Il giorno delle energie rinnovabili

SILVIA COLANGELI – Il Manifesto
28.10.2013

Legambiente, Wwf, Greenpeace e imprenditori green in piazza. In via dei Fori Imperiali una intera giornata per chiedere nuove politiche energetiche. I sindaci: «Le politiche verdi sono convenienti»

 

Una nuova energia dai fori imperiali di Roma. L’Italia delle rinnovabili, convocata da Legambiente, Greenpeace e Wwf, si è fatta vedere e ascoltare per tutta la giornata approfittando della strada chiusa al traffico dall’amministrazione Capitolina. Dietro lo slogan «Il futuro passa per un’energia pulita ed efficiente», migliaia di cittadini, associazioni, imprenditori e rappresentanti delle istituzioni hanno pacificamente occupato l’antica via per dire sì a un rinnovamento concreto, che parta dall’ambiente.
Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, spiega: «Ogni tanto bisogna dare notizie positive, siamo arrivati al 35% della produzione di energia tramite rinnovabili, nel 2005 eravamo solo al 15%. Bisogna continuare così, ogni famiglia spende dai 2.500 ai 3.000 euro di bollette: i costi potrebbero essere dimezzati convertendoci al solare, alle biomasse, all’eolico». I promotori di «Mobilitiamoci per un’Italia rinnovabile» si pongono nel lungo termine quattro sfide che Legambiente considera ambiziose, ma da intraprendere. Primo l’autoproduzione dell’energia contro i divieti imposti dalla burocrazia e dalle leggi. Secondo la legalità, perché neanche l’energia green è più al sicuro dalle infiltrazioni mafiose. Terzo: stop al finanziamento delle energie fossili. Quarto: rilanciare il mercato dell’edilizia attraverso la riqualificazione energetica. Il rilancio del settore delle costruzioni all’insegna del rinnovabile è stato al centro del dibattito pomeridiano nello stand predisposto per le conferenze. Oltre ai rappresentanti delle associazioni, c’erano numerosi sindaci che parlavano della convenienza di politiche locali green dopo averle sperimentate. Per esempio il sindaco del piccolo centro toscano di Santaluce ha puntato sull’eolico col pieno consenso dei cittadini. «A volte – prosegue Zanchini – basta informare nella maniera corretta per evitare conflitti fra i gruppi di cittadini e le istituzioni».
Il Wwf, tra i promotori della manifestazione, con una divertente istallazione che riproduceva i panda in fuga dal carbone ha catturato l’attenzione di migliaia di passanti che si sono fatti fotografare dietro agli animali simbolo dell’associazione, aderendo in questo modo alla campagna «Riprendiamoci l’energia» che chiede lo stop a tutti i tipi di finanziamenti delle energie fossili. Anche i volontari di Greenpeace erano intenti a raccogliere le firme, questo mese con una ragione in più: tentare di liberare i 30 attivisti arrestati alla fine di settembre dalla polizia russa mentre protestavano contro le trivellazioni nell’Artico. Fra di loro il napoletano Cristian d’Alessandro e due giornalisti free lance. Dice Giorgia, volontaria del gruppo di Roma: «Oggi siamo in piazza con la campagna Save the artic e oltre a nuove politiche energetiche chiediamo al governo una maggiore attivazione per la liberazione dei nostri attivisti. La ministra Bonino si mostrata disponibile e la mamma di Alessandro ha scritto una lettera a Napolitano, ma interessi forti ci legano alla Russia quindi occorre agire con forza sul piano politico e diplomatico».
L’associazione Libera ha voluto sottolineare quanto è importante la lotta per l’ambiente per combattere la criminalità organizzata: «Quest’anno due grosse operazioni condotte dalle forze dell’ordine hanno dimostrato che anche il mercato delle energie è ormai contaminato dalle infiltrazioni mafiose. Dobbiamo impedire che questa espansione continui e chiediamo alle istituzioni italiane maggior impegno e collaborazione per combattere questi fenomeni». Consistente anche la presenza d’imprenditori e aziende «bio»: erano presenti Almaviva green e altri leader del settore, ma anche piccoli produttori di biomasse e pannelli solari che chiedono al governo capacità e volontà di programmazione. Spiega Maria Laura Cantarella Cattaneo, di Studio applicazione energia solare: «L’energia verde non è una cosa da ricchi, ma un percorso che tutti sappiamo di dover intraprendere. Il Governo dovrebbe facilitare la conversione alle rinnovabili togliendo incentivi ai combustibili fossili e programmando interventi e investimenti nel settore».

In festa per una Italia rinnovabile – 26 ottobre Roma

Ai Promotori della Manifestazione IN FESTA PER UNA ITALIA RINNOVABILE, Roma 26 ottobre

 

Come abbiamo convenuto nelle altre occasioni di confronto e presentazione dell’appello, è necessario dare seguito ai contenuti e agli impegni di quel testo, e a questo fine diamo la nostra adesione  alla  manifestazione/festa “PER UNA ITALIA RINNOVABILE” del 26 ottobre a Roma ai Fori Imperiali

http://www.oltreilnucleare.it/index.php?option=com_content&view=article&id=563:per-unitalia-rinnovabile&catid=17:blog-demo&Itemid=9

 

Per quanto riguarda le politiche energetiche e l’efficienza nel nostro paese, non sono ancora del tutto chiari i contenuti che saranno previsti nella legge di stabilità, attualmente in discussione, ma oltre a realizzare la stabilizzazione dei bonus fiscali, occorre innanzitutto contrastare l’attacco in atto contro lo sviluppo delle fonti rinnovabili e i benefici impropri ancora garantiti alle fonti fossili.

Infatti, da un lato, si propone di far pagare gli oneri di rete e di sistema all’energia da fonti rinnovabili autoprodotta e autoconsumata e, dall’altro, si ipotizzano sovvenzioni agli impianti termoelettrici per “compensare” (con buona pace del rischio di impresa) l’eccesso di capacità produttiva, dovuta a investimenti fatti senza nessuna programmazione da parte delle imprese del settore.

 

Più in generale, è necessario fare avanzare la transizione verso un altro modello energetico, che sia direttamente collegato a un altro paradigma di sviluppo. La crescita contemporanea di rinnovabili e fossili –  sostenuta da ultimo dalla relazione annuale dell’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas – non è credibile, a meno di mantenere le rinnovabili in condizione di marginalità.

 

Ad esempio, non è condivisibile la strategia di aumentare la coltivazione di giacimenti di idrocarburi,  anzi è necessario bloccare tutte le nuove trivellazioni ed in particolare quelle in mare, oltre che rivedere il meccanismo e i costi delle concessioni che, nel nostro paese, sono i più generosi per i petrolieri.

 

Ed invece, vanno difesi i settori della filiera delle rinnovabili e dell’efficienza energetica che si sono sviluppati nel nostro paese, che oggi invece sono in crisi, o minacciano la chiusura, come diverse aziende del solare e dell’eolico (come la Vestas di Taranto).

 

Certo, la transizione verso un modello a generazione distribuita comporta affrontare diverse criticità, a partire dall’ adeguamento dell’architettura complessiva delle reti (sviluppo sistemi di accumulo, smart grid, ecc.) e dalle prospettive e dalle collocazioni degli impianti, quelli da fonti rinnovabili (che devono mantenere la priorità di dispacciamento e dovranno crescere – anche con altre tipologie, es. eolico off-shore galleggiante) e quelli da fonti fossili (che dovranno diminuire, a partire da quelli più obsoleti e impattanti).

 

La gestione di un processo di questo tipo, non può essere governata solo dalle logiche di mercato e deve trovare anche una articolazione ai livelli regionali e territoriali, tenendo conto dell’adeguamento agli “obiettivi regionali in materia  di fonti rinnovabili e definizione della modalita’ di gestione dei  casi di mancato raggiungimento degli obiettivi da parte  delle  regioni  e delle provincie autonome” (c.d. Burden Sharing).

 

Naturalmente non si può far riferimento solo alla produzione elettrica, ma agli usi energetici complessivi (per il riscaldamento, il raffreddamento, la mobilità, ecc.) e quindi al massimo sviluppo dell’efficienza e del risparmio energetico e, più in generale, all’uso razionale e appropriato di tutte le risorse (acqua, rifiuti, ecc.) verificando tutte le condizioni di sostenibilità anche per lo sviluppo della cogenerazione, per l’uso di  biomasse, biogas, geotermia, ecc.

 

Tutto questo ha implicazioni significative sul sistema industriale, sia per quanto riguarda la produzione energetica e il suo utilizzo, che positivi riflessi occupazionali.

 

Gli attuali produttori da fonti fossili, invece di continuare a pretendere rendite di posizione, devono programmare la riconversione verso produzioni rinnovabili e nuovi servizi energetici.

 

Per tutti i comparti civili e industriali, la transizione verso un altro modello energetico, che tenda al massimo di efficienza energetica ed all’uso appropriato delle risorse, deve indurre significative innovazioni nei cicli produttivi, sancendo l’avvio di ipotesi concrete di riconversione ecologica, per le quali il ruolo dei sindacati per aprire confronti ai vari livelli è essenziale, anche dando seguito agli obiettivi di efficienza energetica convenuti nell’avviso comune Sindacati Confindustria del 2011.

Da questo punto di vista prendono rilievo alcune iniziative che federazioni di categoria (metalmeccanici, scuola e ricerca, edili, pensionati, ecc.) stanno mettendo in campo.

 

E’ necessario che lo sviluppo della ricerca applicata, la trasformazione delle competenze e la formazione delle opportune professionalità, sostengano la prospettiva di creare nuova occupazione e delineare una alternativa alla deindustrializzazione del nostro paese.

 

Infine, va ricordato che il positivo abbattimento del Prezzo Unico Nazionale dell’energia elettrica,  determinato dalla produzione da fonti rinnovabili, per effetto dell’attuale regolamentazione non si ripercuote sulle bollette dei consumatori, è pertanto necessaria una profonda revisione del sistema tariffario, peraltro già annunciato dall’Autorità per l’energia.

 

Su questi spunti, e su altri possibili, vi chiediamo di far circolare contributi, proposte e riflessioni, come qualcuno di voi aveva già annunciato e/o fatto, in quanto per far vivere i contenuti dell’appello è necessario un lavoro di approfondimento e di confronto, che coinvolga saperi scientifici e tecnici, e in particolare il mondo del lavoro e le stesse organizzazioni sindacali: è necessario – come recita l’appello – “un movimento articolato che veda protagonisti lavoratori, cittadini, movimenti e associazioni,  investendo tutti gli ambiti della produzione, del consumo, della organizzazione delle città, degli stili di vita collettivi e individuali”.

 

Anche a partire da questi contributi proponiamo di ritrovarci il 26 ottobre ai Fori imperiali  e contribuire a mettere in rete tutte le iniziative nazionali e territoriali utili  a costruire un “altro modello energetico”.

 

Roma, 17 ottobre 2013

 

 

Le Associazioni:

 

Si alle energie rinnovabili No al nucleare

Via Buonarroti 12, 00185 Roma –

www.oltreilnucleare.it  info@oltreilnucleare.it

 

Energia Felice

Via Nicola Antonio Porpora, 113 – 20131 Milano –

www.energiafelice.it  info@energiafelice.it

 

CEPES

Via Sanpolo 49, Palermo

www.notcepes.net  cscepes@tiscali.it

Bollette, politica energetica e legge di stabilità

Nel 2013 i consumi elettrici registreranno il secondo anno consecutivo di calo: la stima corrente è di una domanda inferiore ai 320 miliardi di chilowattora (TWh) a fine anno, riportandoci all’anno 2002.

Non c’è solo la crisi: c’è anche un nuovo orientamento a ridurre i consumi e a ricorrere all’autoproduzione in piccoli impianti diffusi con un crescente utilizzo di fonti rinnovabili, che dovrebbe suggerire una politica industriale ed energetica che questo Governo, che ha burocraticamente riconfermato il consenso alla Strategia Energetica Nazionale improvvisata da Monti (v. http://www.energiafelice.it/strategia-energetica-nazionale/), non ha minimamente in testa. Anzi, la tendenza a superare il modello dell’energia fossile è ostacolata maliziosamente attraverso i messaggi diffusi a piene mani dai media sul costo dell’elettricità: è troppo elevato rispetto al resto dell’Europa e la colpa è della crescita degli oneri in bolletta che coprono gli incentivi alle rinnovabili.

Allora, vediamo un pò. In base ai dati RSE (v. http://www.rse-web.it), la maggior parte delle famiglie italiane paga 193 euro per ogni MWh consumato, il 6,73% in meno rispetto alla media europea. Anche le industrie che consumano quantità enormi di elettricità pagano di meno. Il problema riguarda le imprese piccole e medie (ovvero il nerbo del nostro sistema industriale): le prime pagano ogni MWh 233 euro (+37% rispetto all’Europa), quelle che “bruciano” fra 500 MWh e 2 GWh pagano 212 euro per MWh, (+47%). E’ chiaro come sia la tariffa di queste imprese che vada ridotta per difendere il lavoro e questo è un problema di cui la legge di stabilità di Letta non si è concretamente occupata. E’ altrettanto chiaro che il costo dell’elettricità inizia dove l’elettricità viene prodotta e quindi venduta nella borsa elettrica. E nella borsa italiana il prezzo medio, che vale per tutti i tipi di consumatore, è più elevato di quello di Germania e Francia, perché sui mercati il prezzo lo fa principalmente la fonte marginale, che in Italia è il gas (la fonte più cara), in Germania il carbone (la fonte più sporca), in Francia il nucleare (la fonte più pericolosa).

Per abbassare il prezzo all’ingrosso eliminando la differenza di 20 euro al MWh fra noi e la Germania – a parte l’extracosto dovuto all’obsolescenza degli impianti di collegamento con le isole –  o aumentiamo il numero di centrali a carbone o facciamo progressivamente diventare le rinnovabili la fonte marginale. Esattamente il contrario della politica energetica del governo in carica, che, oltretutto, avrebbe potuto togliere in bolletta costi che non c’entrano niente con i normali consumatori. Per fare un esempio “intrigante”, perché non tagliare i 70 milioni dati ai piccoli produttori nelle isole per usare generatori diesel, quando si potrebbe avviare un progetto di “rinnovabili 100%” in due regioni – Sicilia e Sardegna -invase dal sole e dal vento? E perché, visto l’attuale mix di fonti, non applicare al metano – la fonte più utilizzata – un’IVA inferiore al 22%? Capisco che i big europei (Eni, Enel, GasTerra, GdfSuez, Iberdrola, Rwe, E.ON, Gas Natural Fenosa, Vattenfall e Cez) hanno sollecitato i governi a far pagare anche a chi ricorre a fonti rinnovabili i costi di gestione del sistema, evocando una guerra FER-Fossili che richiama le ubbie ottocentesche all’arrivo della strada ferrata e che sembra attrarre il ministro Zanonato e mettere in ambascie la CGIL.

Ma non sarebbe ormai il caso di sostenere la generazione distribuita con regole che consentano a chiunque di vendere la produzione del proprio tetto fotovoltaico al vicino senza passare dalla rete, visto che oggi il fotovoltaico produce a 150 euro al MWh, mentre il prezzo finale via rete è di 193 euro? E non si potrebbe affidare un compito speciale alle vecchie aziende municipalizzate, più vicine ai cittadini, che invece hanno scimmiottato le grandi utility, investendo – come A2A – in cicli combinati a gas ora fermi?

E, infine, di cosa si occupa il Ministero dell’Ambiente se non ottiene finanziamenti certi per la definizione del piano di adattamento ai cambiamenti climatici o per un progetto di decarbonizzazione e se perfino la Strategia Energetica Nazionale non viene sottoposta alla valutazione ambientale strategica (VAS)?

 

Sabato 26 ottobre 2013, per l’intera giornata dalle 10, in via dei Fori Imperiali a Roma si svolgerà un evento-manifestazione che offrirà la possibilità di conoscere direttamente come sono fatti gli impianti e poi di discutere, confrontarsi, definire scenari di sviluppo nel nostro Paese del contributo delle energie pulite e delle possibilità della riqualificazione energetica. La svolta realizzata in questi anni con oltre 600mila impianti distribuiti nel nostro Paese e oltre il 30% dei fabbisogni soddisfatti con fonti pulite non va fermata in nome di una “stabilità”, che sembra solo uno stare al palo degli interessi consolidati.

Il governo sia all’altezza della crisi ambientale

Il dibattito nel nostro Paese da tempo rincorre le emergenze istituzionali, economiche, sociali e ambientali che devono essere affrontate in questa situazione di crisi, quando sarebbe necessario procedere sulla strada di un risanamento che abbia al centro l’obiettivo della ri-conversione ecologica della nostra economia. C’è bisogno di una decisa azione di Governo per realizzare il green deal, il cambiamento verde necessario e utile ad affrontare la crisi e a garantire un futuro al nostro Paese,

 

Le scelte fatte negli ultimi anni sul piano istituzionale, insieme a quelle che si stanno profilando con la Manovra 2014, sembrano guardare più al passato che al futuro. Un esempio è la cura da cavallo che ha ridotto in questi anni in ginocchio il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e rischia, a meno che non ci sia una chiara e lungimirante inversione di tendenza, di farlo morire Se il Governo non ha intenzione di dare un chiaro segnale in tal senso, nel momento in cui si sta definendo il Bilancio di previsione 2014, diciamo provocatoriamente che sarebbe meglio non prolungare ipocritamente l’agonia di questo dicastero.

 

A 27 anni dalla sua nascita, il giovane Ministero, istituito nel 1986, rischia di scomparire a causa della progressiva erosione delle risorse che garantiscono l’efficacia e l’efficienza del governo dell’ambiente per i cittadini e per le imprese.

 

In questi anni il Ministero dell’ambiente è stato il più colpito da tagli della spending review e ridotto, nella sostanza ad un ministero senza portafoglio, di cui non viene garantita l’operatività e la necessaria e rigorosa professionalità:
– nel 2009 il bilancio del ministero ammontava a 1,649 miliardi di euro, nel 2010 era di 1,265 miliardi di euro ed oggi, nel 2013, è sceso a 468 milioni di euro, 306 dei quali destinati alle spese correnti che garantiscono l’attività ordinaria del Ministero;
– nessun dipendente del Ministero è sinora stato assunto per concorso, il personale è composto da funzionari trasferiti da altre amministrazioni e il rapporto (1:1) tra personale dipendente e precario è tra i più alti tra quelli dei dicasteri.

 

L’ulteriore riduzione delle capacità di prevenzione, d’intervento e di controllo del Ministero può avere conseguenze molto gravi per la nostra sicurezza, per la salute di noi tutti/e e per la tutela della natura, incidendo sulla nostra qualità della vita e sul nostro futuro. Riparare i danni ambientali ci costa molto più che prevenirli: il nostro Paese è tra quelli che colleziona più multe ambientali per infrazioni delle normative e delle regole europee, mentre la magistratura deve intervenire sempre più spesso sui disastri ambientali.

 

Il Ministero oggi riesce a malapena ad esercitare le sue funzioni tradizionali per la protezione della natura, della difesa del suolo, delle bonifiche, del controllo delle emissioni inquinanti e dei gas serra e della gestione del ciclo dei rifiuti e rischia di non avere risorse per affrontare le indispensabili tematiche di frontiera della green economy, dei piani di adattamento a cambiamenti climatici e delle strategie di de-carbonizzazione.

 

Nell’attuale situazione di crisi e di profonda trasformazione dell’Italia, è assolutamente necessario che il nostro Paese abbia una governance ambientale adeguata alla sfida ecologica ed economica necessaria a garantire il nostro comune futuro. E’ anche giunto il momento in cui si rivedano, per superare i limiti di calcolo del PIL, i parametri che servono a valutare il progresso della nostra società, proseguendo sulla strada aperta da CNEL e ISTAT con la elaborazione degli indicatori di benessere (BES).

 

Chiediamo al Governo di dare un segnale di speranza già con la prossima Manovra 2014. Sono necessarie scelte lungimiranti che spostino risorse sugli interventi necessari per la tutela del territorio, dell’ambiente, della salute. Bisogna rilanciare e non mortificare ancora il Ministero dell’Ambiente con ulteriori tagli di bilancio, garantendo risorse adeguate per una efficace ed efficiente governance ambientale dell’Italia, capace di futuro.

 

Appello promosso da:
Accademia Kronos, Ambiente Lavoro, CTS – Centro Turistico Studentesco e Giovanile, Fare Verde, FAI – Fondo Ambiente Italiano, Federazione Pro Natura, Fiab – Federazione Italiana Amici della Bicicletta, Fipsas – Federazione Italiana Pesca Sportiva e Attività Subaquee, INU – Istituto Nazionale Urbanistica, Italia Nostra, Lac – Lega Abolizione Caccia, Legambiente, LIPU, Mountain Wildness, SIGEA – Società Italiana di Geologia Ambientale, Touring Club Italiano, WWF Italia.

 

Se è il clima a preoccupare le imprese

di Mario Agostinelli

Le 35 pagine del sommario per i decisori politici del Quinto Rapporto Ipcc confermano, ancora una volta, la solidità della scienza del clima e l’ampiezza delle variazioni del clima del pianeta già avvenute e attese per i prossimi decenni. Mentre i governi continuano ad eludere la raccomandazione di adottare un bilancio globale delle emissioni di Co2 per tenere l’aumento di temperatura al di sotto di 2°C, molto si sta muovendo nel campo delle imprese.

Al di là del tributo umano ed ecologico, condizioni meteorologiche estreme comportano enormi costi economici. Peter Thorne, coordinatore Ipcc, afferma che la competitività delle imprese in Europa sarebbe gravemente colpita: “Le aziende dovranno guidare la carica, se vorranno rimanere a galla”. Nel mondo industriale e nel settore alimentare, si sta diffondendo un allarme per la portata dei rischi di un cambiamento climatico non gestito. Come riporta Qualenergiaun sondaggio condotto nel corso del 2012 dal Carbon Disclosure Project su 405 aziende tra le più grandi al mondo, conclude che il 37% di queste (erano appena il 10% nel 2010) vede già l’impatto dei cambiamenti climatici sul proprio business, mentre l’81% percepisce un rischio materiale.

Nel caso delle imprese energetiche la questione è ormai urgente. È di 531.000 miliardi di tonnellate il bilancio della Co2 già immessa. L’industria dei combustibili fossili ha quasi 3.000 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio immagazzinati nelle riserve conosciute di carbone, gas e petrolio: troppi per non superare 2°C. Ciò significa che molti combustibili fossili non potranno mai venire estratti. Queste aziende possono quindi valere molto meno di quello che stanno affermando, perché le “riserve” che hanno comprato in concessione non potranno mai essere bruciate. Gli investitori negli Stati Uniti e in tutto il mondo hanno già invitato le 40 maggiori aziende di combustibili fossili (Eni tra di esse) a valutare l’effettiva consistenza delle loro attività, se non sono in grado di utilizzare i loro beni, in gran parte “virtuali”.

L’industria automobilistica localizza i nuovi impianti solo in zone rigorosamente esenti da catastrofi ambientali e compete principalmente sulla riduzione delle emissioni dei veicoli. Per i produttori di abbigliamento e calzaturecome denunciano North Face, Timberland, Reef e Nautica, il cambiamento climatico rappresenta una minaccia molto reale. In particolare, i grandi acquirenti di cotone, non hanno garanzie di prezzi per una merce che può risentire di condizioni meteorologiche estreme, della diffusione dei parassiti e della scarsità d’acqua. La stagione sciisticaè mediamente ridotta di due settimane a causa del riscaldamento globale, che si traduce in un minor numero di sciatori e quindi un minor numero di persone che comprano abbigliamento invernale.

C’è poi una profonda preoccupazione nel settore assicurativo – lo affermano i Lloyd’s – dato che le perdite globali a causa di catastrofi ambientali sono in aumento. Solo negli stati Uniti, mentre la perdita annuale nel 1980 è stato di circa 10 milioni di dollari, negli ultimi anni la perdita è balzata a 50 milioni.

L’industria alimentare cerca di correre ai ripari e si schiera con l’Ipcc. La New Belgium Brewing Co., la terza più grande società di produzione di birra artigianale negli Usa, denuncia il pericolo della vulnerabilità al clima della sua catena di fornitura (orzo, luppolo e acqua). Starbucks si sta preparando alla possibilità di una grave minaccia per le forniture mondiali per il suo più prestigioso anello della catena (il chicco di caffè Arabica).

Secondo alcune tra le maggiori imprese ittiche europee (AG Seafood, Eismar, Norge) l’aumento della temperatura, l’acidificazione degli oceani e la carenza di ossigeno, che cresce con la temperatura, stanno producendo zone morte e modifiche negli ecosistemi oceanici, segnalati visibilmente dall’aumento delle popolazioni di meduse. Nell’Atlantico si stanno trovando sempre meno specie settentrionali e più specie meridionali, come l’ombrina atlantica, ormai diffusa sui banchi dei nostri supermercati. Il pesce spada si è spostato di 2000 Km a nord in Cile e l’hanno seguito con enormi disagi le colonie di pescatori siciliani emigrati.

Nel complesso, si tratta di un disastro che rischia di mettere in ginocchio l’industria della pescalocale. L’impatto si fa sentire anche sulla pesca d’allevamento. Circa il 65% dell’acquacoltura è in acque interne ed è concentrata per lo più nelle regioni tropicali e sub-tropicali dell’Asia, spesso nei delta dei grandi fiumi. L’innalzamento del livello del mare previsto per i prossimi decenni incrementerà la salinità dei fiumi, ripercuotendosi mortalmente sugli allevamenti ittici.

Insomma siamo al cortocircuito tra produzione, consumo e stili di vita con una unica via d’uscita: andare alla radice dei problemi, occuparsi del clima.