Se il biogas agricolo diventa business

di Giovanni Carrosio – da www.ecologiapolitica.org

Negli ultimi anni, in Italia sono nati quasi mille impianti per la produzione di energia da biogas agricolo. Per la precisione, 953 impianti, la maggior parte dei quali (90%) concentrati nel Nord Italia, nelle aree caratterizzate da una importante densità di grandi allevamenti zootecnici e nelle aree ad alta specializzazione nella produzione di mais. Produrre energia da biogas agricolo significa utilizzare il metano prodotto dalla fermentazione anaerobica di deiezioni animali e/o biomasse (mais, triticale, sorgo foto) per alimentare un cogeneratore che trasforma il biogas in energia elettrica e termica.  Grazie alla vendita dell’energia elettrica e ad un sistema di incentivi molto generoso, gli agricoltori che adottano questa tecnologia fanno grandi profitti.

Gli impianti a biogas hanno iniziato a diffondersi in modo consistente a partire dalle politiche di incentivazione, giustificate secondo una triplice retorica. La prima: produrre energia da biogas è necessario per ridurre le emissioni di anidride carbonica in atmosfera; secondo la vulgata dominante, il processo che porta alla produzione di energia è neutro dal punto di vista delle emissioni climalteranti; le biomasse rilasciano in atmosfera l’anidride carbonica assorbita durante il ciclo di vita, con un bilancio perciò uguale a zero. La seconda: produrre energia da biogas è necessario per sostituire le fonti fossili con fonti rinnovabili prodotte sui nostri territori, riducendo la dipendenza del nostro paese dall’estero. La terza: produrre energia da biogas vuol dire incrementare la multifunzionalità delle aziende agricole, consentendo loro di fare profitti ed investire nell’ammodernamento ecologico dei sistemi produttivi.

Questa triplice argomentazione, che ha giustificato la strutturazione di un sistema di incentivi molto generoso, è stata smentita dai fatti. La tecnologia del biogas agricolo, per come si è  affermata in Italia, è stata utilizzata soprattutto come dispositivo di ulteriore modernizzazione e artificializzazione dei processi produttivi delle aziende agricole, vanificando e contraddicendo gli obiettivi che i policy makers si erano dati – ammesso che gli obiettivi reali coincidessero con quelli dichiarati.

Le aziendebiogas1 agricole hanno sostanzialmente due modi di organizzare la produzione di energia da biogas: il modo contadino e il modo imprenditoriale. Le aziende che adottano il  modello contadino utilizzano la tecnologia del biogas come dispositivo per chiudere i cicli aziendali e conquistare margini di autonomia dal mercato nella riproduzione di fattori produttivi come energia e fertilizzanti. Si tratta di medio-piccole aziende zootecniche, nelle quali  il digestore che produce biogas è proporzionato rispetto alle dimensioni dell’azienda. Le deiezioni animali vengono sottoposte a digestione anaerobica e dal processo vengono prodotti energia e  fertilizzante. Il fertilizzante organico viene distribuito nei campi, sostituendo anche nella totalità i fertilizzanti chimici comprati dall’agroindustria, e l’energia viene in parte venduta alla rete nazionale (quella elettrica) e in parte utilizzata per il riscaldamento delle stalle e degli edifici aziendali (quella termica). In questo modo, l’azienda agricola riduce gli input esterni e diventa più autonomia nelle riproduzione di alcuni fattori produttivi.

Le aziende che adottano il modello imprenditoriale – e nel caso italiano sono la maggior parte – utilizzano invece il biogas come dispositivo per incrementare il giro d’affari e ampliare la scala aziendale. La taglia dei digestori adottata è solitamente più grande rispetto alle capacità produttive dell’azienda e alle deiezioni animali vengono aggiunte colture dedicate come mais e triticale. In questo modo le imprese agricole utilizzano suolo agricolo per alimentare i digestori. Si stima che nel Nord Italia siano circa 200 mila gli ettari occupati a colture destinate alla produzione di energia da biogas. Per queste aziende il biogas non è funzionale alla chiusura dei cicli aziendali e tanto meno alla riconquista di margini di autonomia rispetto ai mercati. Infatti, esse acquistano  sul mercato i mangimi che prima dell’adozione della tecnologia del biogas coltivavano su terreno aziendale.

Oggi i terreni sono utilizzati a scopo agroenergetico e la produzione di energia diventa il principale business aziendale.  In molti casi, questo comporta un ampliamento di scala delle imprese agricole: esse tendono a incrementare il numero di animali allevati – intensificando così il rapporto tra terreni e numero di capi – per avere più materiale organico da utilizzare nei digestori e produrre in questo modo più energia. Energia che viene venduta per riscuotere gli incentivi (quella elettrica), ma che in gran parte viene dispersa in atmosfera sotto forma di calore, perché eccedente rispetto ai bisogni aziendali (quella termica). E’ una vera e propria speculazione sugli incentivi, che porta le aziende ad ingrandirsi anche grazie all’ingresso di capitali industriali che sostengono gli investimenti.

In questo modo, quella che secondo la retorica corrente  doveva essere una politica per l’ambiente e per lo sviluppo rurale, nella pratica ha generato un aggravamento dei problemi ambientali legati agli allevamenti intensivi, una competizione per l’utilizzo della terra, una ulteriore “modernizzazione”, specializzazione e industrializzazione dell’agricoltura.

Il modo di produzione contadino, però, ci dice che una alternativa è possibile. Che le nuove tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili possono essere utilizzate in modo eco-compatibile, se la logica non è quella del profitto, ma quella della riproducibilità delle risorse naturali. E soprattutto, dimostra che non esistono energie rinnovabili buone in sé,  e che i modelli sociali e produttivi con i quali esse sono  adottane sono determinanti per conciliare produzione e ambiente. Perché ciò sia possibile, però, servono politiche nuove, che non facilitino la speculazione, ma premino l’agricoltura eco-compatibile.

 

Cambiamenti climatici: gli stati europei in ordine sparso

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano – 12 novembre 2013

Come da copione, la tragedia delle Filippine non riesce a turbare la coscienza dei governanti del vecchio mondo. “In fondo – pensano – per ora non ci tocca e i Paesi meno sviluppati soffrano perché non hanno ancora sistemi di prevenzione all’altezza delle catastrofi. Peggio per loro, finché qui ne siamo immuni e possiamo lavarci la coscienza con un po’ di carità a disastro avvenuto”.

Che la prevenzione stia invece nel ridurre noi le emissioni climalteranti, con tutto quanto consegue sull’uso delle risorse, sugli stili di vita, sulla convivenza con l’ambiente e sulla qualità del lavoro, non è argomento di riflessione per una politica che, se si compiace di esibire “palle d’acciaio”, inconsciamente manifesta una propensione più androide che umana.

Eppure, si aprirà a giorni in Polonia il vertice sui cambiamenti climatici: i governi dell’Europa purtroppo ci arriveranno in ordine sparso, mentre tutto il mondo della finanza fiuterà affari e le banche faranno pressioni per drenare risorse verso i loro bilanci, anziché per ripianare il debito verso la natura.

L’Ue, per la verità, si era posta l’obiettivo per la riduzione delle emissioni di CO2 e aumentare la quota di energia rinnovabile entro il 2030. Ma le differenze tra gli Stati membri e gli interessi economici divaricanti potrebbero compromettere questa ambizione. Mentre la Danimarca rinuncia alle trivelle in mare a favore dei mulini a vento e la Germania si è da tempo impegnata sull’energia verdela Polonia punta sull’estrazione di gas da scisto (shale gas) e l’Inghilterra annuncia la costruzione di nuove centrali nucleari. In compenso, l’Italia si accontenterebbe di smistare il gas che le viene portato da lontano, rinunciando ad una politica industriale e occupazionale che la sua esposizione naturale favorirebbero.

La Commissione Europea continua ad affermare che la matrice energetica è di competenza esclusiva degli Stati membri, ma, se questo valeva nel secolo scorso, il cambiamento climatico e le rivoluzioni informatica ed energetica portano a omogeneizzare in dimensione continentale una strategia dell’efficienza, della cooperazione, dell’accumulo della produzione rinnovabile,dell’impiego di reti intelligenti. Le iniziative non coordinate dei singoli Stati non sono più senza conseguenze, come dimostra lo stesso esempio della transizione energetica in Germania, dove la sospensione della produzione nucleare e il conseguente sviluppo della produzione sostitutiva da vento e sole hanno avuto un forte impatto sui paesi limitrofi. Già nel 2013 durante il picco di produzione, volumi di elettricità verde che la rete tedesca non poteva assorbire sono stati trasferiti alle reti polacca e ceca.

Una Europa sempre più liberista e sempre meno sociale mostra tutti i suoi limiti anche in campo energetico. Con una strategia incerta, piegata alle privatizzazioni e influenzata dalle lobby energetiche che stazionano a Bruxelles, gli ingenti fondi a disposizione non servono a conseguire gli obbiettivi dichiarati. Gli inglesi vogliono sovvenzionare la costruzione di centrali nucleari? I polacchi vogliono avere una legislazione che non consideri i guasti ambientali del gas da scisto? I tedeschi vogliono difendere un’industria automobilistica che sforna vetture a elevate emissioni? Niente di meglio che non pestarsi i piedi e evitare di armonizzare le politiche energetiche di 27 nazioni.

Tuttavia, il futuro procede in altra direzione: già ora nessun paese è un’isola energetica e la rete elettrica a venire è irreversibilmente europea! Sarà pertanto residuale la battaglia dei grandi gruppi per mantenere sistemi centralizzati e impianti di grande dimensione alimentati da fonti non rinnovabili, pur con minori emissioni climalteranti. Perdente, dal momento che le tecnologie – nucleare e CCS (cattura e sequestro di CO2 sotto terra) – che dovrebbero rispondere a questi requisiti, sono in crisi dopo Fukushima e la decisione della Norvegia di porre fine all’ambiziosoprogetto di cattura nella raffineria di Mongstad.

La decarbonizzazione dell’economia funziona all’origine dei processi, comportando che i capitali siano dirottati verso le fonti rinnovabili – in grado di eliminare le emissioni di oggi – anziché verso la realizzazione di insicure discariche dei combustibili nucleari e fossili del passato. La diffusione delle rinnovabili entra ormai definitivamente in collisione strutturale con gli interessi dei monopoli nazionali, che proteggono il loro mercato locale anche a dispetto del clima.

Si può ben dire, in conclusione, che la diffusione delle rinnovabili costituisce l’antidoto più potente al catastrofico riscaldamento del pianeta.

Rifiutiamoci!

Il 16 Novembre si svolgeranno tre manifestazioni di enorme rilevanza nazionale: in Val di Susa, a Pisa e a Napoli.

“A Susa ci sarà la manifestazione del movimento NoTav contro la distruzione e l’occupazione militare della valle; a Pisa contro lo sgombero del Municipio dei Beni Comuni (ex colorifico); a Napoli si svolgerà la manifestazione “Stop Biocidio” contro le devastazioni ambientali e per il diritto alla salute.” (ndr, nota tratta dal comunicato del FIMA di cui a breve verrà reso pubblico in toto).

RFIUTIAMOCI!

di Alex Zanotelli

La Campania è una terra avvelenata e violentata. Perché la gente sta reagendo? Va ricordato che a partire dai primi anni ’90 – quando l’Italia non ha più potuto esportare e seppellire i propri rifiuti tossici in Somalia (a causa della caduta del regime di Siad Barre, con il quale intratteneva fruttuosi rapporti) – è stato deciso che l’industria del centro-nord poteva smaltire materiali tossici in Campania.
Interessate soprattutto tre aree. Il cosiddetto “triangolo della morte”, cioè la zona di Nola, Acerra e Marigliano, dove appunto molte persone stanno morendo di tumore a causa dei rifiuti. Il secondo è l’agro Aversano, in provincia di Caserta dove sono stati sversati anche i rifiuti tossici di Marghera. Ciò è avvenuto in virtù di un “contratto” siglato tra industria del nord e camorra. Nella partita c’è anche l’industria campana.
La terza area è la “terra dei fuochi”, al nord di Napoli. Un territorio che comprende Giugliano, Villaricca, Frattamaggiore fino a Casal di Principe e oltre. Qui si è continuato a bruciare di tutto con quello che ne consegue per la salute pubblica. E qui, a Giugliano, si vuole costruire un inceneritore da 480 milioni di euro. Siamo al paradosso.
I commissari straordinari che si sono occupati della questione dei rifiuti nella regione hanno fatto la scelta degli inceneritori e delle megadiscariche. Per costruire quello di Acerra ci sono voluti otto anni. Nel frattempo hanno impacchettato i rifiuti, 8 milioni di tonnellate di “eco-balle” (così definite per spacciarle come ecologiche), e li hanno stivati in un’area fuori Giugliano. Con un costo di almeno 2 miliardi di euro. Il movimento che si occupa dei rifiuti si è opposto a questo scempio, ma non c’è stato nulla da fare. E adesso salta fuori che il governo vuole costruire un inceneritore a Giugliano per smaltire le eco-balle.
Da qui nasce la rabbia della gente contro fuochi e sversamenti: manifestazioni, incontri e appelli. Un punto di riferimento è don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, che ha dato una grossa mano per far partire questo movimento popolare che vede anche la partecipazione di parrocchie e comunità cristiane. Manifestazioni si sono tenute l’11 settembre a Giugliano: mi ha impressionato vedere mobilitarsi una “città-morta” come questa; il 12 settembre a Capua per dire no al biogassificatore (una tecnologia che trae energia dalle biomasse); l’8 di ottobre, con una marcia da Aversa a Giugliano; poi si è manifestato anche a Napoli, per contestare la gara d’appalto per la costruzione dell’inceneritore di Giugliano.
È molto bello sentire la presenza del popolo. Certo c’è il rischio che queste mobilitazioni siano utilizzate da taluni politici per rilanciarsi… Del resto ci sono altri pericoli, soprattutto quello indignarsi senza proporre qualcosa di nuovo, altre vie percorribili.
Il governo vuole bonificare le aree inondate di rifiuti. Ma la camorra potrebbe infiltrarsi anche qui e trarre soldi dalle bonifiche come li ha tratti dallo sversamento dei rifiuti.
Il 16 di novembre c’è un’altra manifestazione a Napoli. Quello che si chiede è il riciclo totale. Il governo Berlusconi ha puntato su 4 inceneritori e 12 megadiscariche per la Campania. Noi puntiamo sul riciclo come unica maniera per evitare che la Campania si avveleni ulteriormente. Come missionario, credo nel Dio della vita e sento che Lui mi porta all’impegno concreto in difesa della vita e della Madre Terra che non sopporta più l’“homo demens”.

Zanonato, ministro del secolo scorso

di Francesco Ferrante – qualenergia.it
08 novembre 2013

Ecomondo e Key Energy sono ancora in corso a Rimini, ma si può già senz’altro commentare la conferma del successo di una delle poche fiere che regge in questo periodo di crisi. Un successo in termini di presenze e vitalità che a sua volta conferma come la green economy possa davvero essere, se supportata e non ostacolata, la spina dorsale di quella ripresa economica di cui tutti parlano, ma per la quale in pochi fanno le cose utili a renderla possibile.

E dentro questo successo un ruolo fondamentale lo hanno svolto gli Stati generali della green economy organizzati dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile presieduta da Edo Ronchi. Anche qui straordinaria la partecipazione che ha concluso un lungo percorso di elaborazione (originale anche nel metodo) delle associazioni di imprese che hanno dato vita al Consiglio nazionale della green economy e il cui frutto sono le 10 proposte del dibattito.

Però … sì, di fronte al bel successo di questi giorni riminesi si delinea un gigantesco “però” che ha le sembianze dell’attuale ministro dello Sviluppo Economico. La vitalità delle imprese della green economy è una condizione necessaria per pensare a una ripresa dell’economia, a maggiori opportunità di lavoro, a un futuro più pulito. Ma non è sufficiente. Serve anche una politica in grado di fare le regole giuste affinché quella vitalità si possa dispiegare in tutta la sua forza e non trovi invece continuamente ostacoli. E qui stiamo ancora molto distanti.

C’è infatti un solo aggettivo per commentare l’intervento con cui Zanonato ha concluso gli Stati generali della green economy: sconcertante.

Per citarne solo alcuni passaggi, il ministro ha affermato che “se non ripartono crescita e sviluppo altre ipotesi di uscita dalla crisi sono non realistiche; suggestive, ma non realistiche” e ha ripescato a piene mani nel repertorio dei conservatori del mondo dell’energia che ben conosciamo: parlando dell’elevato costo dell’energia, sminuendo il ruolo delle rinnovabili, che “pesano nella soddisfazione della richiesta di nazionale per ‘appena’ 92 terawattora su circa 300 di fabbisogno”, mettendo l’accento sul fatto che l’aiuto ai settori low carbon deve essere cost-effective. Unica preoccupazione di Zanonato sembra essere il costo elevato delle bollette elettriche. Problema rilevante per carità, come più volte affermato anche su QualEnergia.it, ma che questo ministro imputa alle rinnovabili e solo alle rinnovabili.

Parole talmente lontane dagli argomenti trattati da vanificare la buona impressione che aveva lasciato il ministro dell’Ambiente Orlando il giorno prima. Sembra di essere come spesso è avvenuto in presenza di buone intenzioni espresse da chi siede al ministero dell’Ambiente che poi non trovano sostanza nelle politiche di governo, perché le scelte concrete si scontrano con un’attitudine del ministero dello Sviluppo Economico che da Romani a Passera per arrivare a Zanonato, è ben più attento alla conservazione che non all’innovazione.

Il Ministro ieri evidentemente non ha capito chi aveva di fronte (appunto la parte più vitale dell’economia italiana che lui dovrebbe appunto ‘sviluppare’); e onestamente i contenuti del suo intervento sono apparsi il frutto di una cultura industrialista incapace di accorgersi che siamo nel terzo millennio.  E infatti evidente è stata la delusione di tutta la platea, non solo della truppa ambientalista presente, ma anche dei presidenti dei consorzi, di imprenditori, tutto sommato moderati, alcuni persino un po’ attempati, che non si capacitavano per un discorso che forse si poteva accogliere con qualche interesse negli anni ’80 del secolo scorso.

E così anche da Rimini si esce con la convinzione che sia più urgente che mai affrontare il nodo della rappresentanza politica dei temi, delle esigenze, di quelle 10 proposte che gli Stati Generali hanno generosamente offerto e che il ministro padovano, simbolo di una politica inadeguata, ha lasciato cadere nel nulla.