La centrale a carbone e il silenzio della politica

di Nicola Stella da Il Secolo XIX

Perché devono essere i consulenti di una procura della Repubblica a dirci se un impianto industriale è pericoloso?

Il caso della centrale a carbone di Vado Ligure assomiglia nel suo piccolo (sempre che mille morti presunti vi paiano pochi) a quello dell’Ilva di Taranto e a tanti altri in cui la magistratura svolge di fatto un ruolo di supplenza rispetto alla politica. Ministero dell’Ambiente, Regione Liguria e Provincia di Savona hanno avuto più occasioni per fare l’interesse dei cittadini, che è quello di avere quantomeno le stesse probabilità di ammalarsi di tumore ai polmoni della media degli italiani.

 

L’ultima solo due anni fa, quando Tirreno Power ottenne l’autorizzazione ad ampliare la centrale realizzando un nuovo gruppo elettrogeno – si suppone e si dichiara – di più moderna concezione e di assai minore impatto rispetto a quelli attualmente in funzione. Ma proprio i vecchi gruppi, che la stessa Tirreno Power dichiara più inquinanti di dieci volte (in fatto di polveri sottili) rispetto a quelli futuri, potranno continuare a funzionare ancora per otto anni. Sembrerebbe sensato che i signori (personalizziamo responsabilità che ovviamente sono più estese) Prestigiacomo, Burlando e Vaccarezza, di fronte a denunce di comitati, cittadini e ordini dei medici, avessero dato di loro impulso un incarico serio di verifica, anziché trovarsi oggi di fronte alle conclusioni di un pool di esperti nominato da un pubblico accusatore che di mestiere si occupa di accertare se un reato sia stato commesso.

In realtà i comuni di Vado e Quiliano, nella loro ristrettezza di risorse, un incarico lo avevano affidato, nel 2011, ma i dati sulla mortalità prodotti dal loro consulente si fermavano al 2004. I dati successivi chi li ha? E perché non sono pubblici?

Le rinnovabili non sono cosa da Ragazzi

di Mario Agostinelli e Giovanni Carrosio

Dall’inizio del 2013 è stato sferrato un attacco pesantissimo alle rinnovabili da parte delle più grandi testate giornalistiche nazionali, ispirate ai comunicati delle lobby energetiche. Queste continuano a guardare di traverso e con insofferenza all’influenza ormai rilevantissima del solare, dell’eolico e del mini-idroelettrico, sulla struttura di produzione e di distribuzione elettrica nazionale. Evidentemente Enel, Eni e Assoelettrica hanno fatto male i loro conti quando hanno investito sull’esclusiva predominanza dei fossili. I loro manager poi, così abituati ad avere ai loro piedi l’establishment politico che li designa,  hanno chiesto ai politici e ai media di coprire loro le spalle influenzando l’opinione pubblica.

Così Il Corriere della Sera si è distinto per dare spazio ad interventi critici oltre misura nei confronti degli incentivi e delle politiche di innovazione in campo energeticoAlesina e Giavazzi  (due economisti non certo esenti da furore ideologico) si sono sbizzarriti, infilando ovunque l’argomento delle rinnovabili come cattivo esempio di politica neo-statalista. Addirittura, nella Giornata mondiale per l’Ambiente, un articolo a firma di Danilo Taino, dal taglio apertamente negazionista sulla crisi ambientale, ha sostenuto il fallimento del fotovoltaico in Italia, sia come politica industriale che come strumento per combattere il cambiamento climatico. Anziché fornire dati a sostegno di questa indifendibile tesi, ha argomentato con il peso degli incentivi nelle bollette e con le infiltrazioni mafiose nella costruzione dei grandi impianti fotovoltaici. Dal portale Lavoce.info e dal suo blog su Il Fatto Quotidiano online, poi, l’instancabile prof. Ragazzi ha rinvigorito la sua battaglia contro gli incentivi, spalleggiando il ministro Zanonato sulla necessità di tagliare i sussidi dalle bollette.

Forte di questa campagna mediatica, il ministro Zanonato, dopo un colossale infortunio sulla necessità di tornare al nucleare, si è gettato a testa bassa contro il caro bollette. Cosa ragionevole, se si ragionasse a 360 gradi, non imputando alle rinnovabili tutte le colpe dell’incremento dei prezzi dell’energia in Italia. L’obiettivo del ministro, a quanto emerso dalle sue dichiarazioni, è di tagliare di 3 miliardi il costo delle bollette spalmando su più anni i pagamenti in favore di chi ha diritto agli incentivi, o facendo pagare  gli oneri di sistema per ridurre il peso della componente A3 in bolletta.

Il prof. Ragazzi e l’onere della prova: chi l’ha detto che le rinnovabili fanno crescere il costo delle bollette?

È vero che il costo elettrico cresce ”perché abbiamo molti incentivi sulle rinnovabili”? Certamente c’è un effetto, ma ci sono molti vantaggi.  Ad esempio, lo studio di Althesys stima un “peak shaving” netto di 838 milioni di euro, grazie al fatto che con l’avvento delle rinnovabili il picco di prezzo non coincide più con la massima domanda di energia elettrica. Soprattutto, Ragazzi mette nell’oblio il problema della dipendenza del nostro paese dalle fonti fossili e la crescita continua dei loro prezzi. Negli ultimi dieci anni la bolletta media degli italiani è cresciuta nella voce “energia e approvvigionamento”, passando da 106 a 293 euro (+177% per famiglia). Per non parlare poi dei sussidi alle fonti fossili, gli oneri impropri, gli sconti ai grandi consumatori di energia elettrica, che ammontano a circa 6 milardi di euro (che il nostro mette in un unico mucchio con gli incentivi per Pv).

Il decreto Fare2: difendere la proprietà, incentivare il carbone e destrutturare il sistema delle rinnovabili

Che dire allora degli incentivi per il “carbone pulito”, dell’idea di caricare sugli autoproduttori i costi per aggiornare la rete, proprio mentre le “larghe intese” patteggiano il taglio dell’Imu? Non si può sorvolare sul fatto che, proprio per finanziare la cancellazione dell’Imu, è stato deciso un prelievo(300 milioni di eurodai fondi destinati a efficienza e rinnovabili. È come se questi 300 milioni fossero presi dagli oneri di sistema che tutti paghiamo nelle bollette e, quindi, come se fossimo costretti ad aumentare il peso del prelievo con la voce A3. Ma non basta. Nel decreto del Fare2 (articolo 3) si prevedono finanziamenti fino a 63 milioni di euro l’anno per venti anni per realizzare una centrale elettrica a carbone con cattura di CO2 nell’area del Sulcis, con un incentivo ventennale di 30 euro a megawattora prodotto (più degli scandalosi 28 euro/MWh per il biogas!). E chi pagherà? Il sistema elettrico nazionale, ancora con un prelievo in tariffa. Ovvero altri soldi a carico delle famiglie .

Se questa è la logica adottata, chi l’ha detto che il sostegno alle rinnovabili debba essere pagato dagli utenti e non piuttosto da chi inquina e ha finora scaricato sulla società tutte le esternalità che non hanno mai pagato?

L’assedio delle trivelle ai nostri mari e le complicità del ministro Zanonato

Giulio Meneghello – qualenergia.it
06 settembre 2013

 

Parole, parole, parole: un bluff che lascia i mari italiani ostaggio dei petrolieri. Se si vanno a guardare i fatti, si potrebbero tranquillamente definire così le dichiarazioni del ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato sul decreto di riordino delle zone marine da poco firmato (allegato in basso).

In un comunicato uscito l’altro ieri, il ministro annunciava che con il nuovo decreto del 9 agosto si determina un “quasi dimezzamento delle aree complessivamente aperte alle attività offshore, che passano da 255 a 139mila chilometri quadrati, spostando le nuove attività verso aree lontane dalle coste e comunque già interessate da ricerche di Paesi confinanti, nel rispetto dei vincoli ambientali e di sicurezza italiani ed europei”. In particolare, il decreto, spiegano dal MiSE, determina la chiusura a nuove attività delle aree tirreniche e di quelle entro le 12 miglia da tutte le coste e dalle aree marine protette, con la contestuale residua apertura di un’area marina nel mare delle Baleari, contigua ad aree di ricerca spagnole e francesi.

Finalmente, dunque, un provvedimento che difende i nostri mari e, come recita la nota ministeriale, “coniuga sviluppo e ambiente”? Niente affatto: “Zanonato fa il furbo etace sulla riapertura per le trivellazioni che, comprese tra le 5 miglia e le 12, erano state vietate da Prestigiacomo e che furono riammesse da Passera. Lui parla solo del futuro, che non era in discussione”, commenta Francesco Ferrante, vicepresidente del Kyoto Club.

Per capire occorre fare un passo indietro. Nel 2010, all’indomani del disastro del Golfo del Messico, seguito all’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon della BP, l’allora ministro dell’Ambiente Stafania Prestigiacomo, con il “correttivo ambientale” (decreto legislativo n.128 del 29 giugno 2010) aveva innalzato da 5 a 12 miglia marine(19 km) il limite entro il quale autorizzare prospezioni e ricerca di idrocarburi in prossimità di aree protette marine.
Uno sgarro ai petrolieri cui però si è prontamente rimediato: nel 2012 l’allora ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera con il cosiddetto decreto “Crescita” (Legge 22 giugno 2012, n. 83 convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, all’articolo 35) se da una parte ha confermato il limite delle 12 miglia, in quell’occasione esteso anche a tutte le coste, dall’altra ha condonato di fatto le richieste già in atto, specificando che dalle restrizioni sono fatti salvi i procedimenti concessori che erano in corso alla data di entrata in vigore del cosiddetto ‘correttivo ambientale’ del 2010.

Un condono che non viene minimamente scalfito dal nuovo decreto emanato da Zanonato il 9 agosto. Unica restrizione che il nuovo provvedimento aggiunge è la chiusura a nuove attività delle aree tirreniche. “Peccato che nessuno abbia mai pensato di andare a trivellare lì dato che di petrolio non ce n’è. Sarebbe come vietare di attingere acqua dal Sahara”, sottolinea ironico Ferrante.

“Le aree alle quali il decreto limita le ricerche sono quelle con maggiori prospettive, quelle che elimina sono invece quasi sempre state fuori dalle mire petrolifere”, gli fa eco Pietro Dommarco, autore del libro “Trivelle d’Italia”.

Risultato? Con il dimezzamento delle aree complessivamente aperte alle attività offshore e la conferma del limite delle 12 miglia sbandierate da Zanonato non cambia assolutamente nulla: i nostri mari continuano a essere assediati da chi li vorrebbe trivellare. Per rendersene conto basta confrontare la mappa con cui il ministero mostra le aree cui il nuovo decreto limita prospezioni e trivellazioni (a destra) con quella tratta dal dossier di Legambiente “Per un pugno di taniche”, nella quale si individuano le aree per le quali i petrolieri hanno manifestato interesse.

Al momento, mostra il dossier, ci sono 7 richieste per la coltivazione di nuovi giacimenti per un totale di 732 kmq individuati (ovvero dove le ricerche sono andate a buon fine), che andrebbero a sommarsi ai 1.786 kmq su cui già insistono le piattaforme attive; ci sono 14 i permessi di ricerca attivi per un totale di 6.371 kmq. Infine ci sono 32 richieste non ancora autorizzate per un totale di 15.574 kmq: in totale l’area di mare in cui si trivella o si vorrrebbe trivellare è di 24mila kmq, grande come la Sardegna. E’ in atto un vero assalto al mare italiano, in particolare all’Adriatico centro meridionale, allo Jonio e al Canale di Sicilia dove, oltre a quelle già attive, potrebbero presto sorgere decine di altre piattaforme. E il nuovo decreto emanato da Zanonato non farà nulla per fermarlo.

Tutto ciò come ricordano gli autori del dossier Legambiente “nonostante i numeri dimostrino l’assoluta insensatezza di continuare a puntare sul petrolio: il mare italiano, secondo le ultime stime del ministero dello Sviluppo economico, conserva come riserve certe, circa 10 milioni di tonnellate di greggio che, stando ai consumi attualidurerebbero in teoria per appena due mesi.

Così, alla trasformazione energetica che negli ultimi dieci anni ha portato ad una quasi completa uscita del petrolio dal settore elettrico, si risponde con un attacco senza precedenti alle risorse paesaggistiche e marine italiane, che favorirebbe soltanto l’interesse di pochi e sempre degli stessi: le compagnie petrolifere. Le realtà locali restano succubi di queste scelte scellerate: Regioni, Province e Comuni sono, infatti, ormai tagliate fuori dal tavolo decisionale. Il futuro, la bellezza, l’economia del nostro Paese viene svenduto ‘per un pugno di taniche’”.

Il decreto ministeriale del 9 agosto 2013

Colloqui di Dobbiaco: 29-29 settembre 2013

Colloqui di Dobbiaco 2013

Colloqui di Dobbiaco 2013

COLLOQUI DI DOBBIACO 2013
28/29
 Settembre 2013

Intraprendere la grande trasformazione

Ideatori: Wolfgang Sachs, Karl-Ludwig Schibel
Moderazione: Karl-Ludwig Schibel



Introduzione all’argomento

L’immagine dell’imprenditore nell’era del capitalismo globale non è buona. “Gli sfruttatori di Amazon”, agenzie interinali che frodano sistematicamente, imprenditori rapaci e criminali, 29 dirigenti dell’Ilva alla sbarra, corruzione e inquinamento ambientale.

Molta meno attenzione gode un gruppo in crescita di imprenditori che considerano il bene comune obiettivo cruciale del proprio agire e che non solo producono beni e servizi per il mercato ma intraprendono forme di produzione socialmente ed ecologicamente sostenibili, che non fanno più parte del problema ma della soluzione. La conversione ecologica avanzerà solo con l’impegno attivo del settore economico e degli uomini e delle donne che lo guidano.

Nei Colloqui di Dobbiaco 2013 i partecipanti discuteranno con i relatori il ruolo di imprenditori ecologicamente e socialmente sensibili per la trasformazione verso una società capace di futuro. Chi è riuscito e come di produrre come amico dell’ambiente e del futuro, e quali sono le indicazioni che queste storie di successo potrebbero diventare la nuova narrativa di una società migliore?

 

 


Colloqui
 di Dobbiaco

 

Nella località di Dobbiaco, punto di incontro tra due culture, dal 1985 al 2007 i “Colloqui di Dobbiaco” – ideati e organizzati da Hans Glauber – affrontarono ogni anno le tematiche ambientali di maggior rilievo proponendo di pari passo delle soluzioni concrete. Col passare degli anni i Colloqui di Dobbiaco si sono rivelati un prestigioso laboratorio d’idee per una svolta ecologica nell’arco alpino e non solo. Dopo la prematura scomparsa di Hans Glauber, il ruolo di “curatore” dei Colloqui di Dobbiaco è stato assunto da Wolfgang Sachs, dapprima con l’edizione 2008, intitolata “La giusta misura – La limitazione come sfida per l’era solare” e poi con l’edizione 2009 dedicata al tema “Osare più autarchia – Energie distribuite per le economie locali post-fossili”. Nel 2010 con Karl-Ludwig Schibel come l’altro ideatore e moderatore è stato affrontato il tema “Il denaro governa il mondo – ma chi governa il denaro? Percorsi per una finanza eco-solidale”, nel 2011 “Benessere senza crescita” e nel 2012 “Suolo: la guerra per l’ultima risorsa”. In piena continuità con lo spirito di Hans Glauber convinto fautore della nuova era solare come nuovo progetto di civiltà, i Colloqui di Dobbiaco nel 2013 saranno incentrati sul tema “Intraprendere la grande trasformazione.

 

Colloqui di Dobbiaco:

Nella località di Dobbiaco, punto di incontro tra due culture, dal 1985 al 2007 i “Colloqui di Dobbiaco” – ideati e organizzati da Hans Glauber – affrontarono ogni anno le tematiche ambientali di maggior rilievo proponendo di pari passo delle soluzioni concrete. Col passare degli anni i Colloqui di Dobbiaco si sono rivelati un prestigioso laboratorio d’idee per una svolta ecologica nell’arco alpino e non solo. Dopo la prematura scomparsa di Hans Glauber, il ruolo di “curatore” dei Colloqui di Dobbiaco è stato assunto da Wolfgang Sachs, dapprima con l’edizione 2008, intitolata “La giusta misura – La limitazione come sfida per l’era solare” e poi con l’edizione 2009 dedicata al tema “Osare più autarchia – Energie distribuite per le economie locali post-fossili”. Nel 2010 è stato affrontato il tema “Il denaro governa il mondo – ma chi governa il denaro? Percorsi per una finanza eco-solidale” e nel 2011 “Benessere senza crescita”.  In piena continuità con lo spirito di Hans Glauber convinto fautore della nuova era solare come nuovo progetto di civiltà, i Colloqui di Dobbiaco nel 2012 vengono diretti da Wolfgang Sachs e da Karl-Ludwig Schibel con il tema “Suolo: la guerra per l’ultima risorsa”.

L’appello di Alfonso Navarra per il digiuno del 7 settembre

In questi giorni decisivi, alla vigilia del voto al Congresso USA sul disco verde chiesto da Obama alla “punizione” di Assad, dovremmo concentrare intelligenze e forze sul compito urgentissimo di “prevenire una guerra mondiale” (non sottovalutiamo affatto questo rischio che diventa sempre più concreto nel groviglio Medio-orientale!).

Una guerra che sarebbe da stolti aggettivare perché tutti ne usciremmo

perdenti: occidentali, orientali, meridionali, cristiani, musulmani (sunniti e sciiti), ebrei, etc; e soprattutto i non schierati come la maggior parte di noi, espressione della “gente che suda e soffre”, appartenenti agli “uomini” e non ai “caporali” .

Da questo punto di vista mi sembra che, per fare qualcosa che incida positivamente proprio nella congiuntura presente, che cioé raccolga la volontà prevalente dell’opinione pubblica mondiale, sia stata concepita una importante proposta dal Forum del MIR: utlizzare la scadenza, di straordinaria importanza, indetta da Papa Francesco: la “giornata di digiuno e di preghiera” – il 7 settembre prossimo – che nello stesso nome ricorda, non a caso, una iniziativa nonviolenta che a suo tempo prese Gandhi, il 6 aprile 1919, dopo il massacro di Amistar perpetrato dalle truppe dei colonialisti inglesi.

Da anticlericale “storico”, ma non ideologico, mi sento di dire che stavolta il Papa, con vero coraggio, con accenti di lucidità profetica, ci ha davvero azzeccato, nella forma e nella sostanza del suo discorso!

Eccone alcuni passi: “Vogliamo ascoltare il grido della pace che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità. E’ il grido che dice con

forza: vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace, vogliamo che in questa nostra società dilaniata da divisioni e da conflitti scoppi la pace, mai più la guerra. La pace è un dono troppo prezioso che deve essere promosso e tutelato… Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza. Con tutta la mia forza chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi ma di guardare all’altro come a un fratello e di intraprendere con coraggio e decisione la via dell’incontro e del negoziato”…

Chi può, mi sento di dire, allestisca in piazza delle tende di digiunatori che, in sintonia con l’appello del Papa, sollecitino e meditino questi 4 punti che ho avanzato (sui quali anche il MIR sta lavorando per elaborarli e svilupparne il senso):

1- Cessate il fuoco tutti in Siria, trattative al posto dei combattimenti!

2- Aiuto alla popolazione civile massacrata dalle milizie di qualsiasi bandiera!

3- Embargo ONU su tutte le forniture di armi entro il territorio sirano!

4- No a bombardamenti “punitivi”: Obama, fermati!

(Non ci metto di mezzo la denulearizzazione euro-mediterranea, perché, pur giusta e fondamentale, non sarebbe compresa come congrua e tempestiva nel momento presente).

Mi sembra importante che, proprio in questo momento, si agisca per esprimere ed accrescere il consenso dei popoli che già c’è, non per confonderlo e disperderlo con le velleità di “denuncia anti-imperialista” a senso unico (si veda la fotografia apparsa di recente sul Corsera della manifestazione “pacifista” in cui viene impugnata la bandiera con la faccia di Assad!).

Personalmente ho deciso di disertare quelle manifestazioni che di “pacifista”, comunque vogliamo definire il termine, hanno le parole ma non uno spirito comunicabile e comprensibile. Quelle che invece di diminuire AUMENTANO DI FATTO IL CONSENSO ALL’INTERVENTO MILITARE.

La gente comune, nelle sue varie declinazioni, in Italia (e nel mondo) capisce subito chi ha in testa come preoccupazione principale

a- lo “smascheramento” dei “cattivi americani” (e, naturalmente, del loro “alleato sionista”);

oppure:

b) l’esigenza che, dal punto di vista di chi spera di vivere in pace, non si butti ulteriore benzina su un focolaio locale da cui può venire fuori un incendio globale.

Se vogliamo contribuire a spegnere l’incendio, proviamo – è il mio invito – ad usare l’acqua di un “discorso di comune umanità” e non la benzina delle polemiche fuori tempo e fuori luogo, volte inutilmente ad inchiodare “il più cattivo ed ipocrita del reame”.

Quest’ultimo – ripeto – è un terreno di sabbie mobili che porta a fondo le speranze di attivare dinamiche di pace, bene indicate da parole papali che mostrano di recepire alcuni pilastri di quella cultura nonviolenta “che è il cammino che dobbiamo imparare a percorrere”.