Rifiutiamoci!

Il 16 Novembre si svolgeranno tre manifestazioni di enorme rilevanza nazionale: in Val di Susa, a Pisa e a Napoli.

“A Susa ci sarà la manifestazione del movimento NoTav contro la distruzione e l’occupazione militare della valle; a Pisa contro lo sgombero del Municipio dei Beni Comuni (ex colorifico); a Napoli si svolgerà la manifestazione “Stop Biocidio” contro le devastazioni ambientali e per il diritto alla salute.” (ndr, nota tratta dal comunicato del FIMA di cui a breve verrà reso pubblico in toto).

RFIUTIAMOCI!

di Alex Zanotelli

La Campania è una terra avvelenata e violentata. Perché la gente sta reagendo? Va ricordato che a partire dai primi anni ’90 – quando l’Italia non ha più potuto esportare e seppellire i propri rifiuti tossici in Somalia (a causa della caduta del regime di Siad Barre, con il quale intratteneva fruttuosi rapporti) – è stato deciso che l’industria del centro-nord poteva smaltire materiali tossici in Campania.
Interessate soprattutto tre aree. Il cosiddetto “triangolo della morte”, cioè la zona di Nola, Acerra e Marigliano, dove appunto molte persone stanno morendo di tumore a causa dei rifiuti. Il secondo è l’agro Aversano, in provincia di Caserta dove sono stati sversati anche i rifiuti tossici di Marghera. Ciò è avvenuto in virtù di un “contratto” siglato tra industria del nord e camorra. Nella partita c’è anche l’industria campana.
La terza area è la “terra dei fuochi”, al nord di Napoli. Un territorio che comprende Giugliano, Villaricca, Frattamaggiore fino a Casal di Principe e oltre. Qui si è continuato a bruciare di tutto con quello che ne consegue per la salute pubblica. E qui, a Giugliano, si vuole costruire un inceneritore da 480 milioni di euro. Siamo al paradosso.
I commissari straordinari che si sono occupati della questione dei rifiuti nella regione hanno fatto la scelta degli inceneritori e delle megadiscariche. Per costruire quello di Acerra ci sono voluti otto anni. Nel frattempo hanno impacchettato i rifiuti, 8 milioni di tonnellate di “eco-balle” (così definite per spacciarle come ecologiche), e li hanno stivati in un’area fuori Giugliano. Con un costo di almeno 2 miliardi di euro. Il movimento che si occupa dei rifiuti si è opposto a questo scempio, ma non c’è stato nulla da fare. E adesso salta fuori che il governo vuole costruire un inceneritore a Giugliano per smaltire le eco-balle.
Da qui nasce la rabbia della gente contro fuochi e sversamenti: manifestazioni, incontri e appelli. Un punto di riferimento è don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, che ha dato una grossa mano per far partire questo movimento popolare che vede anche la partecipazione di parrocchie e comunità cristiane. Manifestazioni si sono tenute l’11 settembre a Giugliano: mi ha impressionato vedere mobilitarsi una “città-morta” come questa; il 12 settembre a Capua per dire no al biogassificatore (una tecnologia che trae energia dalle biomasse); l’8 di ottobre, con una marcia da Aversa a Giugliano; poi si è manifestato anche a Napoli, per contestare la gara d’appalto per la costruzione dell’inceneritore di Giugliano.
È molto bello sentire la presenza del popolo. Certo c’è il rischio che queste mobilitazioni siano utilizzate da taluni politici per rilanciarsi… Del resto ci sono altri pericoli, soprattutto quello indignarsi senza proporre qualcosa di nuovo, altre vie percorribili.
Il governo vuole bonificare le aree inondate di rifiuti. Ma la camorra potrebbe infiltrarsi anche qui e trarre soldi dalle bonifiche come li ha tratti dallo sversamento dei rifiuti.
Il 16 di novembre c’è un’altra manifestazione a Napoli. Quello che si chiede è il riciclo totale. Il governo Berlusconi ha puntato su 4 inceneritori e 12 megadiscariche per la Campania. Noi puntiamo sul riciclo come unica maniera per evitare che la Campania si avveleni ulteriormente. Come missionario, credo nel Dio della vita e sento che Lui mi porta all’impegno concreto in difesa della vita e della Madre Terra che non sopporta più l’“homo demens”.

Zanonato, ministro del secolo scorso

di Francesco Ferrante – qualenergia.it
08 novembre 2013

Ecomondo e Key Energy sono ancora in corso a Rimini, ma si può già senz’altro commentare la conferma del successo di una delle poche fiere che regge in questo periodo di crisi. Un successo in termini di presenze e vitalità che a sua volta conferma come la green economy possa davvero essere, se supportata e non ostacolata, la spina dorsale di quella ripresa economica di cui tutti parlano, ma per la quale in pochi fanno le cose utili a renderla possibile.

E dentro questo successo un ruolo fondamentale lo hanno svolto gli Stati generali della green economy organizzati dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile presieduta da Edo Ronchi. Anche qui straordinaria la partecipazione che ha concluso un lungo percorso di elaborazione (originale anche nel metodo) delle associazioni di imprese che hanno dato vita al Consiglio nazionale della green economy e il cui frutto sono le 10 proposte del dibattito.

Però … sì, di fronte al bel successo di questi giorni riminesi si delinea un gigantesco “però” che ha le sembianze dell’attuale ministro dello Sviluppo Economico. La vitalità delle imprese della green economy è una condizione necessaria per pensare a una ripresa dell’economia, a maggiori opportunità di lavoro, a un futuro più pulito. Ma non è sufficiente. Serve anche una politica in grado di fare le regole giuste affinché quella vitalità si possa dispiegare in tutta la sua forza e non trovi invece continuamente ostacoli. E qui stiamo ancora molto distanti.

C’è infatti un solo aggettivo per commentare l’intervento con cui Zanonato ha concluso gli Stati generali della green economy: sconcertante.

Per citarne solo alcuni passaggi, il ministro ha affermato che “se non ripartono crescita e sviluppo altre ipotesi di uscita dalla crisi sono non realistiche; suggestive, ma non realistiche” e ha ripescato a piene mani nel repertorio dei conservatori del mondo dell’energia che ben conosciamo: parlando dell’elevato costo dell’energia, sminuendo il ruolo delle rinnovabili, che “pesano nella soddisfazione della richiesta di nazionale per ‘appena’ 92 terawattora su circa 300 di fabbisogno”, mettendo l’accento sul fatto che l’aiuto ai settori low carbon deve essere cost-effective. Unica preoccupazione di Zanonato sembra essere il costo elevato delle bollette elettriche. Problema rilevante per carità, come più volte affermato anche su QualEnergia.it, ma che questo ministro imputa alle rinnovabili e solo alle rinnovabili.

Parole talmente lontane dagli argomenti trattati da vanificare la buona impressione che aveva lasciato il ministro dell’Ambiente Orlando il giorno prima. Sembra di essere come spesso è avvenuto in presenza di buone intenzioni espresse da chi siede al ministero dell’Ambiente che poi non trovano sostanza nelle politiche di governo, perché le scelte concrete si scontrano con un’attitudine del ministero dello Sviluppo Economico che da Romani a Passera per arrivare a Zanonato, è ben più attento alla conservazione che non all’innovazione.

Il Ministro ieri evidentemente non ha capito chi aveva di fronte (appunto la parte più vitale dell’economia italiana che lui dovrebbe appunto ‘sviluppare’); e onestamente i contenuti del suo intervento sono apparsi il frutto di una cultura industrialista incapace di accorgersi che siamo nel terzo millennio.  E infatti evidente è stata la delusione di tutta la platea, non solo della truppa ambientalista presente, ma anche dei presidenti dei consorzi, di imprenditori, tutto sommato moderati, alcuni persino un po’ attempati, che non si capacitavano per un discorso che forse si poteva accogliere con qualche interesse negli anni ’80 del secolo scorso.

E così anche da Rimini si esce con la convinzione che sia più urgente che mai affrontare il nodo della rappresentanza politica dei temi, delle esigenze, di quelle 10 proposte che gli Stati Generali hanno generosamente offerto e che il ministro padovano, simbolo di una politica inadeguata, ha lasciato cadere nel nulla.

Ue e Italia a marcia indietro su clima e ambiente

di Mario Agostinelli – IlFattoQuotidiano 4 novembre 2013

Siamo a pochi mesi dalle elezioni europee e dal semestre europeo affidato all’Italia. Si direbbe che i governi e le classi dirigenti del vecchio continente facciano di tutto per spegnere la speranza di futuro dei loro cittadini e aumentare la distanza tra società e politica.

L’Ue, che aveva a lungo sostenuto una posizione avanzata e attenta sulla tutela dell’ambiente e sulla difesa dai cambiamenti climatici, sta compiendo una svolta che offusca definitivamente la sua funzione di punta nel panorama mondiale. Sotto la pressione del mondo finanziario e delle grandi corporation, ogni giorno viene sfondato un argine da cui tracimano gli interessi privati e la spoliazione dell’ambiente naturale, sempre più apertamente sostenuti dai rappresentanti dei governi, Italia in testa. I tre episodi qui sotto riportati sono più convincenti di qualsiasi astratta argomentazione.

  1. La Commissione ha deciso di sospendere i finanziamenti per i progetti locali, bloccando le sovvenzioni alle piccole azioni diffuse per la mitigazione degli effetti climatici (un programma da 864 milioni di euro per il 2014) per sostituirle con prestiti privati. Si trattava di interventi sulle foreste e le torbiere, per la costruzione di percorsi di attraversamento della fauna selvatica con garanzia di corridoi ecologici, per la riduzione delle emissioni di gas serra nel settore lattiero-caseario e – caso curioso, ma molto rilevante per la conservazione della biodiversità – per la protezione della foca degli anelli nei laghi finlandesi. Molti sarebbero stati gli enti locali, gli istituti accademici e le organizzazioni non governative destinatari di questi fondi: tra di essi quelli spagnoli e italiani sono i più numerosi. Purtroppo dal nostro governo… silenzio tombale. Si conferma così l’approvazione di una tendenza più ampia a utilizzare i fondi pubblici come capitale di rischio per il settore privato, come già sta succedendo per i piani nucleari del governo britannico e per le proposte di infrastrutture energetiche dell’UE.
  2. A ruota di un’analoga presa di posizione dei top manager delle più importanti industrie energetiche europee (v. il post precedente in questo blog), i ministri dello sviluppo economico e dell’industria di nove Stati membri dell’UE, fra cui il nostro Zanonato, hanno emesso una nota congiunta sulla crisi dell’industria europea in cui si afferma che “è necessario che la Commissione analizzi il differenziale di competitività fra l’Europa e le altre economie avanzate, prodotto dal divario nei prezzi dell’energia e dagli impegni in materia di riduzione delle emissioni di CO2 e di produzione da fonti rinnovabili” e che si dovrà entro febbraio 2014 ridurre questo “differenziale di competitività”. È la prima volta che in Europa l‘attacco alle rinnovabili assume una dimensione sovranazionale. Ci si muove a testa bassa e al di fuori degli organi collegiali dell’Unione contro lo sforzo finora attuato per contrastare il cambiamento climatico. E, nello stesso tempo, si è disposti a sacrificare il futuro dell’industria, che risiede proprio nella sua riconversione “green”. Non sono tenute in alcun conto nemmeno le conclusioni dello studio del World Energy Council per cui nel 2030 le tecnologie verdi varranno il 34% del mix elettrico planetario. Ma tanto possono sui nostri governi le lobby energetiche, preoccupate dei rischi dei loro investimenti, dato che, nonostante la loro forza di rallentamento e conservazione, le politiche contro il riscaldamento globale sono destinate ad andare avanti (v. il rapporto della Banca Mondiale “Turn Down the Heat: Why a 4 °C Warmer World Must be Avoided”).
  3. Il commissario europeo all’Energia, Gunther Oettinger, avrebbe fatto cancellare da un documento della Commissione i dati sull’entità dei sussidi pubblici alle fonti fossili e al nucleare, molto superiori agli aiuti ricevuti dalle energie rinnovabili. Questo per negare che, se alle rinnovabili europee nel 2011 sono andati aiuti per 30 miliardi di dollari e all’efficienza energetica 15 miliardi, al nucleare di miliardi di fondi pubblici ne sono andati 35 e alle fossili 26, cui ne andrebbero aggiunti altri 40 per i danni sanitari che causano. E’ evidente come i dati siano stati cancellati perché sarebbe imbarazzante chiedere la progressiva riduzione degli incentivi alle rinnovabili quando fossili e nucleare, tecnologie mature e con grosse esternalità negative, ricevono aiuti pubblici molto più sostanziosi. Potremmo chiederne ragione a Sara Romano, alto funzionario del Ministero dello Sviluppo Economico, che ha assunto l’incarico di “Direttore generale per l’energia nucleare, le energie rinnovabili, l’efficienza energetica”. Non c’era stato un referendum contro il nucleare solo due anni fa?

Il gruppo Marcegaglia abbandona il fotovoltaico a Taranto

da Repubblica.it

TARANTO – Chiude la Marcegaglia Buildtech, fabbrica di pannelli fotovoltaici del Gruppo dell’ex presidente di Confindustria che a Taranto dà lavoro a 134 lavoratori diretti. Il gruppo Marcegaglia ha annunciato ai sindacati di categoria e alle Rsu di Fim, Fiom  e Uilm la cessazione delle attività, con la conseguente  chiusura e il licenziamento dei dipendenti, dal prossimo 31 dicembre. Marcegaglia Buildtech informa in una nota di aver preso la decisione di cessare la produzione di pannelli coibentati e di pannelli fotovoltaici “a causa della grave crisi che ha irreversibilmente colpito il settore del fotovoltaico in Italia e nel mondo”.

FOTO QUANDO DISSERO: TARANTO CAPITALE DEL FOTOVOLTAICO

Per i sindacati, “l’ennesima mazzata per questo territorio”. Un territorio – sottolineano nella nota congiunta le organizzazioni sindacali – “già martoriato da una crisi senza precedenti, che continua a mietere  perdite di posti di lavoro”. Fim, Fiom e Uilm parlano di “massacro” e convocano, per domani 30 ottobre, dalle ore 15,00, un’assemblea con tutti i lavoratori, proclamando “sin da ora” lo stato di agitazione del gruppo. “Anche questa volta – si legge nel comunicato – Taranto subisce la perdita di 140 posti di lavoro, a causa di una decisione aziendale disinteressata al nostro territorio:  lasciano Taranto per una riorganizzazione del Gruppo Marcegaglia, scippando nuovamente a questa città posti di lavoro e opportunità di sviluppo non inquinante”. “Dopo l’eolico – concludono i rappresentanti dei lavoratori – a pochi giorni di distanza, anche il fotovoltaico abbandona Taranto, una città già compromessa dai problemi ambientali”.

E’ durato dunque appena due anni il “sogno” di “fare della città jonica la capitale del fotovoltaico in Italia”. Così infatti si espresse Antonio Marcegaglia, amministratore delegato dell’omonimo gruppo, nel settembre 2011 presentando agli amministratori locali – tra cui il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola – il rilancio industriale del sito di Taranto, dove Marcegaglia era approdato nel 2000 a seguito della vicenda Belleli di Mantova. A settembre 2011 Marcegaglia inaugurò a Taranto la produzione di lamiere e pannelli fotovoltaici per la produzione di energia solare attraverso una tecnologia innovativa: lamine di film sottile al silicio amorfo.

Queste lamine, spiegò allora Marcegaglia, “vengono poi incollate su un pannello per ottenere un manufatto perfettamente integrato nella copertura dei tetti delle nuove costruzioni e volto alla produzione di energia elettrica solare”. A Taranto la nuova produzione faceva seguito a quella, dismessa, di caldaie industriali. Una copertura di pannelli fatta in questo modo su una superficie inferiore a 20 metri quadrati, fu spiegato due anni fa, è in grado di produrre più di un chilowattora di energia elettrica per 25 anni, indipendentemente dall’orientamento e dall’inclinazione del tetto. Marcegaglia annunciò anche di aver stanziato per la riconversione del sito di Taranto 15 milioni di euro e di voler raddoppiare la produzione di pannelli fotovoltaici nel giro di pochi mesi.

“In realtà il progetto, che sfruttava una tecnologia americana – spiega Cosimo Panarelli, segretario della Fim Cisl di Taranto -, non ha avuto il successo che il gruppo Marcegaglia auspicava.

In Puglia non c’è stato sviluppo alcuno. Si poteva e doveva incentivare la diffusione di questo sistema dai complessi privati a quelli industriali per finire alla copertura delle pensiline dei mezzi pubblici, ma così non è stato. Alla fine, nella ristrutturazione del gruppo, Marcegaglia ha sacrificato Taranto. Dopo Vestas nell’eolico è un altro pezzo di attività industriale nelle fonti energetiche rinnovabili che perdiamo nel giro di poche settimane”.