenata in seguito alla revisione delle modalità di incentivazione. Gli impianti a biomasse, invece, sono spesso localizzati nelle aree industriali, ma richiedono grandi porzioni di territorio per il loro approvvigionamento. Esse possono essere alimentate da biomasse legnose provenienti dalla gestione locale dei boschi (Carrosio, 2010), da short rotation forestry, da sottoprodotti delle lavorazioni industriali come gli scarti di segheria o agroindustriali come i gusci di nocciola. Nel caso dell’utilizzo di piante a crescita rapida o di colture energetiche come il miscanto, solitamente il raggio di approvvigionamento è prossimo alla centrale, ma spesso il cippato legnoso proviene dai mercati internazionali.
Gli impianti a biogas, invece, utilizzano soprattutto un mix di deiezioni animali e colture dedicate. Mais, sorgo e triticale sono le colture a più alta resa durante il processo di digestione anaeorobica. Il raggio di approvvigionamento è solitamente prossimo al digestore, per ottimizzare i costi di produzione e per avere stabilità nei costi delle materie prime. A livello quantitativo, si tratta della fonte di energia rinnovabile che ha il più alto impatto sull’utilizzo dei suoli nel nostro Paese. Anche per questo, sono ormai decine i comitati di cittadini che si oppongono in maniera più o meno radicale alla autorizzazione di alcune tipologie di impianti, in particolare gli impianti molto standardizzati con taglia 999 KW, che si sono diffusi come conseguenza di una incentivazione statale molto generosa (Carrosio, 2012).
Per ogni tipo di fonte energetica e di materia prima utilizzata, perciò, si aprono scenari differenti per quanto riguarda il consumo di suolo. In alcuni casi le biomasse vengono coltivate in ambiti locali, in altri casi vengono importate incidendo sul consumo di suolo in altri paesi, in altri casi provengono dagli scarti di altre lavorazioni, trovando una integrazione nelle filiere agroindustriali.
I due concetti che vengono utilizzati in letteratura per indagare il rapporto tra cibo ed energia (ma in particolare per valutare il bilancio di emissioni di CO2 delle produzioni agroenergetiche) sono land use change e indirect land use change. Il primo indica il cambio diretto di destinazione d’uso dei suoli, come è ad esempio la sostituzione di una coltura con un’altra, oppure l’occupazione da parte di colture energetiche (o pannelli fotovoltaici) di una porzione di terreno utilizzata in precendenza a scopi alimentari. Il Luc è facilmente misurabile, in quanto visibile. L’iLuc, invece, indica il cambio indiretto di destinazione d’uso di un terreno ed è conseguenza del Luc. Ad esempio, quando si occupa un terreno con pannelli fotovoltaici, le colture presenti in precedenza devono essere reperite altrove, incidendo perciò sull’utilizzo dei terreni in altre aree più o meno lontane (Carrosio, 2012b). Questo secondo fenomeno è nella maggior parte dei casi difficilmente tracciabile e misurabile, e le conseguenze dipendono molto da quale tipo di ordinamento si è andati a intaccare.
Anche per provare a capire come la diffusione del biogas in Italia possa incidere su land use change e indirect land use change, è importante indagare i modelli socio-organizzativi con i quali gli impianti di produzione di energia prendono forma: a seconda delle modalità di organizzare l’approvvigionamento e l’utilizzo delle biomasse, esistono conseguenze anche molto differenti nell’utilizzo della terra e nel rapporto con le altre destinazioni che le colture agricole possono avere.
Oltre a questo tipo di considerazioni, esiste un secondo modo di approcciare la relazione tra produzione di energia e cibo. Si tratta di capire se l’ingresso del sistema energetico all’interno dei sistemi agroalimentari possa portare a mutamenti di carattere qualitativo, incidendo nelle filiere che si contraddistinguono per la qualità dei prodotti finiti. Ad esempio, il cambio di ordinamento colturale (da feed energy crops) può fare sì che l’alimentazione nella zootecnia si apra a mercati esteri difficili da tracciare, o ancora che alcune pratiche legate ai digestori di biogas portino ad un indebolimento e dequalificazione delle filiere. Facciamo riferimento, in questo caso, al dibattito sul rapporto tra digestato e fertilità dei suoli e tra digestato e proliferazione dei clostridi nel Parmigiano Reggiano.
Nei prossimi due paragrafi, affronteremo le due tematiche, ovvero la relazione cibo energia da un punto di vista quantitativo (come cambia l’utilizzo dei suoli) e da un punto di vista qualitativo (quali conseguenze sulle filiere agroalimentari di qualità).

Impianti a biogas e occupazione di terreno agricolo

Le tipologie di impianti a biogas (potenza installata e matrici utilizzate per l’alimentazione del digestore) e l’evolversi dei modelli organizzativi nel corso degli anni sono in larga misura funzione dell’intreccio di più dimensioni: le politiche di incentivazione per la produzione di energia elettrica e la presenza o meno di normative regionali, tese a regolamentare la diffusione degli impianti sui territori; gli stili aziendali delle singole aziende agricole (van der Ploeg, 1994) nelle quali è stato adottato l’impianto e l’esistenza di aree più o meno caratterizzate da filiere agroalimentari di qualità, nelle quali vigono disciplinari di produzione, come il Parmigiano Reggiano.
Tutti gli impianti installati al 31/12/2012 hanno avuto, come regime di incentivazione, un sistema tariffario che ha favorito soprattutto la diffusione di impianti da 999 KW, grazie alla tariffa omnicomprensiva di 28 centesimi a KWh (per i dettagli vedi Carrosio, 2012a).
Il sistema incentivante si è integrato con gli stili aziendali prevalenti delle aziende zootecniche, orientate ad una continua modernizzazione del proprio sistema produttivo, attraverso l’introduzione di nuove tecnologie che portano ad una sempre più marcata artificializzazione (Altieri, 2002). Il problema dei nitrati, ad esempio, non viene risolto recuperando una proporzione tra numero di capi e terreni disponibili per lo spandimento, ma viene affrontato grazie ad una escalation tecnologica: la produzione di energia da biogas diventa funzionale all’installazione di uno strippatore di ammonio, sistema molto energivoro per abbattere i nitrati che consente di riportare l’azienda nei parametri imposti dalla direttiva Nitrati.
Gli impianti da 999 KW, molto standardizzati, funzionano nella quasi totalità grazie ad un mix di deiezioni animali (20%) e colture energetiche (80%). Mais, sorgo e triticale vengono coltivati in prossimità dei digestori, sostituendo la produzione di mais per l’alimentazione animale. In media, un impianto di questa taglia, ha bisogno di 200 ettari di terreno coltivati a colture dedicate. Si stima che nel Nord Italia, gli impianti a biogas di questa taglia siano circa 300, per un totale di circa 60.000 ettari di terreno dedicato (Carrosio e Osti, 2012). Non abbiamo la possibilità di definire con certezza come questa occupazione di terreno abbia inciso sulle dinamiche locali ed extralocali in termini di cambio di destinazione d’uso dei suoli. Sicuramente nella maggior parte dei casi, questi terreni erano precedentemente coltivati per la produzione di mangimi animali. Mangimi che ora devono essere reperiti altrove.
Emerge perciò, come impianti medio-grandi che utilizzano anche matrici vegetali per il funzionamenti dei digestori, portino ad una pressione sulla terra: le colture energetiche sostituiscono quelle dedicate alla alimentazione animale, che devono essere approvvigionate sul mercato.
Impianti di taglia inferiore, invece, organizzati secondo una logica di chiusura dei cicli aziendali e alimentati esclusivamente a deiezioni animali non hanno alcun tipo di impatto sull’utilizzo della terra. L’ordinamento colturale non subisce modifiche e la produzione di energia viene concepita come uno strumento di chiusura di alcuni cicli ecologici.

La questione dei clostrìdi: un caso di trade-off tra politiche energetiche e sistemi agricoli di qualità

Un secondo aspetto, più qualitativo, è il rapporto tra produzione di energia da biogas e filiere agroalimentari di qualità. Il diffondersi di impianti medio-grandi che utilizzano come matrici sia effluenti zootecnici che insilati di sorgo o mais, ha aperto un dibattito sul rischio di proliferazione dei clostridi nelle catene alimentari.
Facciamo riferimento all’acceso dibattito emerso attorno alla Delibera numero 51 del 26 luglio 2011 dell’Assemblea legislativa dell’Emilia Romagna, che ha definito le disposizioni per la localizzazione degli impianti a biogas, introducendo livelli di attenzione particolare per il territorio regionale che rientra nell’area del Parmigiano Reggiano. Questo territorio non è considerato idoneo agli impianti che “utilizzano silomais o altre essenze vegetali insilate, fatto caso il residuo del processo di fermentazione (digestato), tal quale o trattato, avvenga in terreni ubicati all’esterno del medesimo comprensorio”. Questa decisione è stata presa per evitare un incontrollabile incremento della contaminazione con spore di clostridi degli ambienti di produzione del latte, a seguito dell’utilizzo di insilati in associazione a effluenti zootecnici negli impianti a biogas e successivo spandimento dei digestati sui terreni a foraggere destinate all’alimentazione delle bovine da latte. I clostridi si moltiplicano durante la digestione anaerobica ed entrando nelle catene alimentari interferiscono con il processo di fermentazione del Parmigiano Reggiano, generando anidride carbonica all’interno delle forme.
All’origine dell’intervento della regione Emilia Romagna vi è uno studio del Crpa (2011) teso a verificare gli effetti del processo di digestione anaerobica sulla presenza di spore di clostridi introdotte negli impianti a biogas tramite liquami e colture dedicate. La sperimentazione ha dimostrato come il digestato proveniente dalla digestione di soli liquami abbia un contenuto di spore nettamente inferiore rispetto a quello ottenuto da liquami addizionati di insilati. In sostanza, nel caso di soli liquami le spore non si riproducono in modo significativo durante il processo anaerobico, ma nel caso in cui si utilizzino anche colture dedicate si è registrato un aumento importante. Per questo motivo la regione ha cercato di evitare la produzione di biogas da insilati nelle aree soggette al disciplinare del Parmigiano Reggiano per scongiurare conseguenze negative sulla filiera di un prodotto così importante per l’economia agroalimentare locale.
La questione è però ancora molto dibattuta e coinvolge movimenti di protesta sorti attorno alla costruzione di impianti a biogas che utilizzano insilati di mais. Alcuni ritengono che il regolamento della regione non sia abbastanza stringente, altri sostengono che sia parimenti critica la produzione di biogas anche soltanto con liquami zootecnici (Sahlström, 2003), sottolineando come durante la fermentazione anaerobica le spore di clostridi si trovino in una condizione ottimale per moltiplicarsi.
La critica al regolamento si muove a partire dalla possibilità degli allevatori aderenti al consorzio del Parmigiano Reggiano di reperire il 25% del foraggio all’esterno del comprensorio della Dop, sia in Italia che all’estero. Su questo foraggio è difficile mantenere il controllo e potrebbe anche provenire da aziende che producono biogas attraverso insilati, spargendo poi il digestato sui terreni.
La regione Piemonte, sulla scorta delle problematiche sorte in conseguenza della diffusione degli impianti, ha deliberato un disciplinare su tutti gli impianti a biomasse, introducendo delimitazioni molto importanti per le aree coinvolte nelle coltivazioni di prodotti di qualità. Le linee guida limitano di molto la possibilità di produrre energia da biogas con insilati nelle aree dove vi siano produzioni di qualità e filiere agroalimentari pregiate.

Considerazioni finali

Sul tema della competizione tra cibo ed energia vi è ancora molto da fare. In questo articolo, riducendo il campo di indagine al settore del biogas agricolo in Italia, abbiamo più che altro impostato un ragionamento metodologico su come affrontare la questione introducendo degli elementi di natura più qualitativa. Il rapporto tra produzione di cibo e di energia non si esaurisce, infatti, con il tema della competizione per l’utilizzo della terra, sul quale è necessario avere più conoscenze per riuscire a quantificare in modo rigoroso i cambiamenti nelle destinazioni d’uso. Bisogna indagare quali sono le conseguenze dell’intreccio tra sistemi energetici nascenti e sistemi agricoli sedimentati: nel caso che abbiamo accennato, se l’introduzione di tecnologie per la produzione di energia e alcuni modi di organizzare i processi possono incidere sulle filiere agroalimentari determinando inediti effetti secondari negativi. Sul tema specifico siamo di fronte ad una controversia, che coinvolge saperi esperti e ha risonanza pubblica attraverso l’azione di movimenti di protesta che per svariati motivi si oppongono alla realizzazione di alcuni impianti. Probabilmente alcuni sottovalutano il rischio della proliferazione dei clostridi ed altri lo sopravvalutano, ma è difficile come osservatori dipanare la questione e capire dove si potrebbe collocare la posizione più verosimile. Come in ogni controversia scientifica, è difficile capire dove inizia e dove finisce la neutralità del sapere scientifico e dove invece agiscono gli interessi degli attori in campo.
Di fatto, le politiche di incentivazione hanno già accolto alcune istanze di chi ha sviluppato ragionamenti critici sulla proliferazione degli impianti: i nuovi sistemi di incentivazione premiano gli impianti di taglia inferiore e che utilizzano i sottoprodotti anziché le colture dedicate, perseguendo una logica di integrazione (e non competizione con i sistemi agroalimentari). Fino ad oggi, però, gli impianti operativi sono sorti sulla scia del vecchio sistema di incentivazione e sarà necessario mantenerli monitorati per capire come e se interferiranno sul medio-lungo periodo.

Riferimenti bibliografici

  • Altieri M.A. (2002), “Agroecology: the science of natural resource management for poor farmers in marginal environments”, in Agriculture Ecosystems and Environment, vol. 93, pp. 1-24
  • Carrosio G. (2010) Biomasse: Dobbiaco e Campo Ligure, in Osti, G. (a cura) La co-fornitura di energia in Italia. Casi di studio e indicazioni di policy, pp. 77-89, Edizioni Università di Trieste, Trieste
  • Carrosio G. (2011) I biocarburanti. Globalizzazione e politiche territoriali, Carocci, Roma
  • Carrosio G. (2012) La produzione di energia da biogas nelle campagne italiane: una storia di isomorfismo istituzionale, in Studi Organizzativi, numero 2/2012 (in corso di stampa)
  • Carrosio G. (2012) Beyond the Sustainability of Exception: Setting Bounds on Biofuels, Sociologica, numero 2/12
  • Carrosio G., Osti, G. (2012) Conflitto cibo-energia ed oltre: il caso degli impianti a biogas del Nord Italia, in Agricoltura Istituzioni Mercati, numero 2/3 (in corso di stampa)
  • Crpa (2011), biogas e Parmigiano Reggiano: una coesistenza possibile?, in I supplementi di Agricoltura, numero 48, pp. 24-28
  • Frascarelli A., Ciliberti S. (2011), Impianti fotovoltaici a terra. C’è convenienza fino al 2013, Terra e Vita, n. 34, Bologna
  • Ploeg van der, J.D. (1994), “Styles of farming: an introductory note on concepts and methodology”, in Ploeg van der (eds) Born from within: practice and perspectives of endogenous rural development, Assen, Van Gorcum
  • Tilman, D., Robert H. Socolow, J. A. Foley, J. Hill, Eric Larson, L. R. Lynd, Stephen W. Pacala, J. Reilly, Timothy Searchinger, C. Sommerville, and Robert H. Williams (2009) Beneficial Biofuels – The Food, Energy, and Environment Trilemma. Science, Washington, D.C., American Association for the Advancement of Science, 325(5938), doi:10.1126/science.1177970 270-271

EnergiaFelice sulle tariffe elettriche

                                                                                  All’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas

 

Al Ministro dello Sviluppo Economico

Al Ministro dell’Ambiente

Ai Capigruppo Parlamentari

 

 

Spett.li Signori,

in riferimento alla consultazione aperta sul documento dell’AEEG DCO 183/2013/R/EEL, sui Sistemi Efficienti di Utenza (SEU) , come singole persone interessate dalle questioni in oggetto, ed anche in rappresentanza delle associazioni indicate, vogliamo sottolineare l’incongruenza delle modifiche richieste dall’Autorità al Dlgs n. 115/08 modificato dal Dlgs 56/2010, in merito al pagamento dei corrispettivi tariffari di trasmissione e di distribuzione, nonché quelli di dispacciamento e di copertura degli oneri generali di sistema.

 

Che questi oneri non debbano essere pagati sull’energia autoprodotta e autoconsumata, mentre sono giustamente previsti per l’energia prelevata dalla rete esterna, è chiaramente indicato dalla legislazione vigente (peraltro non completamente applicata a causa del ritardo nell’emanazione della parte normativa, per responsabilità dell’Autorità stessa).

 

La ratio è molto evidente, l’energia che viene prodotta, consumata e/o venduta senza passare dalla rete, perché dovrebbe pagare gli oneri di utilizzo della rete?

A questo va aggiunto che lo sviluppo della produzione e del consumo diretto di energia elettrica da fonti rinnovabili e/o da cogenerazione rappresenta un vantaggio per il sistema energetico del nostro paese, che necessariamente dovrà sempre più andare verso un modello di generazione distribuita che usi razionalmente e nel modo più efficiente tutte le risorse disponibili, contenendo in questo modo le importazioni di combustibili fossili e, di conseguenza, le stesse emissioni inquinanti.

 

Siamo pertanto contrari, nella maniera più ferma, a queste modifiche che avrebbero il solo effetto di attaccare ulteriormente, (dopo la fine degli incentivi del conto energia e altre misure previste dal decreto “fare”) lo sviluppo delle fonti rinnovabili, allontanando la grid parity, favorendo contemporaneamente i produttori da fonti convenzionali, che invece dovrebbero adeguare progressivamente il loro mix produttivo verso l’incremento delle fonti rinnovabili.

 

Chiediamo invece che vengano emanate tempestivamente le norme attuative sui SEU e sia resa possibile la vendita diretta di energia tra privati; contemporaneamente andrebbero messe a punto norme per promuovere i sistemi di accumulo, come sta avvenendo in altri paesi europei, affinchè non si perda quest’opportunità industriale e occupazionale, riguardo a una tecnologia nella quale l’Italia è all’avanguardia.

 

Consideriamo questa breve nota non solo un contributo alla consultazione sul documento dell’Autorità, ma anche una precisa richiesta ai Ministeri competenti e un invito a tutti i Parlamentari  a non modificare le norme vigenti nel senso indicato dall’Autorità.

 

Sottoscrivono:

 

 

 

Roma, 27giugno 2013

La guerra dello shale gas

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano – 24 giugno 2013

Le nuove tecnologie di estrazione e di impiego dei fossili incontrano crescenti resistenze e sollevano obiezioni prima ancora del loro impiego massiccio. Vale per le perforazioni e per lo spappolamento delle rocce per ottenere gas di scisto e per le ipotesi di sequestro della CO2 a valle della combustione del carbone. Essendo tuttora imprecisato l’impatto ambientale di questi processi ad alta entropia – anche se è fuor di dubbio che l’analisi del ciclo di vita di filiere così complesse ne metta in discussione la praticabilità – è un atteggiamento culturale e politicoquello che fa propendere per la loro affermazione o il loro rifiuto.

Così, nel caso dello shale gas, la prospettiva di una futura indipendenza energetica e l’indebita tolleranza per l’esternalizzazione dei costi ambientali, fa assumere al governo americano una posizione di assoluto sostegno, mentre porta la Commissione europea a tergiversare sulle prospettive di fracking nel vecchio continente. C’è perfino un fondo culturale nella diversità di approccio: in Europa il principio di precauzione vincola a considerare preventivamente gli effetti sulla vita e l’ambiente dell’introduzione di nuove tecnologie e a non ridurre la discussione sui possibilivantaggi agli artifici finanziari e di dumping valutario che possono favorire un abbassamento dei prezzi sul mercato, a discapito della salute o della sopravvivenza stessa.

È in atto un autentico assalto delle lobby americane, appoggiate in particolare dalla Polonia e, meno esplicitamente, dall’Inghilterra, per far entrare nell’agenda politica europea i combustibili fossili non convenzionali. Si è svolta una consultazione pubblica, i cui risultati sono stati presentati dalla Direzione ambiente della Commissione il 7 giugno, che ha potuto dimostrare come oltre il 60% degli intervistati è contrario allo sviluppo di shale gas in Europa. La grande maggioranza delle risposte concorda sulla mancanza di una legislazione adeguata, il bisogno di informazione del pubblico e la mancanza di accettazione popolare di un rilancio di combustibili fossili.

Nonostante l’opposizione della cittadinanza, i media anche nel nostro Paese propongono l’ipotesi di un vantaggio sulla bolletta elettrica (è quello che in maniera poco trasparente il ministro Zanonato ha assicurato per i costi dell’energia, facendo intendere che, mentre le rinnovabili pesano sulle tariffe al consumatore finale, tutti beneficeranno della riduzione presunta del prezzo del gas comprato sulla piazza olandese).

Numerose analisi dei potenziali effetti del gas da scisto sulla convenienza all’acquisto sono molto caute e arrivano a valutare, secondo uno studio dell’Agenzia internazionale per l’energia, che icosti di produzione in Europa siano due volte superiori a quelli degli Stati Uniti, anche perché ci sono importanti differenze geologiche e geografiche, oltre ad una maggiore densità di popolazione.

In queste settimane ha fatto molto scalpore un documento di esperti tedeschi che definiscono il fracking inutile e rischioso, dubitando che lo sviluppo di shale gas sia economicamente redditizio e utile per la transizione energetica del loro Paese, derivante dalla decisione di chiudere tutti i reattori nucleari entro il 2022. Essi, in particolare, mettono in discussione la tecnologia stessa e chiedono un procedimento europeo per la valutazione dell’impatto ambientale.

Secondo loro, il fracking dovrebbe limitarsi a essere utilizzato in progetti pilota, con una valutazione obbligatoria dei suoi effetti ambientali e con “stretto monitoraggio scientifico”. Questi tipi di progetti dimostrativi dovrebbero essere pianificati e attuati in modo trasparente, coinvolgendo il pubblico e in conformità con il principio “chi inquina paga”. I costi derivanti, poi, dovrebbero essere a carico del settore di estrazione Questi esperti concludono che, poiché non vi è ancora alcuna analisi completa del ciclo di vita, è incerta perfino la questione se lo shale gas  abbia un’impronta di carbonio inferiore a quella del carbone. Tenendo conto di tutti i requisiti di sicurezza necessari, il potenziale di shale gas sfruttabili in Germania, in Italia e in Francia è così piccolo che non avrebbe alcun impatto sui prezzi energetici regionali. Allora perché farne il perno delle future strategie energetiche, compresa la nostra SEN, sottratta al dibattito pubblico e infilata sotto il tappeto delle “larghe intese”?

Gli Stati Uniti sono esplicitamente per l’estrazione di gas di scisto su larga scala. E ne sostengono l’espansione come un tratto della loro egemonia negli anni futuri. Tuttavia, non è certo per quanto tempo continueranno a farlo, anche perché è del tutto possibile che assistiamo già ora ad una bolla che potrebbe scoppiare in pochi anni. Qual è la nostra convenienza? E quale conseguenza sull’accelerazione del cambiamento climatico? Perché non discuterne? In questo Paese dov’è la classe dirigente e perché spetta sempre e solo ai movimenti preoccuparsi responsabilmente del futuro?

Per un modello energetico sostenibile e distribuito, per un mondo senza nucleare.

UN NUOVO MODELLO ENERGETICO PER IL LAVORO, LA  RICERCA, LA SALVAGUARDIA DEL CLIMA, A DUE ANNI DALLA VITTORIA AL REFERENDUM CONTRO IL NUCLEARE

Presentazione dell’Appello unitario di esponenti del  mondo scientifico, del  lavoro,  dell’ambientalismo, della società civile.

Si terrà lunedì 24 giugno, alle ore 11.30, presso l’auletta del CIRPS, piazza S. Pietro in Vincoli 10, a Roma, una conferenza stampa convocata dal comitato “Si alle energie rinnovabili NO al nucleare”, nella quale sarà presentato l’appello “Per un modello energetico sostenibile e distribuito, per un mondo senza nucleare”.

 

Nel testo, che registra una non scontata, ma promettentissima alleanza fra esponenti del mondo scientifico, del mondo del lavoro,  dell’ambientalismo e della militanza sociale, si disegna un futuro energetico di fuoriuscita dai fossili, con un realistico approccio alla riconversione ecologica dell’economia e un richiamo al protagonismo sociale che è indispensabile per continuare a seguire un cammino democratico, conseguente  all’espressione della maggioranza degli italiani chiamati alle urne solo due anni fa’”.

 

Per un modello energetico sostenibile e distribuito,

per un mondo senza nucleare.

L’appello si colloca in una fase decisiva per le politiche energetiche e industriali, per l’attività di ricerca, per contrastare il cambiamento climatico. Il governo Monti ha proposto, a “tempo scaduto”, una Strategia Energetica Nazionale (SEN), che è stata per il momento assunta anche dal governo Letta, che, in definitiva,  rispecchia gli interessi dell’ENI e dell’Enel e dei finanziatori delle infrastrutture (gasdotti, depositi etc.), dà il via libera alle trivellazioni per il petrolio, e promuove il carbone come alimentazione delle centrali termoelettriche”. Al contrario, l’appello, in sintonia con le scelte europee, traccia il percorso di effettiva riduzione delle emissioni climalteranti; quindi prevede  l’alt al carbone, alle trivellazioni per il petrolio e alla proliferazione di rigassificatori e depositi del gas; un immediato impulso al risparmio, il decentramento degli impianti a fonti  rinnovabili, un piano per la ricerca nei settori energetici più avanzati, un piano industriale per l’attuazione della road map UE al 2030, in raccordo con i Piani energetici delle Regioni delle città, dei consorzi dei comuni.

 

Firme prestigiose sostengono l’appello e danno credito ad  un movimento articolato che veda protagonisti lavoratori, cittadini, movimenti e associazioni, e investendo tutti gli ambiti della produzione, del consumo, della organizzazione delle città, degli stili di vita collettivi e individuali”.

La crisi economica globale originata dal crollo finanziario del 2008, coi devastanti effetti occupazionali e sociali purtroppo ben noti nel nostro Paese, si è andata a sovrapporre alla crisi globale dell’ambiente, che ha nel cambiamento del clima il suo più attuale e drammatico riferimento.

Il coincidere di queste crisi avrebbe dovuto rimettere in discussione dalle fondamenta il modello di sviluppo, dal quale entrambe sono state generate, per muoversi con determinazione verso una tante volte evocata riconversione ecologica dell’economia e della società, attraverso una transizione difficile ma possibile.

In questa direzione si è espressa la maggioranza degli italiani solo due anni fa. Con la vittoria dei referendum sull’acqua pubblica e contro il nucleare, si è aperta una prospettiva che va anche oltre l’importanza indiscutibile delle due questioni, ancora aperte nella traduzione della volontà popolare in atti e leggi definitive: si è posto il problema della salvaguardia di alcuni “beni comuni” e “nuovi diritti”, che non possono essere governati solo dalle logiche del mercato.

Oggi questa battaglia deve continuare: analogamente alla ripubblicizzazione dell’acqua, che sta proseguendo con un articolato movimento dal basso, è necessario farla definitivamente finita col nucleare, in Italia e in Europa, anche introducendo una gestione trasparente e sicura (ad oggi non garantita dalla società deputata, Sogin) delle scorie, degli impianti e di quanto resta del ciclo nucleare.

Tuttavia non possiamo limitarci solo a questi importanti temi. Iniziative molto più corpose e propositive devono essere intraprese per effettuare il passaggio ad un nuovo modello di sviluppo. Parte significativa della transizione sarebbe compiuta se si imboccasse con decisione la strada dell’economia dei beni durevoli e sostenibili, in particolare nel settore energetico. L’attuale modo di produrre e consumare energia, con oltre l’80% di ricorso ai combustibili fossili su scala mondiale, è il massimo responsabile dell’incremento delle emissioni di CO2 e della sua concentrazione in atmosfera, alla base, appunto, dello sconvolgimento climatico.

Proprio per far fronte a questa situazione, che la rivista Nature denunciava nel 2012 come: “non è stata mai così grave”, la UE, dopo la convenzione di Aarhus, sui diritti alla giustizia ambientale, lanciò nel 2007 la strategia dei tre 20% al 2020, obiettivi vincolanti per i Paesi aderenti. Oggi in Europa, le road map e gli scenari in discussione vanno oltre le politiche del pacchetto “20 – 20 – 20” e chiedono obiettivi vincolanti al 2030 sulle emissioni di gas serra e sull’ energia: il taglio del 55% delle emissioni, rispetto al 1990; il contributo delle fonti rinnovabili al 45%; ulteriori misure di efficienza energetica per contenere la crescita dei consumi puntando alla completa “decarbonizzazione”, almeno della produzione elettrica, al 2050.

Dopo i referendum, non sentendosela di riproporre per la terza volta il nucleare, il governo Monti ha proposto, per di più a “tempo scaduto”, una Strategia Energetica Nazionale (SEN), che è stata per il momento assunta anche dal governo Letta. Ancora una volta, come in tutti i Piani Energetici Nazionali che si succedettero nel secolo scorso, la SEN rispecchia gli interessi aziendali dell’ENI e dell’Enel e dei finanziatori delle infrastrutture (gasdotti, depositi etc.), rispettivamente con il via libera alle trivellazioni per il petrolio, anche offshore, con la progettazione di facilities per il gas e con la promozione del carbone come alimentazione delle centrali termoelettriche. I colossali interessi di grandi gruppi prevalgono su quelli del Paese, dell’ambiente e della salute dei cittadini.

La proposta che la SEN fa poi dell’Italia come “hub” europeo del gas, non ha alcun assenso in sede UE – ogni Paese avendo una sua politica energetica raccordata solo parzialmente con gli altri –, e rivela la sua totale inconsistenza a fronte del nuovo ruolo che gli Stati Uniti stanno esplicitamente assumendo come leader mondiale per il gas, ottenuto nel loro sottosuolo tramite nuove tecnologie, soprattutto il “fracking”.

Ancora, in accoglimento delle lamentele, soprattutto degli operatori elettrici di Assoelettrica, per la competizione finalmente aperta nel settore elettrico dalle fonti rinnovabili, la SEN, col compiacente concorso dell’AEEG, ignora la gradualità con la quale vanno ridotti, sicuramente, gli incentivi (e sconfitte le speculazioni), deprimendo così gravemente uno dei pochi settori a forte sviluppo. L’Italia nel 2011 era stata la massima installatrice mondiale di Fotovoltaico, oggi, con la fine degli incentivi del V conto energia, servono misure regolamentari certe per mantenere lo sviluppo della filiera delle fonti rinnovabili .

È evidente che la SEN non è assolutamente in grado di far sì che l’Italia rispetti gli obiettivi europei del “20 – 20 – 20”.  Chiediamo quindi che il Governo Letta non dia corso a questa SEN e che invece vari una strategia energetica di transizione, che in sintonia con le scelte europee, sostenga:

•alt al carbone e alle trivellazioni per il petrolio,

•no alla proliferazione di rigassificatori e depositi del gas,

•un piano per la ricerca, a partire da quella pubblica, nei settori energetici più avanzati,

•un piano industriale realistico per l’attuazione dei tre 20% e degli obiettivi della road map UE al 2030 in raccordo con i Piani energetici di cui, almeno alcune Regioni si sono già da tempo dotate e con una capacità di coordinamento dei PAES comunali.

È assolutamente necessario aprire un confronto fra le parti sociali per avviare una riconversione ecologica in tutti i settori produttivi, partendo anche dagli obiettivi di efficienza proposti già due anni fa dalla Confindustria e dalle tre Confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL. Sarà questo il miglior punto di partenza per dare occupazione “pulita e rinnovabile”, soprattutto ai giovani, e contemporaneamente fornire il contributo del nostro Paese alla lotta ai cambiamenti climatici.

Uscire completamente e con sicurezza dal nucleare, contribuire al controllo del clima, costruire un modello sostenibile, decentrato e democratico, è possibile se un movimento articolato si consolida dal basso, coinvolge lavoratori, cittadini, movimenti e associazioni, e investe tutti gli ambiti della produzione, del consumo, della organizzazione delle città, degli stili di vita collettivi e individuali.

Ognuno di noi, nell’ambito del proprio ruolo, s’impegna a sostenere lo sviluppo di questo movimento.

Primi firmatari:

Agostinelli Mario (Energiafelice)

Andrea Baranes (Banca Etica)

Vittorio Bardi  (Si Fer No Nuke)

Marco Bersani (Attac)

Roberto Biorcio (Univ. Milano)

Raffaella Bolini (ARCI)

Giulietto Chiesa (Giornalista)

Giovanni Carrosio (Università Trieste)

Nicola Cipolla (CEPES)

Vittorio Cogliati Dezza (Legambiente)

Giuseppe De Marzo (A Sud)

Marica Dipierri (A SUD)

Domenico Finiguerra (Stop consumo di suolo)

Francesco Garibaldo (Ricercatore)

Alfiero Grandi (CRS)

Marco Mariano (Retenergie)

Andrea Masullo (Green Accord)

Gianni Mattioli (Unesco)

Mariagrazia Midulla (WWF)

Emilio Molinari (Contratto acqua)

Alfonso Navarra (LOC)

Giuseppe Onufrio (Greenpeace)

Rosario Rappa (FIOM Nazionale)

Gianni Rinaldini (Fondazione Sabbatini)

Valerio Rossi Albertini (CNR)

Gianni Silvestrini (Kyoto club)

Massimo Scalia (Unesco)

Gianni Tamino (Università Padova)

Guido Viale (Economista)

Alex Zanotelli (padre comboniano)