Quali sono le ragioni dell’aumento delle tariffe elettriche?

di Roberto Meregalli

Dal primo luglio sono tornate a salire (anche se di poco), le bollette dell’elettricità. E la responsabilità è stata attribuita anche questa volta alle fonti rinnovabili. Da due/tre anni le FER sono additate come causa del caro bollette e l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas (AEEG) si è fatta paladina di questa posizione. Non che non ci si debba preoccupare del crescente peso degli oneri di sistema in bolletta, ma l’impressione è che si stia esagerando.

grafico meregalli

Fonte AEEG

Proviamo ad analizzare i numeri. Per prima cosa il recente aumento, pari all’1,4% non è dovuto all’aumento degli oneri relativi alla fatidica voce A3 che comprende quelli che sostengono le fonti rinnovabili (vedi nota), infatti pesavano per 98 euro l’anno e tali rimangono, anzi percentualmente scendono lievemente dal 19,23% al 18,98% della bolletta.

Prezzi medi annuali per utenti domestici con potenza pari a 3KW e consumi sino a 2.700 kWh annui

Confronto prima e dopo l’aumento del 1 luglio 2013 (valori in €)

Componente della bolletta In vigore sino al 30 giugno 2013 In vigore dal 1 luglio 2013
Energia (PED+PPE) e commercializzazione 270 276
Trasmissione   75   75
Oneri di sistema   98   98
Imposte ed IVA   68   69
Totale 511 518

Fonte: Acquirente Unico

La sola componente che sale è quella propria dell’energia, nella parte (come specifica l’AEEG) relativa al bilanciamento, cioè quei costi che Terna (società responsabile del dispacciamento) impiega per bilanciare quotidianamente domanda ed offerta di elettricità compensando gli errori di previsione e i problemi di generazione. Certo la colpa viene addossata alle rinnovabili perché intermittenti (ma non tutte), ma probabilmente se si dedicassero risorse ed energie a rendere più efficienti i mercati infragiornalieri (al fine di consentire un’efficiente partecipazione al mercato delle fonti rinnovabili intermittenti), più precise le stime di generazione e non si ostacolassero i sistemi di accumulo tutto sarebbe risolto. Pertanto se si volesse fare qualcosa di concreto per evitare sprechi ed ottimizzare la spesa fatta per incentivare le nuove fonti, è in questa direzione che si dovrebbe celermente andare, senza inutili continui lamenti da parte di Assoelettrica.

Anche perché il conto energia ha cessato di esistere il 6 luglio, pertanto il fotovoltaico non crescerà più come onere in bolletta. Il problema in verità è amplificato dal calo dei consumi, cioè dalla riduzione della quantità di energia elettrica (fatturata) su cui spalmare gli oneri di sistema, pertanto sarebbe utile in presenza di una sempre maggiore disponibilità di elettricità verde, pensare a come sostituire col vettore elettrico altre forme di energia “più sporche”. Fortunatamente anche Assoelettrica e l’Autorità stessa sembrano averlo compreso e pertanto speriamo di avere dal regolatore buone nuove.

 

 

 

 

 

Nota: Componente A3 (fonti rinnovabili e assimilate) – E’ la  più consistente fra gli oneri di sistema e finanzia sia  l’incentivazione del fotovoltaico sia il sistema del Cip 6, che incentiva le fonti rinnovabili e assimilate (impianti alimentati da combustibili fossili e da combustibili di processo quali scarti di raffineria etc).

Ancora incentivi ai rigassificatori?

I nuovi rigassificatori potrebbero avere l’incasso quasi totalmente garantito dalle nostre bollette. Avrebbero cioè diritto a un rimborso pari fino al 71% della loro capacità nel caso non riuscissero a vendere tutto il gas previsto. Una sentenza del Tar Lombardia sull’impianto di Livorno riporta in vita quell’aiutino che era stato escluso nell’autunno del 2012.
Alessandro Codegoni qualenergia.it
10 luglio 2013

A volte ritornano. No, non parliamo di mostri horror, che del resto non tornano in seguito a sentenze del Tar, ma degliincentivi per i rigassificatori, che esclusi nell’autunno 2012 adesso rientrano in gioco grazie a una sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia.

I rigassificatori sono quegli impianti che riportano a gas il metano liquefatto, proveniente da paesi non collegati direttamente a noi con i gasdotti. La loro presenza consente di differenziare l’offerta di gas, di abbassare i prezzi e di sopperire ad eventuali blocchi sui condotti. Del perché in Italia abbiano avuto finora poca fortuna, nonostante il nostro paese, per gli alti consumi di metano e la dipendenza dai gasdotti, sia uno di quelli che ne avrebbe più bisogno,  e di cosa si sia fatto per attirarne l’installazione, abbiamo parlato ampiamente in un nostro articolo (QualEnergia.it, Quel regalo ai rigassificatori fatto coi soldi nostri).

In quell’articolo si ricordava il sistema di incentivazione dei rigassificatori, chiamato“fattore di garanzia”, varato dall’’Autorità per l’energia (Aeeg) nel 2005, in seguito all’emergenza gas di quell’inverno. Consisteva nell’assicurargli un rimborso pari fino al 71% della loro capacità, nel caso non fossero riusciti a vendere tutto il gas previsto. La storia si concludeva ricordando come il fattore di garanzia fosse stato di fatto annullato dalla stessa Aeeg a fine ottobre 2013, dopo l’annuncio di una inchiesta da parte della UE su possibili “aiuti di Stato”, o, secondo la versione dell’Autority, perché ci si era resi conto che nell’attuale situazione di mercato, con le importazioni di metano scese da 75 a 67 miliardi di metri cubi annui fra 2005 e 2012, quell’incentivo rischiava di trasformarsi in un “bagno di sangue” per la bolletta degli utenti del gas.

In particolare la delibera del 31 ottobre 2012, escludeva il fattore di garanzia per tutti i futuri rigassificatori, e lo prevedeva per quelli recentemente approvati (quindi i rigassificatori di Rovigo e Livorno) solo se avessero aperto le porte a fornitori diversi dalla società proprietaria. Visto che sia Rovigo che Livorno sono gestiti in esclusiva, nessuno avrebbe goduto dell’incentivo.

Dunque partita chiusa? Si, quando mai … siamo in Italia. Dopo la delibera del 31/10/2012 la società Olt (Offshore LNG Toscana), controllata da E.On, che ha quasi ultimato il rigassificatore di Livorno, ha fatto ricorso al Tar della Lombardia, chiedendo che l’incentivo gli fosse conferito, anche se il suo impianto non è aperto a terzi. E il 7 luglio il Tar ha deciso in suo favore e la nave-rigassificatore di Olt, fino ad allora ferma a Dubai, si è immediatamente diretta a tutto gas (è proprio il caso di dirlo) verso le nostre coste.

Così, a partire dalla fine dell’anno, quando all’impianto Olt, posto a 22 km al largo del porto toscano, cominceranno ad attraccare navi gasiere per immettere il combustibile nella rete italiana, a tutti noi non resta che pregare che i suoi affari vadano a gonfie vele. Perché, se così non fosse, e nel 2014 vendesse meno del 71% della sua capacità nominale di 3,75 miliardi di metri cubi di metano annui, la differenza gliela pagheremmo noi in bolletta.

Ma non basta. Il mondo dell’energia attende con trepidazione di leggere nei dettagli la sentenza del Tar, per capire quali paletti abbia fissato. Se, nella peggiore delle ipotesi, avesse stabilito che il fattore di garanzia vada ripristinato anche per i futuri impianti di rigassificazione, c’è da scommettere che la marea di 15 nuovi rigassificatori che erano previsti fino a qualche anno fa, e che si era ritirata, viste le condizioni di mercato e l’ostilità delle popolazioni locali,  lasciando solo 4 o 5 progetti ancora in piedi,potrebbe ritornare più forte di prima. Quale venditore, infatti, si farebbe sfuggire l’occasione di avere quasi l’intero incasso garantito dallo Stato, comunque vadano gli affari?

Purtroppo, dice una fonte Aeeg che abbiamo sentito, se Olt si è decisa a fare ricorso al Tar, probabilmente è proprio perché si è resa conto che i contratti che aveva stipulato non bastavano per coprire l’ammortamento dell’impianto. E questo potrebbe prefigurare un rimborso nel 2014 per le sue mancate vendite fino a 20 milioni di euro, che si ridurrebbe poi progressivamente nei 20 anni successivi, fino ad azzerarsi appena l’impianto fosse ammortizzato.

Comunque sembra che l’Autorità farà ricorso al Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar. Ma ‘Pantalone’ non sa cosa augurarsi: se non facciamo i rigassificatori, il monopolio del gas resta nelle mani di chi gestisce i gasdotti internazionali e i contratti bilaterali con i paesi fornitori, e quindi può, in larga parte, fissare i prezzi che vuole. Se facciamo i rigassificatori, sia pure in un numero ragionevole e con l’accordo delle popolazioni locali, favoriamo la concorrenza sul mercato del gas, facilitando, in teoria, la discesa dei prezzi dell’energia. Ma ora con il rischio di dover pagare noi, nel caso i loro affari andassero male. E poi si meravigliano se uno si butta sulle rinnovabili …

Deraglia un treno pieno di petrolio in Canada

Deraglia treno pieno di petrolio, città in fiamme
«Come un’atomica». Ci sono dei dispersi

Pompieri in arrivo anche dagli Stati Uniti. I soccorsi non riescono ad entrare nel quartiere incendiato. Rogo colossale

 

La città di Lac Megantic sconvolta dalle fiamme
La città di Lac Megantic sconvolta dalle fiamme

Come in un film catastrofico, ma è tutto vero. Un treno merci che trasportava petrolio greggio è deragliato venerdì notte all’1 e 20 (le 7 e 20 italiane) mentre attraversava il centro della cittadina di Lac Megantic, nel Quebec, in Canada, dando origine a un vasto incendio che ha investito una trentina di edifici. Non è ancora chiaro se vi siano vittime, le autorità non sono in grado di dirlo anche se ci sono dei dispersi. Sul posto sono intervenuti i pompieri che hanno ricevuto rinforzi da quelli statunitensi. Almeno mille dei circa 6.000 abitanti della cittadina sono stati evacuati. In un briefing per la stampa i vigili hanno spiegato di aver iniziato da poco a penetrare nel cuore dell’incendio ma di non essere ancora in grado di verificare se vi siano morti o feriti.

LE TESTIMONIANZE – Testimoni hanno raccontato che il convoglio merci della compagnia The Montreal Maine & Atlantic, che trasportava il greggio verso la costa orientale americana, è arrivato a gran velocità prima di deragliare nel centro di Lac Megantic, sita 250 km a est di Montreal. L’esplosione dei vagoni-cisterna pieni di petrolio ha liberato un grande fungo di fuoco, seguito da un incendio che si è rapidamente propagato agli edifici vicini. Incendio che non è ancora sotto controllo.

Tariffe, incentivi, bollette: facciamo i conti

da Il Fatto Quotidiano – 4 luglio 2013

di Mario Agostinelli

Dal 6 luglio non è più previsto alcun incentivo per i nuovi impianti fotovoltaici. Questo non significa la fine della storia delle celle solari in Italia, anche se qualcuno vorrebbe decretarne la marginalità.

Certo, la campagna contro le rinnovabili incrementerà la sua recrudescenza e, con il sostegno di Assoelettrica,  si cercherà di alzare  l’asticella della “parity grid” e di ostacolare i necessari processi di decarbonizzazione. Sono parecchi gli indizi di una svolta involutiva e di un ritorno al passato. La miopia della Strategia Energetica Nazionale, varata alla chetichella e sotto la sponsorizzazione delle lobby dei fossili, si è trasformata in orientamento anche del connivente governo delle “larghe intese”. L’asservimento della stampa e dei media alla campagna contro gli incentivi alle rinnovabili ha portato il dibattito pubblico a considerare i 6,7 miliardi di euro l’anno per il fotovoltaico come sinonimo di “spreco” o di “bolla speculativa che ha favorito gli stranieri”, con un accanimento che va dal Corriere  ai giornali di provincia. Da ultimo, l’Authority per l’Energia, anziché dare un contributo positivo all’attuazione dei traguardi fissati per L’Europa dal pacchetto 20-20-20 e ai profondi mutamenti legati all’intensa penetrazione delle rinnovabili e allo sviluppo di nuove tecnologie, tratta la generazione distribuita come fuga dal mercato e addita nel sostegno alle fonti naturali la responsabilità delle alte tariffe che gravano su cittadini e imprese. Forse trascura che almeno 25 terawattora di produzione fossile presso gli insediamenti storici della manifattura italiana sono da sempre esentati dalla copertura dei costi del sistema elettrico e ricadono in bolletta.

A questo proposito Legambiente ha elaborato un dossier che individua oltre 5 miliardi di Eurodove si potrebbe intervenire subito, tra sussidi alle fonti fossili, oneri impropri, sconti in bolletta ai grandi consumatori di energia elettrica. Secondo poi l’Irex Annual Report 2013 il bilancio costi-benefici della crescita delle rinnovabili, considerando dunque la spesa per gli incentivi e i vantaggi (riduzione prezzo elettricità, rischio petrolio, emissioni di CO2, effetti sull’occupazione e sul Pil), è ampiamente positivo con benefici netti compresi tra 19 e 49 miliardi. Stessa cosa non si può dire per i 52 miliardi di euro che complessivamente abbiamo regalato e stiamo continuando a regalare a inceneritori e centrali inquinanti e da fonti fossili, attraverso il meccanismo del CIP 6 pagato con le bollette.

In definitiva, secondo i calcoli più precisi, su un totale di una bolletta tipo per una famiglia (511 €/anno), cresciuta di ben il 53% in dieci anni, gli incentivi per le rinnovabili sarebbero pari al 16%: poco meno di 7 € a famiglia ogni mese, mentre la differenza di prezzo con l’Europa è dovuta soprattutto al prezzo del gas e alla valutazione del petrolio.

Il colmo arriva ora con un documento dell’Authority (DCO 183/2013/R/EEL) rispetto alla generazione distribuita. In base ad esso i costi di mantenimento e sviluppo della rete e del sistema elettrico (inclusa l’incentivazione delle rinnovabili) non devono più essere ripartiti in base all’utilizzo del sistema (misurato dai prelievi di elettricità dalla rete), ma dei consumi: se copro quindi parte del mio fabbisogno con un impianto fotovoltaico sul tetto, questa diventerebbe base imponibile incrementale rispetto a quella intercettata dal contatore! In sostanza, l’energia che viene prodotta, consumata e/o venduta senza passare dalla rete, dovrebbe pagare gli oneri di utilizzo della rete stessa. Insomma, si incolpano le rinnovabili di delitti altrui, senza considerare i benefici diretti (riduzione del prezzo dell’elettricità nelle ore di punta quando c’è tanto sole e riduzione delle importazioni di fonti fossili) e quelli indiretti (legati alla riduzione dell’inquinamento e delle emissioni di gas climalteranti).

Ci sarebbe invece bisogno di un provvedimento per la vendita diretta di energia tra privati e la messa a punto di norme per promuovere i sistemi di accumulo, come sta avvenendo in altri paesi europei, affinchè non si perda quest’opportunità industriale e occupazionale, riguardo a una tecnologia nella quale l’Italia è all’avanguardia. Occorre dare una scossa ad interessi e governi pigri e incapaci di guardare lontano. Dal mondo scientifico, del lavoro e ambientalista è partito un appelloper una inversione di tendenza. La sua diffusione e un sostegno convinto ad esso sono un contributo per non ricadere nella trappola di chi ci vuol far camminare con la testa rivolta dietro le spalle.

Competizione tra energia e cibo. La produzione di energia da biogas nella Pianura Padana

Giovanni Carrosio – gcarrosio@units.it 

 

Introduzione

Le competizione per la terra è un fenomeno molto complesso, frutto dell’interazione di una molteplicità di fattori che ne sono la causa. Produzioni feed-food, infrastrutture, urbanizzazione, attività estrattive, conservazione ambientale sono gli utilizzi del suolo che in un paese carente di grandi spazi aperti come l’Italia entrano in competizione. Alla tradizionale competizione per la terra, da qualche anno si è aggiunto anche il fattore energetico.
Negli ultimi anni, la pianura Padana ha visto il proliferare di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Fotovoltaico a terra, impianti a biogas, centrali a biomasse sono le principali tecnologie che implicano un utilizzo diretto e indiretto di suolo. Gli impianti fotovoltaici occupano direttamente terreno agricolo, mentre biogas e biomasse hanno bisogno di vaste estensioni per la coltivazione di colture energetiche dedicate.
Le differenti possibili destinazioni d’uso dei terreni stanno dando vita ad una competizione per la terra, che è frutto della combinazione di diversi fattori: a livello globale sta crescendo e cambiando drasticamente la domanda di prodotti alimentari, si stanno modificando i modi di approvvigionamento energetico a causa dell’esaurirsi delle risorse fossili e gli organismi di governo, su diversi livelli, adottano politiche per contrastare il cambiamento climatico che hanno conseguenze secondarie sull’utilizzo della terra. Politiche per il clima, fabbisogno energetico ed alimentare sembrano non trovare una integrazione sostenibile sui territori, tanto è vero che a livello internazionale si inizia a parlare di “food-energy-environment trilemma” (Tilman e altri, 2009).
La questione è molto complessa e difficile da districare. Il land use change (Luc) diventa complesso in un sistema nel quale interagiscono mercati locali e mercati internazionali delle commodities, per cui le modificazioni d’uso dei terreni non sono immediatamente visibili a livello locale, ma si manifestano in modo indiretto (iLuc), coinvolgendo luoghi diversi del pianeta. Per questo motivo l’articolo intende circoscrivere l’ambito di analisi alla produzione di energia da biogas nel Nord Italia, per provare a tracciare alcune dinamiche e comprendere i nessi causali tra modi di organizzare la produzione di energia e conseguenze nell’utilizzo del suolo. Gli obiettivi sono perciò minimi rispetto alla complessità del tema della food-fuel competition: capire quali legami esistono tra stili organizzativi della produzione di energia da biogas e consumo di suolo. La competizione con il cibo viene vista da un punto di vista quantitativo, ma anche da un punto di vista qualitativo, indagando il legame tra energia e filiere di qualità.

Land use change ed energie rinnovabili

Il tema della competizione per l’utilizzo della terra ha riacquistato una rilevanza nella letteratura internazionale a partire dalla diffusione massiccia delle energie rinnovabili. In particolare, la maggior parte degli studi si concentra sulle conseguenze della diffusione degli agrocarburanti su scala industriale, considerati come principali competitori della produzione di cibo (Carrosio, 2011). A livello italiano, tuttavia, è stata rivolta poca attenzione a questo problema. Nel nostro paese pochi terreni sono stati convertiti a colture energetiche destinate alla produzione di agrocarburanti, ma si sono diffusi in maniera molto rapida impianti a biomasse, digestori per la produzione di biogas e grandi impianti per il fotovoltaico a terra. Essi, in forme diverse, implicano l’utilizzo di vaste porzioni di terreno. Nel caso del fotovoltaico abbiamo una occupazione diretta di terreno per l’installazione dei pannelli (Frascarelli e Ciliberti, 2011). La diffusione di grandi impianti a terra ha avuto una accelerazione grazie a tariffe incentivanti molto allettanti per i grandi investitori, ma ha subito una brusca frenata in seguito alla revisione delle modalità di incentivazione. Gli impianti a biomasse, invece, sono spesso localizzati nelle aree industriali, ma richiedono grandi porzioni di territorio per il loro approvvigionamento. Esse possono essere alimentate da biomasse legnose provenienti dalla gestione locale dei boschi (Carrosio, 2010), da short rotation forestry, da sottoprodotti delle lavorazioni industriali come gli scarti di segheria o agroindustriali come i gusci di nocciola. Nel caso dell’utilizzo di piante a crescita rapida o di colture energetiche come il miscanto, solitamente il raggio di approvvigionamento è prossimo alla centrale, ma spesso il cippato legnoso proviene dai mercati internazionali.
Gli impianti a biogas, invece, utilizzano soprattutto un mix di deiezioni animali e colture dedicate. Mais, sorgo e triticale sono le colture a più alta resa durante il processo di digestione anaeorobica. Il raggio di approvvigionamento è solitamente prossimo al digestore, per ottimizzare i costi di produzione e per avere stabilità nei costi delle materie prime. A livello quantitativo, si tratta della fonte di energia rinnovabile che ha il più alto impatto sull’utilizzo dei suoli nel nostro Paese. Anche per questo, sono ormai decine i comitati di cittadini che si oppongono in maniera più o meno radicale alla autorizzazione di alcune tipologie di impianti, in particolare gli impianti molto standardizzati con taglia 999 KW, che si sono diffusi come conseguenza di una incentivazione statale molto generosa (Carrosio, 2012).
Per ogni tipo di fonte energetica e di materia prima utilizzata, perciò, si aprono scenari differenti per quanto riguarda il consumo di suolo. In alcuni casi le biomasse vengono coltivate in ambiti locali, in altri casi vengono importate incidendo sul consumo di suolo in altri paesi, in altri casi provengono dagli scarti di altre lavorazioni, trovando una integrazione nelle filiere agroindustriali.
I due concetti che vengono utilizzati in letteratura per indagare il rapporto tra cibo ed energia (ma in particolare per valutare il bilancio di emissioni di CO2 delle produzioni agroenergetiche) sono land use change e indirect land use change. Il primo indica il cambio diretto di destinazione d’uso dei suoli, come è ad esempio la sostituzione di una coltura con un’altra, oppure l’occupazione da parte di colture energetiche (o pannelli fotovoltaici) di una porzione di terreno utilizzata in precendenza a scopi alimentari. Il Luc è facilmente misurabile, in quanto visibile. L’iLuc, invece, indica il cambio indiretto di destinazione d’uso di un terreno ed è conseguenza del Luc. Ad esempio, quando si occupa un terreno con pannelli fotovoltaici, le colture presenti in precedenza devono essere reperite altrove, incidendo perciò sull’utilizzo dei terreni in altre aree più o meno lontane (Carrosio, 2012b). Questo secondo fenomeno è nella maggior parte dei casi difficilmente tracciabile e misurabile, e le conseguenze dipendono molto da quale tipo di ordinamento si è andati a intaccare.
Anche per provare a capire come la diffusione del biogas in Italia possa incidere su land use change e indirect land use change, è importante indagare i modelli socio-organizzativi con i quali gli impianti di produzione di energia prendono forma: a seconda delle modalità di organizzare l’approvvigionamento e l’utilizzo delle biomasse, esistono conseguenze anche molto differenti nell’utilizzo della terra e nel rapporto con le altre destinazioni che le colture agricole possono avere.
Oltre a questo tipo di considerazioni, esiste un secondo modo di approcciare la relazione tra produzione di energia e cibo. Si tratta di capire se l’ingresso del sistema energetico all’interno dei sistemi agroalimentari possa portare a mutamenti di carattere qualitativo, incidendo nelle filiere che si contraddistinguono per la qualità dei prodotti finiti. Ad esempio, il cambio di ordinamento colturale (da feed energy crops) può fare sì che l’alimentazione nella zootecnia si apra a mercati esteri difficili da tracciare, o ancora che alcune pratiche legate ai digestori di biogas portino ad un indebolimento e dequalificazione delle filiere. Facciamo riferimento, in questo caso, al dibattito sul rapporto tra digestato e fertilità dei suoli e tra digestato e proliferazione dei clostridi nel Parmigiano Reggiano.
Nei prossimi due paragrafi, affronteremo le due tematiche, ovvero la relazione cibo energia da un punto di vista quantitativo (come cambia l’utilizzo dei suoli) e da un punto di vista qualitativo (quali conseguenze sulle filiere agroalimentari di qualità).

Impianti a biogas e occupazione di terreno agricolo

Le tipologie di impianti a biogas (potenza installata e matrici utilizzate per l’alimentazione del digestore) e l’evolversi dei modelli organizzativi nel corso degli anni sono in larga misura funzione dell’intreccio di più dimensioni: le politiche di incentivazione per la produzione di energia elettrica e la presenza o meno di normative regionali, tese a regolamentare la diffusione degli impianti sui territori; gli stili aziendali delle singole aziende agricole (van der Ploeg, 1994) nelle quali è stato adottato l’impianto e l’esistenza di aree più o meno caratterizzate da filiere agroalimentari di qualità, nelle quali vigono disciplinari di produzione, come il Parmigiano Reggiano.
Tutti gli impianti installati al 31/12/2012 hanno avuto, come regime di incentivazione, un sistema tariffario che ha favorito soprattutto la diffusione di impianti da 999 KW, grazie alla tariffa omnicomprensiva di 28 centesimi a KWh (per i dettagli vedi Carrosio, 2012a).
Il sistema incentivante si è integrato con gli stili aziendali prevalenti delle aziende zootecniche, orientate ad una continua modernizzazione del proprio sistema produttivo, attraverso l’introduzione di nuove tecnologie che portano ad una sempre più marcata artificializzazione (Altieri, 2002). Il problema dei nitrati, ad esempio, non viene risolto recuperando una proporzione tra numero di capi e terreni disponibili per lo spandimento, ma viene affrontato grazie ad una escalation tecnologica: la produzione di energia da biogas diventa funzionale all’installazione di uno strippatore di ammonio, sistema molto energivoro per abbattere i nitrati che consente di riportare l’azienda nei parametri imposti dalla direttiva Nitrati.
Gli impianti da 999 KW, molto standardizzati, funzionano nella quasi totalità grazie ad un mix di deiezioni animali (20%) e colture energetiche (80%). Mais, sorgo e triticale vengono coltivati in prossimità dei digestori, sostituendo la produzione di mais per l’alimentazione animale. In media, un impianto di questa taglia, ha bisogno di 200 ettari di terreno coltivati a colture dedicate. Si stima che nel Nord Italia, gli impianti a biogas di questa taglia siano circa 300, per un totale di circa 60.000 ettari di terreno dedicato (Carrosio e Osti, 2012). Non abbiamo la possibilità di definire con certezza come questa occupazione di terreno abbia inciso sulle dinamiche locali ed extralocali in termini di cambio di destinazione d’uso dei suoli. Sicuramente nella maggior parte dei casi, questi terreni erano precedentemente coltivati per la produzione di mangimi animali. Mangimi che ora devono essere reperiti altrove.
Emerge perciò, come impianti medio-grandi che utilizzano anche matrici vegetali per il funzionamenti dei digestori, portino ad una pressione sulla terra: le colture energetiche sostituiscono quelle dedicate alla alimentazione animale, che devono essere approvvigionate sul mercato.
Impianti di taglia inferiore, invece, organizzati secondo una logica di chiusura dei cicli aziendali e alimentati esclusivamente a deiezioni animali non hanno alcun tipo di impatto sull’utilizzo della terra. L’ordinamento colturale non subisce modifiche e la produzione di energia viene concepita come uno strumento di chiusura di alcuni cicli ecologici.

La questione dei clostrìdi: un caso di trade-off tra politiche energetiche e sistemi agricoli di qualità

Un secondo aspetto, più qualitativo, è il rapporto tra produzione di energia da biogas e filiere agroalimentari di qualità. Il diffondersi di impianti medio-grandi che utilizzano come matrici sia effluenti zootecnici che insilati di sorgo o mais, ha aperto un dibattito sul rischio di proliferazione dei clostridi nelle catene alimentari.
Facciamo riferimento all’acceso dibattito emerso attorno alla Delibera numero 51 del 26 luglio 2011 dell’Assemblea legislativa dell’Emilia Romagna, che ha definito le disposizioni per la localizzazione degli impianti a biogas, introducendo livelli di attenzione particolare per il territorio regionale che rientra nell’area del Parmigiano Reggiano. Questo territorio non è considerato idoneo agli impianti che “utilizzano silomais o altre essenze vegetali insilate, fatto caso il residuo del processo di fermentazione (digestato), tal quale o trattato, avvenga in terreni ubicati all’esterno del medesimo comprensorio”. Questa decisione è stata presa per evitare un incontrollabile incremento della contaminazione con spore di clostridi degli ambienti di produzione del latte, a seguito dell’utilizzo di insilati in associazione a effluenti zootecnici negli impianti a biogas e successivo spandimento dei digestati sui terreni a foraggere destinate all’alimentazione delle bovine da latte. I clostridi si moltiplicano durante la digestione anaerobica ed entrando nelle catene alimentari interferiscono con il processo di fermentazione del Parmigiano Reggiano, generando anidride carbonica all’interno delle forme.
All’origine dell’intervento della regione Emilia Romagna vi è uno studio del Crpa (2011) teso a verificare gli effetti del processo di digestione anaerobica sulla presenza di spore di clostridi introdotte negli impianti a biogas tramite liquami e colture dedicate. La sperimentazione ha dimostrato come il digestato proveniente dalla digestione di soli liquami abbia un contenuto di spore nettamente inferiore rispetto a quello ottenuto da liquami addizionati di insilati. In sostanza, nel caso di soli liquami le spore non si riproducono in modo significativo durante il processo anaerobico, ma nel caso in cui si utilizzino anche colture dedicate si è registrato un aumento importante. Per questo motivo la regione ha cercato di evitare la produzione di biogas da insilati nelle aree soggette al disciplinare del Parmigiano Reggiano per scongiurare conseguenze negative sulla filiera di un prodotto così importante per l’economia agroalimentare locale.
La questione è però ancora molto dibattuta e coinvolge movimenti di protesta sorti attorno alla costruzione di impianti a biogas che utilizzano insilati di mais. Alcuni ritengono che il regolamento della regione non sia abbastanza stringente, altri sostengono che sia parimenti critica la produzione di biogas anche soltanto con liquami zootecnici (Sahlström, 2003), sottolineando come durante la fermentazione anaerobica le spore di clostridi si trovino in una condizione ottimale per moltiplicarsi.
La critica al regolamento si muove a partire dalla possibilità degli allevatori aderenti al consorzio del Parmigiano Reggiano di reperire il 25% del foraggio all’esterno del comprensorio della Dop, sia in Italia che all’estero. Su questo foraggio è difficile mantenere il controllo e potrebbe anche provenire da aziende che producono biogas attraverso insilati, spargendo poi il digestato sui terreni.
La regione Piemonte, sulla scorta delle problematiche sorte in conseguenza della diffusione degli impianti, ha deliberato un disciplinare su tutti gli impianti a biomasse, introducendo delimitazioni molto importanti per le aree coinvolte nelle coltivazioni di prodotti di qualità. Le linee guida limitano di molto la possibilità di produrre energia da biogas con insilati nelle aree dove vi siano produzioni di qualità e filiere agroalimentari pregiate.

Considerazioni finali

Sul tema della competizione tra cibo ed energia vi è ancora molto da fare. In questo articolo, riducendo il campo di indagine al settore del biogas agricolo in Italia, abbiamo più che altro impostato un ragionamento metodologico su come affrontare la questione introducendo degli elementi di natura più qualitativa. Il rapporto tra produzione di cibo e di energia non si esaurisce, infatti, con il tema della competizione per l’utilizzo della terra, sul quale è necessario avere più conoscenze per riuscire a quantificare in modo rigoroso i cambiamenti nelle destinazioni d’uso. Bisogna indagare quali sono le conseguenze dell’intreccio tra sistemi energetici nascenti e sistemi agricoli sedimentati: nel caso che abbiamo accennato, se l’introduzione di tecnologie per la produzione di energia e alcuni modi di organizzare i processi possono incidere sulle filiere agroalimentari determinando inediti effetti secondari negativi. Sul tema specifico siamo di fronte ad una controversia, che coinvolge saperi esperti e ha risonanza pubblica attraverso l’azione di movimenti di protesta che per svariati motivi si oppongono alla realizzazione di alcuni impianti. Probabilmente alcuni sottovalutano il rischio della proliferazione dei clostridi ed altri lo sopravvalutano, ma è difficile come osservatori dipanare la questione e capire dove si potrebbe collocare la posizione più verosimile. Come in ogni controversia scientifica, è difficile capire dove inizia e dove finisce la neutralità del sapere scientifico e dove invece agiscono gli interessi degli attori in campo.
Di fatto, le politiche di incentivazione hanno già accolto alcune istanze di chi ha sviluppato ragionamenti critici sulla proliferazione degli impianti: i nuovi sistemi di incentivazione premiano gli impianti di taglia inferiore e che utilizzano i sottoprodotti anziché le colture dedicate, perseguendo una logica di integrazione (e non competizione con i sistemi agroalimentari). Fino ad oggi, però, gli impianti operativi sono sorti sulla scia del vecchio sistema di incentivazione e sarà necessario mantenerli monitorati per capire come e se interferiranno sul medio-lungo periodo.

Riferimenti bibliografici

  • Altieri M.A. (2002), “Agroecology: the science of natural resource management for poor farmers in marginal environments”, in Agriculture Ecosystems and Environment, vol. 93, pp. 1-24
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