EnergiaFelice sulle tariffe elettriche

                                                                                  All’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas

 

Al Ministro dello Sviluppo Economico

Al Ministro dell’Ambiente

Ai Capigruppo Parlamentari

 

 

Spett.li Signori,

in riferimento alla consultazione aperta sul documento dell’AEEG DCO 183/2013/R/EEL, sui Sistemi Efficienti di Utenza (SEU) , come singole persone interessate dalle questioni in oggetto, ed anche in rappresentanza delle associazioni indicate, vogliamo sottolineare l’incongruenza delle modifiche richieste dall’Autorità al Dlgs n. 115/08 modificato dal Dlgs 56/2010, in merito al pagamento dei corrispettivi tariffari di trasmissione e di distribuzione, nonché quelli di dispacciamento e di copertura degli oneri generali di sistema.

 

Che questi oneri non debbano essere pagati sull’energia autoprodotta e autoconsumata, mentre sono giustamente previsti per l’energia prelevata dalla rete esterna, è chiaramente indicato dalla legislazione vigente (peraltro non completamente applicata a causa del ritardo nell’emanazione della parte normativa, per responsabilità dell’Autorità stessa).

 

La ratio è molto evidente, l’energia che viene prodotta, consumata e/o venduta senza passare dalla rete, perché dovrebbe pagare gli oneri di utilizzo della rete?

A questo va aggiunto che lo sviluppo della produzione e del consumo diretto di energia elettrica da fonti rinnovabili e/o da cogenerazione rappresenta un vantaggio per il sistema energetico del nostro paese, che necessariamente dovrà sempre più andare verso un modello di generazione distribuita che usi razionalmente e nel modo più efficiente tutte le risorse disponibili, contenendo in questo modo le importazioni di combustibili fossili e, di conseguenza, le stesse emissioni inquinanti.

 

Siamo pertanto contrari, nella maniera più ferma, a queste modifiche che avrebbero il solo effetto di attaccare ulteriormente, (dopo la fine degli incentivi del conto energia e altre misure previste dal decreto “fare”) lo sviluppo delle fonti rinnovabili, allontanando la grid parity, favorendo contemporaneamente i produttori da fonti convenzionali, che invece dovrebbero adeguare progressivamente il loro mix produttivo verso l’incremento delle fonti rinnovabili.

 

Chiediamo invece che vengano emanate tempestivamente le norme attuative sui SEU e sia resa possibile la vendita diretta di energia tra privati; contemporaneamente andrebbero messe a punto norme per promuovere i sistemi di accumulo, come sta avvenendo in altri paesi europei, affinchè non si perda quest’opportunità industriale e occupazionale, riguardo a una tecnologia nella quale l’Italia è all’avanguardia.

 

Consideriamo questa breve nota non solo un contributo alla consultazione sul documento dell’Autorità, ma anche una precisa richiesta ai Ministeri competenti e un invito a tutti i Parlamentari  a non modificare le norme vigenti nel senso indicato dall’Autorità.

 

Sottoscrivono:

 

 

 

Roma, 27giugno 2013

La guerra dello shale gas

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano – 24 giugno 2013

Le nuove tecnologie di estrazione e di impiego dei fossili incontrano crescenti resistenze e sollevano obiezioni prima ancora del loro impiego massiccio. Vale per le perforazioni e per lo spappolamento delle rocce per ottenere gas di scisto e per le ipotesi di sequestro della CO2 a valle della combustione del carbone. Essendo tuttora imprecisato l’impatto ambientale di questi processi ad alta entropia – anche se è fuor di dubbio che l’analisi del ciclo di vita di filiere così complesse ne metta in discussione la praticabilità – è un atteggiamento culturale e politicoquello che fa propendere per la loro affermazione o il loro rifiuto.

Così, nel caso dello shale gas, la prospettiva di una futura indipendenza energetica e l’indebita tolleranza per l’esternalizzazione dei costi ambientali, fa assumere al governo americano una posizione di assoluto sostegno, mentre porta la Commissione europea a tergiversare sulle prospettive di fracking nel vecchio continente. C’è perfino un fondo culturale nella diversità di approccio: in Europa il principio di precauzione vincola a considerare preventivamente gli effetti sulla vita e l’ambiente dell’introduzione di nuove tecnologie e a non ridurre la discussione sui possibilivantaggi agli artifici finanziari e di dumping valutario che possono favorire un abbassamento dei prezzi sul mercato, a discapito della salute o della sopravvivenza stessa.

È in atto un autentico assalto delle lobby americane, appoggiate in particolare dalla Polonia e, meno esplicitamente, dall’Inghilterra, per far entrare nell’agenda politica europea i combustibili fossili non convenzionali. Si è svolta una consultazione pubblica, i cui risultati sono stati presentati dalla Direzione ambiente della Commissione il 7 giugno, che ha potuto dimostrare come oltre il 60% degli intervistati è contrario allo sviluppo di shale gas in Europa. La grande maggioranza delle risposte concorda sulla mancanza di una legislazione adeguata, il bisogno di informazione del pubblico e la mancanza di accettazione popolare di un rilancio di combustibili fossili.

Nonostante l’opposizione della cittadinanza, i media anche nel nostro Paese propongono l’ipotesi di un vantaggio sulla bolletta elettrica (è quello che in maniera poco trasparente il ministro Zanonato ha assicurato per i costi dell’energia, facendo intendere che, mentre le rinnovabili pesano sulle tariffe al consumatore finale, tutti beneficeranno della riduzione presunta del prezzo del gas comprato sulla piazza olandese).

Numerose analisi dei potenziali effetti del gas da scisto sulla convenienza all’acquisto sono molto caute e arrivano a valutare, secondo uno studio dell’Agenzia internazionale per l’energia, che icosti di produzione in Europa siano due volte superiori a quelli degli Stati Uniti, anche perché ci sono importanti differenze geologiche e geografiche, oltre ad una maggiore densità di popolazione.

In queste settimane ha fatto molto scalpore un documento di esperti tedeschi che definiscono il fracking inutile e rischioso, dubitando che lo sviluppo di shale gas sia economicamente redditizio e utile per la transizione energetica del loro Paese, derivante dalla decisione di chiudere tutti i reattori nucleari entro il 2022. Essi, in particolare, mettono in discussione la tecnologia stessa e chiedono un procedimento europeo per la valutazione dell’impatto ambientale.

Secondo loro, il fracking dovrebbe limitarsi a essere utilizzato in progetti pilota, con una valutazione obbligatoria dei suoi effetti ambientali e con “stretto monitoraggio scientifico”. Questi tipi di progetti dimostrativi dovrebbero essere pianificati e attuati in modo trasparente, coinvolgendo il pubblico e in conformità con il principio “chi inquina paga”. I costi derivanti, poi, dovrebbero essere a carico del settore di estrazione Questi esperti concludono che, poiché non vi è ancora alcuna analisi completa del ciclo di vita, è incerta perfino la questione se lo shale gas  abbia un’impronta di carbonio inferiore a quella del carbone. Tenendo conto di tutti i requisiti di sicurezza necessari, il potenziale di shale gas sfruttabili in Germania, in Italia e in Francia è così piccolo che non avrebbe alcun impatto sui prezzi energetici regionali. Allora perché farne il perno delle future strategie energetiche, compresa la nostra SEN, sottratta al dibattito pubblico e infilata sotto il tappeto delle “larghe intese”?

Gli Stati Uniti sono esplicitamente per l’estrazione di gas di scisto su larga scala. E ne sostengono l’espansione come un tratto della loro egemonia negli anni futuri. Tuttavia, non è certo per quanto tempo continueranno a farlo, anche perché è del tutto possibile che assistiamo già ora ad una bolla che potrebbe scoppiare in pochi anni. Qual è la nostra convenienza? E quale conseguenza sull’accelerazione del cambiamento climatico? Perché non discuterne? In questo Paese dov’è la classe dirigente e perché spetta sempre e solo ai movimenti preoccuparsi responsabilmente del futuro?

Per un modello energetico sostenibile e distribuito, per un mondo senza nucleare.

UN NUOVO MODELLO ENERGETICO PER IL LAVORO, LA  RICERCA, LA SALVAGUARDIA DEL CLIMA, A DUE ANNI DALLA VITTORIA AL REFERENDUM CONTRO IL NUCLEARE

Presentazione dell’Appello unitario di esponenti del  mondo scientifico, del  lavoro,  dell’ambientalismo, della società civile.

Si terrà lunedì 24 giugno, alle ore 11.30, presso l’auletta del CIRPS, piazza S. Pietro in Vincoli 10, a Roma, una conferenza stampa convocata dal comitato “Si alle energie rinnovabili NO al nucleare”, nella quale sarà presentato l’appello “Per un modello energetico sostenibile e distribuito, per un mondo senza nucleare”.

 

Nel testo, che registra una non scontata, ma promettentissima alleanza fra esponenti del mondo scientifico, del mondo del lavoro,  dell’ambientalismo e della militanza sociale, si disegna un futuro energetico di fuoriuscita dai fossili, con un realistico approccio alla riconversione ecologica dell’economia e un richiamo al protagonismo sociale che è indispensabile per continuare a seguire un cammino democratico, conseguente  all’espressione della maggioranza degli italiani chiamati alle urne solo due anni fa’”.

 

Per un modello energetico sostenibile e distribuito,

per un mondo senza nucleare.

L’appello si colloca in una fase decisiva per le politiche energetiche e industriali, per l’attività di ricerca, per contrastare il cambiamento climatico. Il governo Monti ha proposto, a “tempo scaduto”, una Strategia Energetica Nazionale (SEN), che è stata per il momento assunta anche dal governo Letta, che, in definitiva,  rispecchia gli interessi dell’ENI e dell’Enel e dei finanziatori delle infrastrutture (gasdotti, depositi etc.), dà il via libera alle trivellazioni per il petrolio, e promuove il carbone come alimentazione delle centrali termoelettriche”. Al contrario, l’appello, in sintonia con le scelte europee, traccia il percorso di effettiva riduzione delle emissioni climalteranti; quindi prevede  l’alt al carbone, alle trivellazioni per il petrolio e alla proliferazione di rigassificatori e depositi del gas; un immediato impulso al risparmio, il decentramento degli impianti a fonti  rinnovabili, un piano per la ricerca nei settori energetici più avanzati, un piano industriale per l’attuazione della road map UE al 2030, in raccordo con i Piani energetici delle Regioni delle città, dei consorzi dei comuni.

 

Firme prestigiose sostengono l’appello e danno credito ad  un movimento articolato che veda protagonisti lavoratori, cittadini, movimenti e associazioni, e investendo tutti gli ambiti della produzione, del consumo, della organizzazione delle città, degli stili di vita collettivi e individuali”.

La crisi economica globale originata dal crollo finanziario del 2008, coi devastanti effetti occupazionali e sociali purtroppo ben noti nel nostro Paese, si è andata a sovrapporre alla crisi globale dell’ambiente, che ha nel cambiamento del clima il suo più attuale e drammatico riferimento.

Il coincidere di queste crisi avrebbe dovuto rimettere in discussione dalle fondamenta il modello di sviluppo, dal quale entrambe sono state generate, per muoversi con determinazione verso una tante volte evocata riconversione ecologica dell’economia e della società, attraverso una transizione difficile ma possibile.

In questa direzione si è espressa la maggioranza degli italiani solo due anni fa. Con la vittoria dei referendum sull’acqua pubblica e contro il nucleare, si è aperta una prospettiva che va anche oltre l’importanza indiscutibile delle due questioni, ancora aperte nella traduzione della volontà popolare in atti e leggi definitive: si è posto il problema della salvaguardia di alcuni “beni comuni” e “nuovi diritti”, che non possono essere governati solo dalle logiche del mercato.

Oggi questa battaglia deve continuare: analogamente alla ripubblicizzazione dell’acqua, che sta proseguendo con un articolato movimento dal basso, è necessario farla definitivamente finita col nucleare, in Italia e in Europa, anche introducendo una gestione trasparente e sicura (ad oggi non garantita dalla società deputata, Sogin) delle scorie, degli impianti e di quanto resta del ciclo nucleare.

Tuttavia non possiamo limitarci solo a questi importanti temi. Iniziative molto più corpose e propositive devono essere intraprese per effettuare il passaggio ad un nuovo modello di sviluppo. Parte significativa della transizione sarebbe compiuta se si imboccasse con decisione la strada dell’economia dei beni durevoli e sostenibili, in particolare nel settore energetico. L’attuale modo di produrre e consumare energia, con oltre l’80% di ricorso ai combustibili fossili su scala mondiale, è il massimo responsabile dell’incremento delle emissioni di CO2 e della sua concentrazione in atmosfera, alla base, appunto, dello sconvolgimento climatico.

Proprio per far fronte a questa situazione, che la rivista Nature denunciava nel 2012 come: “non è stata mai così grave”, la UE, dopo la convenzione di Aarhus, sui diritti alla giustizia ambientale, lanciò nel 2007 la strategia dei tre 20% al 2020, obiettivi vincolanti per i Paesi aderenti. Oggi in Europa, le road map e gli scenari in discussione vanno oltre le politiche del pacchetto “20 – 20 – 20” e chiedono obiettivi vincolanti al 2030 sulle emissioni di gas serra e sull’ energia: il taglio del 55% delle emissioni, rispetto al 1990; il contributo delle fonti rinnovabili al 45%; ulteriori misure di efficienza energetica per contenere la crescita dei consumi puntando alla completa “decarbonizzazione”, almeno della produzione elettrica, al 2050.

Dopo i referendum, non sentendosela di riproporre per la terza volta il nucleare, il governo Monti ha proposto, per di più a “tempo scaduto”, una Strategia Energetica Nazionale (SEN), che è stata per il momento assunta anche dal governo Letta. Ancora una volta, come in tutti i Piani Energetici Nazionali che si succedettero nel secolo scorso, la SEN rispecchia gli interessi aziendali dell’ENI e dell’Enel e dei finanziatori delle infrastrutture (gasdotti, depositi etc.), rispettivamente con il via libera alle trivellazioni per il petrolio, anche offshore, con la progettazione di facilities per il gas e con la promozione del carbone come alimentazione delle centrali termoelettriche. I colossali interessi di grandi gruppi prevalgono su quelli del Paese, dell’ambiente e della salute dei cittadini.

La proposta che la SEN fa poi dell’Italia come “hub” europeo del gas, non ha alcun assenso in sede UE – ogni Paese avendo una sua politica energetica raccordata solo parzialmente con gli altri –, e rivela la sua totale inconsistenza a fronte del nuovo ruolo che gli Stati Uniti stanno esplicitamente assumendo come leader mondiale per il gas, ottenuto nel loro sottosuolo tramite nuove tecnologie, soprattutto il “fracking”.

Ancora, in accoglimento delle lamentele, soprattutto degli operatori elettrici di Assoelettrica, per la competizione finalmente aperta nel settore elettrico dalle fonti rinnovabili, la SEN, col compiacente concorso dell’AEEG, ignora la gradualità con la quale vanno ridotti, sicuramente, gli incentivi (e sconfitte le speculazioni), deprimendo così gravemente uno dei pochi settori a forte sviluppo. L’Italia nel 2011 era stata la massima installatrice mondiale di Fotovoltaico, oggi, con la fine degli incentivi del V conto energia, servono misure regolamentari certe per mantenere lo sviluppo della filiera delle fonti rinnovabili .

È evidente che la SEN non è assolutamente in grado di far sì che l’Italia rispetti gli obiettivi europei del “20 – 20 – 20”.  Chiediamo quindi che il Governo Letta non dia corso a questa SEN e che invece vari una strategia energetica di transizione, che in sintonia con le scelte europee, sostenga:

•alt al carbone e alle trivellazioni per il petrolio,

•no alla proliferazione di rigassificatori e depositi del gas,

•un piano per la ricerca, a partire da quella pubblica, nei settori energetici più avanzati,

•un piano industriale realistico per l’attuazione dei tre 20% e degli obiettivi della road map UE al 2030 in raccordo con i Piani energetici di cui, almeno alcune Regioni si sono già da tempo dotate e con una capacità di coordinamento dei PAES comunali.

È assolutamente necessario aprire un confronto fra le parti sociali per avviare una riconversione ecologica in tutti i settori produttivi, partendo anche dagli obiettivi di efficienza proposti già due anni fa dalla Confindustria e dalle tre Confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL. Sarà questo il miglior punto di partenza per dare occupazione “pulita e rinnovabile”, soprattutto ai giovani, e contemporaneamente fornire il contributo del nostro Paese alla lotta ai cambiamenti climatici.

Uscire completamente e con sicurezza dal nucleare, contribuire al controllo del clima, costruire un modello sostenibile, decentrato e democratico, è possibile se un movimento articolato si consolida dal basso, coinvolge lavoratori, cittadini, movimenti e associazioni, e investe tutti gli ambiti della produzione, del consumo, della organizzazione delle città, degli stili di vita collettivi e individuali.

Ognuno di noi, nell’ambito del proprio ruolo, s’impegna a sostenere lo sviluppo di questo movimento.

Primi firmatari:

Agostinelli Mario (Energiafelice)

Andrea Baranes (Banca Etica)

Vittorio Bardi  (Si Fer No Nuke)

Marco Bersani (Attac)

Roberto Biorcio (Univ. Milano)

Raffaella Bolini (ARCI)

Giulietto Chiesa (Giornalista)

Giovanni Carrosio (Università Trieste)

Nicola Cipolla (CEPES)

Vittorio Cogliati Dezza (Legambiente)

Giuseppe De Marzo (A Sud)

Marica Dipierri (A SUD)

Domenico Finiguerra (Stop consumo di suolo)

Francesco Garibaldo (Ricercatore)

Alfiero Grandi (CRS)

Marco Mariano (Retenergie)

Andrea Masullo (Green Accord)

Gianni Mattioli (Unesco)

Mariagrazia Midulla (WWF)

Emilio Molinari (Contratto acqua)

Alfonso Navarra (LOC)

Giuseppe Onufrio (Greenpeace)

Rosario Rappa (FIOM Nazionale)

Gianni Rinaldini (Fondazione Sabbatini)

Valerio Rossi Albertini (CNR)

Gianni Silvestrini (Kyoto club)

Massimo Scalia (Unesco)

Gianni Tamino (Università Padova)

Guido Viale (Economista)

Alex Zanotelli (padre comboniano)

Rinnovabili, networking per rilanciarle

da sbilanciamoci.info

Il ritardo italiano in materia di energie rinnovabili è dovuto principalmente alla struttura inefficiente degli incentivi e ad un inadeguato grado di innovazione delle aziende. Una più stretta collaborazione fra istituzioni pubbliche, imprese ed università aumenterebbe l’occupazione, soprattutto giovanile e soprattutto al Sud

Favorire lo sviluppo delle energie rinnovabili dev’essere un imperativo sia del presente che del prossimo governo. Ad oggi, il trend dello sviluppo di tali tecnologie è stato sicuramente positivo, anche se una serie di ostacoli sono comunque presenti, e ne impediscono un’evoluzione continua. La ricerca cui qui si fa riferimento ([1]) è volta ad evidenziare questo tipo di barriere attraverso un’analisi del sistema energetico italiano, condotta seguendo la prospettiva e gli strumenti offerti dalla scuola di pensiero scandinava dei sistemi di innovazione.

Un sistema d’innovazione può essere definito come quell’insieme di istituzioni e organizzazioni che creano e si scambiano il knowledge arrivando a concepire nuove tecnologie, all’interno di politiche e strutture incentivanti nazionali o internazionali (Lundvall, 1992) ([2]). Attraverso tale struttura è stato quindi possibile evidenziare una serie di barriere che rallentano lo sviluppo di tecnologie rinnovabili, tra cui il disallineamento degli obiettivi delle politiche nazionali, una struttura inefficiente del sistema incentivante, la mancanza di sensibilizzazione pubblica sull’importanza dell’energia rinnovabile ed un inadeguato grado di innovazione all’interno delle aziende italiane. Quest’ultimo è uno degli aspetti più importanti, in quanto è dovuto ad un insieme di fattori che hanno fondamentalmente a che fare con la bassa attività di networking delle imprese con altre aziende, università, o istituti di ricerca pubblici. Infatti, tale attività consente uno scambio di conoscenze tra le parti, e quindi la creazione e la diffusione di nuovo sapere che è alla base di ogni processo innovativo.

Lo scenario in chiave internazionale può essere descritto tramite i dati riportati dall’Oecd ([3]): in generale, in Italia, solo il 5% delle Pmi e il 30% delle grandi aziende svolgono attività di cooperazione con università ed istituti di ricerca pubblici. La Spagna è ai nostri stessi livelli, mentre la Finlandia presenta percentuali maggiori, rispettivamente il 26% e il 67,7%. La percentuale osservata nelle PMI italiane è estremamente bassa, soprattutto se si considera l’importanza di queste ultime: è proprio nella moltitudine delle Pmi che spesso si cela l’eccellenza italiana, che è riconosciuta anche all’estero e diventa fonte di vantaggio competitivo all’interno del mercato internazionale. Non a caso, nelle filiere di diverse tecnologie rinnovabili si può identificare un alto numero di aziende italiane, molte delle quali di piccole e medie dimensioni. Basti pensare che nella filiera del solare fotovoltaico, il 70% del volume d’affari totale nel settore della distribuzione sia generato da imprese italiane; la percentuale sale al 75% per il settore del design/installazione. Inoltre, la Figura 1 mostra come in particolari settori sia della filiera eolica che fotovoltaica, la maggior parte delle aziende operanti nel territorio nazionale sia italiane.

Figura 1. Elaborazione dell’autore dei dati Anev (2012) e Agenzia per l’innovazione e la diffusione delle tecnologie per l’innovazione (2013) (4)

La presenza di un’elevata attività di networking sia a livello locale che nazionale è un fattore estremamente rilevante per consentire uno sviluppo continuo delle tecnologie rinnovabili e favorire l’innovazione. È necessario che le autorità pubbliche attuino politiche al fine di creare un terreno fertile per facilitare la cooperazione e la collaborazione tra le diverse parti. Ad oggi vi sono iniziative volte a realizzare questo obiettivo, come la creazione di distretti industriali delle rinnovabili, e di poli di innovazione. Mentre questi ultimi sono costituti a livello regionale, i primi affondano ancora di più le radici nel territorio, nascendo a livello comunale. La prova empirica della debolezza del supporto pubblico alla creazione di questa tipologia di network è evidente, in quanto la maggior parte dei distretti si forma spontaneamente, e solo pochi sono policy-driven. All’interno di questi network collaborano in larga parte istituzioni pubbliche e imprese, ma anche università, centri di ricerca e comunità locali. Un’ulteriore distinzione fra le due tipologie di network sta nell’obiettivo. Le parti coinvolte all’interno dei poli di innovazione puntano a collaborare per stimolare e sviluppare l’innovazione, mentre all’interno dei distretti delle rinnovabili si mira a favorire esclusivamente lo sviluppo di tecnologie rinnovabili. Ciò avviene in modo differenziato: la biomassa è la tecnologia in cui opera il 74% dei distretti, seguita dal solare e dall’eolico, rispettivamente al 37% e al 25%, e dalla tecnologia idroelettrica e geotermica.

In primis è quindi opportuno sviluppare politiche che puntino a favorire la creazione di simili network nelle aree in cui queste realtà sono assenti, ma non meno importante è creare politiche di integrazione fra la moltitudine di network locali presenti in Italia. È doveroso sottolineare come la presenza di tali realtà sia di maggiore densità nelle regioni del Nord Italia, le quali presentano anche la maggiore percentuale di imprese innovative. Infatti, nel Friuli-Venezia Giulia quasi il 60% delle imprese sono innovative, regione seguita a breve distanza da Veneto, Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte. Le regioni del Sud presentano percentuali di gran lunga più basse: troviamo la Calabria, la Sardegna ed il Molise che gravitano attorno al 40%, seguite dalla Basilicata al 38%. Diminuire il divario fra le regioni del Nord e quelle del Sud è una sfida che può essere affrontata tramite lo sviluppo di politiche che aumentino la collaborazione e la cooperazione, per creare canali di trasferimento di knowledge da Nord a Sud e viceversa.

La creazione di tali politiche apporterebbe un rilevante contributo anche all’interno del mercato del lavoro. Infatti, una più stretta collaborazione fra istituzioni pubbliche, imprese ed università creerebbe come esternalità positiva un aumento di occupazione, soprattutto giovanile. Facendo riferimento all’ultimo dato sulla disoccupazione giovanile, che si è attestata al massimo storico di 41,9% ad aprile 2013, implementare tali politiche potrebbe almeno portare alla creazione di nuove possibilità occupazionali, soprattutto nel Sud, dove la disoccupazione è maggiore.

Da non dimenticare è anche l’impatto occupazionale sul medio e lungo termine dovuto allo sviluppo delle energie rinnovabili: si stima che il settore del solare fotovoltaico arrivi ad occupare in modo diretto 18.000 lavoratori, e 45.000 in modo indiretto. Per il 2020, le stime dell’eolico sono anche leggermente superiori, in quanto questa tecnologia creerà occupazione rispettivamente per 20.000 e 50.000 lavoratori, e sarebbero addirittura maggiori se si concedessero le autorizzazioni per la costruzione di impianti eolici offshore.

L’Italia avrebbe un enorme potenziale da poter sfruttare se solo il settore pubblico avesse il coraggio di combattere la moltitudine di interessi esistenti che mirano a rendere difficoltoso lo sviluppo delle energie rinnovabili. Averla vinta in questa battaglia porterebbe diversi benefici per l’intero paese, da una diminuzione della dipendenza energetica dai paesi stranieri (anche grazie alle innovazioni nel settore dello stoccaggio dell’energia solare), alla diminuzione del costo dell’energia elettrica, alla crescita dell’occupazione e anche dell’economia. Non di minore importanza devono essere considerati i benefici ambientali che l’uso di tali tecnologie comporterebbe, considerando la minaccia rappresentata dal cambiamento climatico, e quindi l’urgenza di un cambiamento nello stile di vita dei paesi occidentali a fronte dell’ingente crescita economica nei paesi emergenti: l’Italia potrebbe addirittura essere di buon esempio per gli altri paesi occidentali.

[1] Castiello D’Antonio, A. M., & Shaikh Sofla, R. (2013). Barriers in the Italian Energy Innovation System for the Development of Renewable Energies. Aalborg University.

[2] Lundvall, B.-Å. (1992). National Systems of Innovation: Towards a Theory of Innovation and Interactive Learning. London: Pinter Publishers

[3] OECD. (2011). “Environmental technologies”. Tratto il 10 Maggio 2013 da OECD Science, Technology and Industry Scoreboard 2011, OECD Publishing:http://dx.doi.org/10.1787/sti_scoreboard-2011-36-en

[4] Anev. (2012). Anev Report. Tratto il 4 Maggio 2013 da www.anev.it Agenzia per l’innovazione e la diffusione delle tecnologie per l’innovazione. (2013). Renewable energies and energy saving: scenarios and opportunities. Tratto il 17 maggio 2013 da http://www.aginnovazione.gov.it/attivita/collaborazione-pubblico-privato/quaderni-dellinnovazione/

L’attacco alle rinnovabili del Corsera e la risposta delle associazioni

Anche le associazioni italiane delle rinnovabili si scagliano contro l’articolo-propaganda che definiva il solare in Italia come un “flop”. L’articolo, a firma di Danilo Taino, pubblicato dal Corriere della Sera il 5 giugno, raccoglieva pareri di noti avversari delle fonti rinnovabili, senza contraddittorio e senza aggiungere il parere di nessuno degli innumerevoli e stimati ricercatori che, invece, si sono, da sempre, schierati in favore delle fonti pulite. Per questo, Aper,Assosolare Coordinamento Free hanno spedito giorni fa una lettera al direttore del prestigioso quotidiano nazionale in risposta e a commento di quell’articolo, senza però, ottenere alcuna risposta.

ZeroEmission pubblica di seguito il testo della lettera, con l’obiettivo di darne la dovuta visibilità:
Gentile Direttore,
le scriviamo in rappresentanza di APER, l’Associazione dei Produttori di Energia Rinnovabile, di Assosolare, l’associazione degli operatori dell’industria fotovoltaica, e del Coordinamento FREE, che raggruppa 35 soci tra associazioni ed enti operanti nel settore delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica, in replica all’articolo “Sos Terra”, pubblicato in prima pagina il 5 giugno 2013, per fornire al lettore informazioni e dati completi, non solo di una parte, peraltro minoritaria! In primo luogo, solo il presidente di Assoelettrica, per difendere interessi delle fossili, può parlare dell’energia solare nel nostro Paese come di un flop: 18 GW di potenza installata in pochi anni, costruendo dal nulla una filiera di imprese produttrici di energia, servizi e componenti che è ormai pronta a lavorare senza incentivi – proprio in questi giorni è stato raggiunto il limite previsto dal V Conto Energia – non può in nessun modo essere considerato un insuccesso. Non servono forse a questo, gli incentivi, ad avviare un settore? Ebbene, obiettivo raggiunto: nei prossimi anni si continueranno a installare impianti fotovoltaici incrementando la quota di energia verde prodotta in Italia. In più, particolare fondamentale, ogni tonnellata di anidride carbonica risparmiata sarà a costo zero!
 
Un’analisi completa dovrebbe poi contemplare le due facce della medaglia – costi e benefici – che dovrebbero sempre essere considerate congiuntamente. Le stime più recenti (cfr. Althesys, IREX Report) indicano in circa 35 miliardi di euro il saldo tra benefici (miglioramento della bilancia commerciale, riduzione dei costi associati ai diritti di emissione, impatti su Pil e occupazione) e costi delle politiche già varate per sostenere il settore delle rinnovabili (altre stime arrivano perfino a 76 miliardi). E, si badi, si tratta di stime che non tengono in considerazione gli impatti sicuramente positivi che lo sviluppo delle rinnovabili ha sul sistema sanitario nazionale e sull’ambiente (meno malattie dovute alle emissioni inquinanti e ad effetto serra). Peraltro i costi, noti da tempo, sono stati “messi in sicurezza” dai decreti del ministro Passera dello scorso luglio, che ha fissato chiari limiti di spesa massima annuale. Rimetterli in discussione oggi significherebbe una volta di più allontanare potenziali investitori dal nostro Paese e comprometterne ulteriormente la fiducia, già gravemente minata dalle innumerevoli riforme non fatte. Premesso che l’Italia ha precisi doveri etici e materiali per rispettare impegni presi in sede internazionale e che il risparmio energetico è comunque un obiettivo da perseguire e una grande opportunità di sviluppo e di crescita, si ritiene che il vero problema in Italia sia la mancanza totale di una programmazione energetica.
 
L’ultimo Piano Energetico Nazionale risale alla fine degli anni 80, la decisione di pianificare la costruzione di una serie di centrali nucleari è naufragata con un referendum dai forti significati anche sociali, mentre gli impianti termoelettrici sono stati costruiti recentemente anche a fronte di una ben nota diminuzione delle richieste di energia e la SEN del Governo Monti è solo un insieme di buone intenzioni, senza alcuna indicazione strategica concreta. In questo vuoto si sono innestati alla rinfusa una serie di interventi, in grado di premiare ora l’una ora l’altra tecnologia, con tutte le conseguenze del caso, compreso il dilagare di norme tecniche spesso in contrasto tra di loro e di tariffe dell’energia non sempre congruenti. Ci permettiamo di suggerire di cambiare logica e capire, finalmente, che il risparmio e l’efficienza energetica si possono ottenere solamente coniugando un mix di tecnologie, in alcune delle quali, peraltro, l’industria Italia è tra i leader di mercato. Solo una seria programmazione energetica, seguita da un’altrettanto seria pianificazione delle norme tecniche e delle tariffe dell’energia potrà permettere a tutti, dai progettisti degli impianti, agli installatori fino all’utente finale, di comprendere i reali vantaggi di un investimento nella green economy. Senza posizioni talebane, né dall’una (amplificata a dismisura dall’establishment), né dall’altra parte (alla quale in verità non viene data grande possibilità di replica).