Il governo sia all’altezza della crisi ambientale

Il dibattito nel nostro Paese da tempo rincorre le emergenze istituzionali, economiche, sociali e ambientali che devono essere affrontate in questa situazione di crisi, quando sarebbe necessario procedere sulla strada di un risanamento che abbia al centro l’obiettivo della ri-conversione ecologica della nostra economia. C’è bisogno di una decisa azione di Governo per realizzare il green deal, il cambiamento verde necessario e utile ad affrontare la crisi e a garantire un futuro al nostro Paese,

 

Le scelte fatte negli ultimi anni sul piano istituzionale, insieme a quelle che si stanno profilando con la Manovra 2014, sembrano guardare più al passato che al futuro. Un esempio è la cura da cavallo che ha ridotto in questi anni in ginocchio il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e rischia, a meno che non ci sia una chiara e lungimirante inversione di tendenza, di farlo morire Se il Governo non ha intenzione di dare un chiaro segnale in tal senso, nel momento in cui si sta definendo il Bilancio di previsione 2014, diciamo provocatoriamente che sarebbe meglio non prolungare ipocritamente l’agonia di questo dicastero.

 

A 27 anni dalla sua nascita, il giovane Ministero, istituito nel 1986, rischia di scomparire a causa della progressiva erosione delle risorse che garantiscono l’efficacia e l’efficienza del governo dell’ambiente per i cittadini e per le imprese.

 

In questi anni il Ministero dell’ambiente è stato il più colpito da tagli della spending review e ridotto, nella sostanza ad un ministero senza portafoglio, di cui non viene garantita l’operatività e la necessaria e rigorosa professionalità:
– nel 2009 il bilancio del ministero ammontava a 1,649 miliardi di euro, nel 2010 era di 1,265 miliardi di euro ed oggi, nel 2013, è sceso a 468 milioni di euro, 306 dei quali destinati alle spese correnti che garantiscono l’attività ordinaria del Ministero;
– nessun dipendente del Ministero è sinora stato assunto per concorso, il personale è composto da funzionari trasferiti da altre amministrazioni e il rapporto (1:1) tra personale dipendente e precario è tra i più alti tra quelli dei dicasteri.

 

L’ulteriore riduzione delle capacità di prevenzione, d’intervento e di controllo del Ministero può avere conseguenze molto gravi per la nostra sicurezza, per la salute di noi tutti/e e per la tutela della natura, incidendo sulla nostra qualità della vita e sul nostro futuro. Riparare i danni ambientali ci costa molto più che prevenirli: il nostro Paese è tra quelli che colleziona più multe ambientali per infrazioni delle normative e delle regole europee, mentre la magistratura deve intervenire sempre più spesso sui disastri ambientali.

 

Il Ministero oggi riesce a malapena ad esercitare le sue funzioni tradizionali per la protezione della natura, della difesa del suolo, delle bonifiche, del controllo delle emissioni inquinanti e dei gas serra e della gestione del ciclo dei rifiuti e rischia di non avere risorse per affrontare le indispensabili tematiche di frontiera della green economy, dei piani di adattamento a cambiamenti climatici e delle strategie di de-carbonizzazione.

 

Nell’attuale situazione di crisi e di profonda trasformazione dell’Italia, è assolutamente necessario che il nostro Paese abbia una governance ambientale adeguata alla sfida ecologica ed economica necessaria a garantire il nostro comune futuro. E’ anche giunto il momento in cui si rivedano, per superare i limiti di calcolo del PIL, i parametri che servono a valutare il progresso della nostra società, proseguendo sulla strada aperta da CNEL e ISTAT con la elaborazione degli indicatori di benessere (BES).

 

Chiediamo al Governo di dare un segnale di speranza già con la prossima Manovra 2014. Sono necessarie scelte lungimiranti che spostino risorse sugli interventi necessari per la tutela del territorio, dell’ambiente, della salute. Bisogna rilanciare e non mortificare ancora il Ministero dell’Ambiente con ulteriori tagli di bilancio, garantendo risorse adeguate per una efficace ed efficiente governance ambientale dell’Italia, capace di futuro.

 

Appello promosso da:
Accademia Kronos, Ambiente Lavoro, CTS – Centro Turistico Studentesco e Giovanile, Fare Verde, FAI – Fondo Ambiente Italiano, Federazione Pro Natura, Fiab – Federazione Italiana Amici della Bicicletta, Fipsas – Federazione Italiana Pesca Sportiva e Attività Subaquee, INU – Istituto Nazionale Urbanistica, Italia Nostra, Lac – Lega Abolizione Caccia, Legambiente, LIPU, Mountain Wildness, SIGEA – Società Italiana di Geologia Ambientale, Touring Club Italiano, WWF Italia.

 

Se è il clima a preoccupare le imprese

di Mario Agostinelli

Le 35 pagine del sommario per i decisori politici del Quinto Rapporto Ipcc confermano, ancora una volta, la solidità della scienza del clima e l’ampiezza delle variazioni del clima del pianeta già avvenute e attese per i prossimi decenni. Mentre i governi continuano ad eludere la raccomandazione di adottare un bilancio globale delle emissioni di Co2 per tenere l’aumento di temperatura al di sotto di 2°C, molto si sta muovendo nel campo delle imprese.

Al di là del tributo umano ed ecologico, condizioni meteorologiche estreme comportano enormi costi economici. Peter Thorne, coordinatore Ipcc, afferma che la competitività delle imprese in Europa sarebbe gravemente colpita: “Le aziende dovranno guidare la carica, se vorranno rimanere a galla”. Nel mondo industriale e nel settore alimentare, si sta diffondendo un allarme per la portata dei rischi di un cambiamento climatico non gestito. Come riporta Qualenergiaun sondaggio condotto nel corso del 2012 dal Carbon Disclosure Project su 405 aziende tra le più grandi al mondo, conclude che il 37% di queste (erano appena il 10% nel 2010) vede già l’impatto dei cambiamenti climatici sul proprio business, mentre l’81% percepisce un rischio materiale.

Nel caso delle imprese energetiche la questione è ormai urgente. È di 531.000 miliardi di tonnellate il bilancio della Co2 già immessa. L’industria dei combustibili fossili ha quasi 3.000 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio immagazzinati nelle riserve conosciute di carbone, gas e petrolio: troppi per non superare 2°C. Ciò significa che molti combustibili fossili non potranno mai venire estratti. Queste aziende possono quindi valere molto meno di quello che stanno affermando, perché le “riserve” che hanno comprato in concessione non potranno mai essere bruciate. Gli investitori negli Stati Uniti e in tutto il mondo hanno già invitato le 40 maggiori aziende di combustibili fossili (Eni tra di esse) a valutare l’effettiva consistenza delle loro attività, se non sono in grado di utilizzare i loro beni, in gran parte “virtuali”.

L’industria automobilistica localizza i nuovi impianti solo in zone rigorosamente esenti da catastrofi ambientali e compete principalmente sulla riduzione delle emissioni dei veicoli. Per i produttori di abbigliamento e calzaturecome denunciano North Face, Timberland, Reef e Nautica, il cambiamento climatico rappresenta una minaccia molto reale. In particolare, i grandi acquirenti di cotone, non hanno garanzie di prezzi per una merce che può risentire di condizioni meteorologiche estreme, della diffusione dei parassiti e della scarsità d’acqua. La stagione sciisticaè mediamente ridotta di due settimane a causa del riscaldamento globale, che si traduce in un minor numero di sciatori e quindi un minor numero di persone che comprano abbigliamento invernale.

C’è poi una profonda preoccupazione nel settore assicurativo – lo affermano i Lloyd’s – dato che le perdite globali a causa di catastrofi ambientali sono in aumento. Solo negli stati Uniti, mentre la perdita annuale nel 1980 è stato di circa 10 milioni di dollari, negli ultimi anni la perdita è balzata a 50 milioni.

L’industria alimentare cerca di correre ai ripari e si schiera con l’Ipcc. La New Belgium Brewing Co., la terza più grande società di produzione di birra artigianale negli Usa, denuncia il pericolo della vulnerabilità al clima della sua catena di fornitura (orzo, luppolo e acqua). Starbucks si sta preparando alla possibilità di una grave minaccia per le forniture mondiali per il suo più prestigioso anello della catena (il chicco di caffè Arabica).

Secondo alcune tra le maggiori imprese ittiche europee (AG Seafood, Eismar, Norge) l’aumento della temperatura, l’acidificazione degli oceani e la carenza di ossigeno, che cresce con la temperatura, stanno producendo zone morte e modifiche negli ecosistemi oceanici, segnalati visibilmente dall’aumento delle popolazioni di meduse. Nell’Atlantico si stanno trovando sempre meno specie settentrionali e più specie meridionali, come l’ombrina atlantica, ormai diffusa sui banchi dei nostri supermercati. Il pesce spada si è spostato di 2000 Km a nord in Cile e l’hanno seguito con enormi disagi le colonie di pescatori siciliani emigrati.

Nel complesso, si tratta di un disastro che rischia di mettere in ginocchio l’industria della pescalocale. L’impatto si fa sentire anche sulla pesca d’allevamento. Circa il 65% dell’acquacoltura è in acque interne ed è concentrata per lo più nelle regioni tropicali e sub-tropicali dell’Asia, spesso nei delta dei grandi fiumi. L’innalzamento del livello del mare previsto per i prossimi decenni incrementerà la salinità dei fiumi, ripercuotendosi mortalmente sugli allevamenti ittici.

Insomma siamo al cortocircuito tra produzione, consumo e stili di vita con una unica via d’uscita: andare alla radice dei problemi, occuparsi del clima.

Acqua Terra Energia di Meregalli e Manunta

Acqua Terra Energia. Progettare il futuro in tempo di crisi inaugura BitBooks, la nuova collana di tascabili agili e leggeri (anche nel prezzo) dedicata agli approfondimenti e agli ultimi aggiornamenti sui temi da sempre al centro della produzione editoriale di MC.
Pensati per offrire uno strumento di informazione rapido ed economico, ideali per ogni scaffale e punto vendita, i Bitbooks sono adatti a essere letti e consultati sempre e ovunque, anche tramite dispositivi mobili in virtù dei rimandi a risorse digitali ed elementi multimediali comodamente raggiungibili grazie ai QR code integrati nel testo.
Gli effetti della crescente fame di energia sul pianeta sono rilevanti. Dove si colloca l’Italia in questo contesto? Abbiamo bisogno di nuove centrali? Di nuovo gas? Abbiamo le bollette elettriche più alte d’Europa? Il libro risponde a queste e altre domande, spiegando che il nostro paese ha sviluppato in maniera decisa il settore della generazione verde, obiettivo perseguito da molti paesi d’Europa e del mondo intero.
Come è possibile mantenere la gestione di questo bene comune sotto il controllo dei cittadini? Nonostante l’esito del referendum del 2011, continuano le manovre per tentare di smantellare i servizi pubblici e offrire ai privati ghiotte opportunità. In che modo? Quali sono i costi in bolletta di una gestione affidata al mercato? Quali sono i risultati della privatizzazione? Perché, in Europa, i Comuni decidono di tornare alla gestione interamente pubblica?
Perché la terra è sempre più oggetto di contesa? Si parla di cibo come petrolio del futuro: cosa sta succedendo all’agricoltura oggi? Quanto influisce la finanza sul prezzo del cibo nel piatto? E i cambiamenti climatici? È possibile assicurare a tutta l’umanità un’alimentazione buona, sana, sufficiente e sostenibile?
Roberto Meregalli si occupa di energia da venticinque anni. Ha all’attivo diverse pubblicazioni e articoli sul tema dell’economia e dell’energia. Partecipa alle Associazioni Beati i costruttori di pace e Energia Felice.

Marco Manunta, magistrato presso il Tribunale di Milano, segue da anni gli aspetti giuridici relativi alla gestione dell’acqua in ambito italiano e internazionale. È autore per MC di vari titoli della collana Hydor.

Non solo energia

di Mario Agostinelli

Si sta svolgendo qui un’utilissima discussione sui temi dell’energia: articolata e feconda sotto più punti di vista. Molti dei commenti a questo blog sostengono o confutano i singoli post sotto il profilo tecnico e/o economico. Almeno altrettanti si preoccupano di sopravvivenza, stili di vita e aspetti sociali, mettendo in relazione negativa gli sprechi presenti con le potenzialità future. Perché è sempre maggiore la convinzione che l’energia non riguardi solo le merci che ci circondano ma sia cruciale per ordinare la vita e le relazioni, così come per organizzare il lavoro e definire prospettive per la società e l’ambiente in cui viviamo.

Si potrebbe affermare che l’energia sia una misura del futuro. In natura gran parte dei processi sono irreversibili e, per alimentare la vita e far funzionare l’ambiente in cui essa si evolve, occorre energia utile per eseguire lavoro al presente, pur sapendo che sarà degradata e che verrà consegnato alle nuove generazioni un pianeta meno rinnovabile e con più scarti. Sappiamo poi che energia e scorrere del tempo fisico sono tra loro legati ed il loro prodotto ha le dimensioni fisiche di un’azioneche – una volta compiuta – è unica, anche se si sarebbe potuta completare in molti modi, lasciando tracce diverse.

Ecco perché qui si leggono non solo discussioni improntate a un punto di vista “ingegneristico” o quantitativo, ma emergono spunti caratteristici sotto il profilo comportamentale e della responsabilità sociale. Anche perché solo negli ultimi anni sono venuti alla ribalta problemi complessi, che non erano presi in considerazione ai tempi dell’invenzione della macchina a vapore, della diffusione dell’auto individuale o dell’elettricità. Temi che non si risolvono tecnicamente, mapoliticamente, nel senso di far partecipare alla loro messa in agenda una opinione pubblica correttamente informata.

Non è detto che chi ci governa o chi orienta l’economia abbia interesse a un corretto coinvolgimento dei cittadini, anzi! Come attesto in un esempio rilevante, può valere il contrario.

Il 20 agosto, il Global Footprint Network ci ha avvisato che in poco più di otto mesi abbiamo usato una quantità di prodotti naturali pari a quella che il pianeta rigenera in un anno (Overshoot Day). L’umanità sta utilizzando 1,5 volte la capacità globale di rigenerazione delle risorse. Addirittura l’Europa “ingoia” 2,66 volte la capacità del suo territorio di sostenere se stessa, mentre gli Stati Uniti arrivano a 4,16 volte.

Certamente questo saccheggio della parte rinnovabile del nostro mondo è corresponsabile del grande e crescente ricorso ai fossili e del riscaldamento della terra (cambiamento climatico), ma i giornali per primi ne parlano come di una notizia di cronaca, senza sottolineare come sarebbe possibile invertire la tendenza. I paesi “debitori ecologici” sono interessati a ridurre la loro dipendenza dalle risorse, mentre i creditori hanno un interesse economico, politico e strategico per preservare il loro capitale ecologico. E se si sentenziasse che la CO2 ci ha ingannato e così la facciamo finita? Di fatto La Repubblica ha dato il via alla notizia dell’inefficacia dei gas serra e Libero (Maurizio Stefanini, 11 aprile), gongolante, ha sparato: “Il riscaldamento globale non c’è, ma ci è già costato 300 miliardi”. Non poteva certo mancare Il Foglio, che ha sentenziato: “La catastrofe può attendere”. E tutto per un’estate intiepidita meno del solito.

Si dirà: la tesi del riscaldamento globale è crollata! Assolutamente no, ma negli articoli si sono spacciate per scientifiche autentiche bufale, insinuando dubbi che sono visti di buon occhio da poteri economici e politici ben saldi nel nostro Paese.

Naomi Oreskes (CMCC), storica della scienza dell’Università di San Diego, ha provato a dare una risposta a questi episodi, documentando con grande rigore come piccoli gruppi di scienziati abbiano messo in piedi campagne molto efficaci, grazie a connessioni politiche ed economiche di altissimo livello, per distrarre l’opinione pubblica dai reali pericoli messi in luce dalle scienze mediche e ambientali sugli effetti del fumo, l’esistenza delle piogge acide, e, soprattutto, le conseguenze del riscaldamento globale.

È facile far breccia, soprattutto in questa fase di crisi che si attribuisce solo alla malvagità della finanza. Sul tavolo abbiamo i problemi della grande specializzazione di un sapere scientifico molto tecnico e quindi separato dall’esperienza comune, e il problema di fenomeni e di previsioni scientifiche, che hanno un immediato valore politico e che possono orientare scelte su larga scala e produrre effetti di massa indesiderati. Se si scoprisse che la crisi finanziaria e il nostro fallimento nel contrastare il riscaldamento globale hanno la stessa causa nel fondamentalismo del libero mercato, cosa ne sarebbe della deriva neoliberista e dei governanti di quella che una volta era l’Europa sociale?

Energia Felice aderisce all’appello “La via maestra”

Milano, Settembre 2013

Ai promotori dell’appello “La via maestra !”

Come rappresentanti di una associazione che promuove la sostenibilità e i beni comuni riteniamo molto interessante il documento programmatico “La via maestra! Applichiamo la Costituzione”, che vede come primi firmatari Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Don Luigi Ciotti, Lorenza Carlassare, Maurizio Landini.

Al di là dell’adesione formale alla manifestazione nazionale del 12 ottobre, che qualcuno di noi a livello individuale e/o collettivo ha già dato, crediamo necessario continuare confronti, approfondimenti, coordinamenti e mobilitazioni comuni, in quello che il documento definisce “uno spazio pubblico informale”, ben più ricco dello spazio politico ufficiale, nel quale non siamo impegnati.

La difesa della Costituzione, con i diritti essenziali che sancisce, si fa innanzitutto  applicandola, inverandola nell’affrontare le contraddizioni sociali, economiche, ambientali che oggi stiamo vivendo in questa crisi molteplice. Nella quale si rischia vengano meno anche le garanzie per la protesta pacifica e le critiche documentate ai poteri forti – come sta accadendo in Val Susa, di fronte al trasporto insicuro delle scorie nucleari e nelle vertenze contro l’inquinamento dei grandi impianti energetici – oltre che una libera e imparziale informazione ai cittadini.

Proprio per delineare una uscita alternativa da questa crisi, noi crediamo che l’affermazione dei diritti fondamentali: lavoro, eguaglianza, welfare, beni comuni (che seppur non citati in questa forma sono comunque previsti dalla Carta costituzionale, a partire dall’art. 9 e 43) debba trovare una convergenza con le tante battaglie per fuoriuscire dalla crescita iniqua e per un cambio del “paradigma dello sviluppo”.

La riconversione del modello produttivo, affinché sia ambientalmente e socialmente sostenibile; la transizione verso una economia a minor intensità energetica, che possa funzionare a fonti rinnovabili e a basse emissioni di carbonio, implicano cambiamenti rilevanti e radicali nel modo di produrre, di consumare, di organizzare le città, incide sugli stili di vita collettivi e individuali. Tutto questo deve inverarsi nell’applicazione piena di tutti i diritti costituzionali, immaginando e realizzando una società diversa da quella che il neoliberismo cerca di imporre.

Per queste battaglie noi siamo disponibili al confronto e alla convergenza con tutti i soggetti sociali interessati, e proponiamo occasioni di incontro prima e dopo la manifestazione del 12 ottobre.

ASSOCIAZIONE ENERGIAFELICE