Il fracking si frattura

di Antonio Turiel

Cari lettori,

la bolla del fracking sta giungendo alla sua fine. Già qualche mese fa analizzavamo la bassa redditività del gas e del petrolio sfruttati con questo metodo e l’assurdità economica del loro sfruttamento (specialmente nel caso del gas) e prevedevamo per niente luminoso per il loro sfruttamento, tanto negli Stati Uniti quanto nel resto del mondo. In solo nove mesi molti dei cattivi presagi sull’evoluzione dei giacimenti sfruttati mediante il fracking si sono andati confermando e tutta la bolla finanziaria montata intorno ad esso, sostenuta dall’inganno secondo il quale gli Stati Uniti saranno presto autosufficienti energeticamente è sul punto di sgretolarsi. Ricapitoliamo.

Cominciamo dalle denunce dell’industria stessa, ingannata dalle promesse alimentate dagli speculatori. Se già nell’agosto dello scorso anno Rex Tillerson, amministratore delegato di Exxon Mobile, denunciava al New York Times che nell’affare del gas da fracking “abbiamo tutti perso anche le mutande”, quest’anno è stata la volta di Peter Voser, nel momento in cui ha smesso di essere amministratore delegato della Shell, di riconoscere al Financial Times che la cosa di cui si pentiva di più era quella di essersi messo nel fracking . Il fatto è che nella frenesia del fracking negli Stati Uniti è stato reso prioritario il denaro liquido immediato davanti alla redditività a lungo periodo, dando per scontate condizioni economiche (che costi si sarebbero abbassati e che i prezzi sarebbero saliti) che alla fine non si sono verificate. I prezzi non salgono perché il consumo di gas naturale, dopo un leggero rialzo durante gli ultimi anni, sembra aver raggiunto il tetto e nell’ultimo anno si mantiene simile all’anno scorso, persino leggermente inferiore, se guardiamo i dati del consumo mensile della EIA del Governo degli Stati Uniti.

Pensate inoltre che il consumo annuale cresceva soprattutto perché lo faceva il consumo a valle, nel periodo di minor consumo – l’estate – perché il gas è meno caro in quel momento, il che ovviamente rendeva difficile rendere redditizio l’investimento. I fatti mal si addicono con certa propaganda interessata sulla rivoluzione dello shale gas in America e con l’inganno secondo il quale i prezzi si trovano grazie ad essa ai minimi storici.

Il fatto è che il costo della produzione di gas da fracking non è solo 2 o 3 volte superiore al prezzo attuale di vendita negli Stati Uniti (era necessario vendere il gas a più di 8 dollari ogni 1000 piedi cubici di gas perché tornassero i conti col fracking); il fatto è che lo sforzo necessario a mantenere i livelli produttivi attuali porta ad dover perforare sempre più pozzi ed un ritmo sempre più veloce, esponenziale, il che incrementa i costi reali ancora di più. Cosicché prima o poi doveva succedere ciò che sta succedendo, cioè che alcune delle formazioni più ricche di gas di roccia poco porosa (prima dicevamo gas di scisto ma non è il termine giusto per shale gas; in ogni caso, stiamo parlando del gas che si estrae per mezzo del fracking) stanno già cominciando a declinare. Peak shale gas.

Immagine da Oil Man: http://petrole.blog.lemonde.fr/2013/10/01/gaz-de-schiste-premiers-declins-aux-etats-unis/

Come mostra il grafico sopra di queste sopra queste linee, tratte da un eccellente articolo del miglior blog in lingua francese sul problema delle risorse naturali, Oil Man, le formazioni di Haynesville e Barnett, le due più produttive di gas di roccia poco porosa, sono giunte a loro rispettivi picchi di produzione in dicembre e novembre del 2011, rispettivamente. La stampa convenzionale americana comincia a farsi eco di ciò che sono dati e specula su quando aspettarsi che l’ultima grande formazione, Marcellus, entri in declino.

Naturalmente i promotori di questo tipo di estrazione diranno che si può aumentare la produzione se si investe di più, cosa che si dovrebbe fare con decisione perché, secondo loro, è la fonte energetica del futuro. In realtà si può dire lo stesso del petrolio convenzionale o di qualsiasi altra risorsa che giunge al proprio picco: è sempre vero che investendo di più si può estrarre più gas, petrolio, carbone e uranio. Il problema è che sia redditizio, cosa che, come abbiamo già spiegato, dipende dall’EROEI (redditività energetica, insomma) nonostante che, a quanto sembra, gli economisti non riescono a comprendere un concetto così semplice, ma che si scontra coi loro pregiudizi su come dovrebbe funzionare il mondo per adattarsi ai loro desideri. E’ questo tipo di argomentazione sbagliata quella che porta a vendere come cosa praticamente fatta il miracolo che non arriva del petrolio da acqua ultra profonde del Brasile o della futura produzione di petrolio da Vaca Muerta in Argentina che dovrebbe invertire il declino terminale della produzione di petrolio della nazione andina. Menzogne per il consumo locale, cinismo nell’era del declino.

Per chi non capisca che si possa estrarre il gas di roccia poco porosa nonostante in esso si perdano ingenti quantità di denaro (10.000 milioni di euro solo nel 2012, come mostrava Dave Hughes nell’articolo apparso su Nature questo febbraio) raccomando di guardare i video della serieFrackonomics, al primo dei quali si accede seguendo il link che ho messo nel nome. La questione è semplice: “si tratta di una bolla finanziaria orchestrata da Wall Street”, nelle parole di Deborah Rogers dell’Energy Policy Forum. Se volete più dati sulla farsa dello shale gas  e dello shale oil (del quale parleremo ora) non mancate di visitare il sito ShaleBubble.org.

E cosa succede al petrolio di roccia poco porosa? Questa risorsa non è stata identificata in Europa (qui si parla solo di shale gas), perché i suoi giacimenti sono molto meno numerosi. Come spiegavamo nel post di inizio anno, il petrolio leggero di roccia compatta è redditizio in modo marginale; non darà grandi benefici, ma almeno ne dà qualcuno, non come il gas naturale di roccia poco porosa (l’economia dello shale gas, ad essere onesti, è un po’ più complessa visto che i liquidi associati che appaiono in alcuni giacimenti rendono effettivamente redditizie alcune piattaforme). Tuttavia, le prospettive della sua produzione non sono tanto allegre come quelle delloshale gas: persino la IEA riconosce nei suoi rapporti che la sua produzione sarà sempre marginale (come abbiamo già detto in questo blog). Persino coloro che scommettono su un futuro luminoso per lo shale oil, come Goldman Sachs in un recente rapporto, riconoscono che la sua produzione arriverà al massimo al 2022:

Immagine da Oil Man, http://petrole.blog.lemonde.fr/2013/10/08/le-court-avenir-du-petrole-de-schiste-vu-par-goldman-sachs
 
Tuttavia, una volta che i posti migliori (sweet spots) sono stati sfruttati quello che rimane è più difficile e più caro da estrarre e meno redditizio. Se già per lo shale oil era necessario un prezzo al barile superiore agli 80 dollari, nella misura in cui passa il tempo il prezzo minimo sale finché a un certo momento non lontano questi giacimenti smetteranno di essere redditizi. E per non lontano intendo dire ora: anche se alcuni gestori famosi continuano a lodare gli incredibili vantaggi del fracking, la cosa certa è che il numero di pozzi attivi nella formazione di Bakken (la più produttiva proprio in questo momento) sembrano aver raggiunto un massimo a settembre dell’anno scorso (e ancora a novembre veniva negato), come mostra il grafico seguente, ancora una volta grazie a Oil Man:
Di nuovo la stessa argomentazione: con più investimenti uscirà fuori più petrolio, senza tenere conto che questo aumento di investimento può renderlo non redditizio e che logicamente gli investitori rifuggono gli investimenti non redditizi. Dave Hughes fa una stima più realistica di quello che ci si può aspettare dal petrolio di roccia compatta negli Stati Uniti:
Cioè, a seconda se si riesce ad aggiungere più o meno pozzi nuovi ogni anno il peak shale oil o punto di produzione massima di questo tipo di risorsa sarà nel 2015-2017. Non è un gran cambiamento, in ogni caso e il suo arrivo seppellirà tutti i sogni di indipendenza energetica degli Stati Uniti. E i problemi potrebbero arrivare prima: un articolo recente mette in guardia rispetto al fatto che la produzione dei pozzi di petrolio di roccia compatta attualmente in estrazione crolla di 63.000 barili al giorno in meno ogni mese e ogni volta crolla più rapidamente.
Immagine da SRSrocco Report
Il che non è proprio poco se si tiene in considerazione che equivale al 71% della nuova produzione.
Immagine da SRSrocco Report
Entro poco tempo, forse in un paio di mesi, la nuova produzione non potrebbe già più compensare il declino dei pozzi già attivi: è come correre su un tapis roulant. Tutto questo sembra dare ragione a Dave Hughes ed alle sue stime di quando avverrà il picco del petrolio di roccia compatta.
Le conseguenze di questa festa del fracking sono, naturalmente, molto negative. I gruppi anti fracking di solito si focalizzano sul problema dell’impatto ambientale, soprattutto sotto forma di inquinamento. Alla fine dei conti si devono iniettare ingenti quantità di acqua combinata a prodotti chimici abbastanza aggressivi e la maggior parte di quest’acqua torna in superficie, dove deve essere trattata o semplicemente immagazzinata. Questo aumenta lo stress idrico delle zone di perforazione (in Texas c’è una guerra aperta fra l’industria del fracking e gli agricoltori e gli allevatori) e aumenta il rischio che quest’acqua inquinata arrivi ad esaurirsi se non viene trattata in modo corretto (il che, dato l’ingente consumo e il ritmo frenetico, non è per nulla facile). Dall’altra parte, nonostante il tanto insistere sul fatto che le zone di frattura idraulica sono molto più profonde della falda acquifera e che la cassaforma della perforazione isola perfettamente la falda dalla penetrazione di sostanze chimiche che salgono e scendono, la cosa certa è che si sa che entro 5 anni almeno il 50% delle perforazioni presentano fessurazioni. L’effetto a lungo termine di questo inquinamento persistente pertanto è sconosciuto, data l’applicazione recente su ampia scala di questa tecnica.
Meno conosciuto è il fatto è il fatto che il fracking è un incubo logistico con un grande impatto ambientale più convenzionale a livello superficiale. Le forniture per mantenere la frenetica attività arrivano via strada, in camion carichi di acqua, sabbia e prodotti chimici e nella maggior parte dei siti la scarsa produzione dei singoli pozzi (alcune decine di barili di petrolio al giorno, nel caso deltight oil) fa sì che persino il petrolio e il gas risultante venga trasportato via camion. Questo implica fare grandi piattaforme logistiche, con un grande impatto sul territorio ed altri problemi associati al traffico così intenso (gli incidenti possono essere abbastanza gravi). Ovviamente nessuno paga queste esternalità ambientali. Tuttavia, ci sono altre esternalità che possono portare che possono portare a breve termine alla bancarotta piccole comunità. Come spiega Deborah Rogers, alcune contee del Texas si vedono obbligate a tenere le strade continuamente dissestate  a causa dell’intenso traffico pesante che vi transita grazie a fracking e le tasse che raccolgono non coprono nemmeno lontanamente questa spesa, fino al punto di poter distruggere le casse delle contee. La cosa curiosa della Texas Railroad Commission’s Eagle Ford Shale Task Force che ha analizzato la questione è che implicitamente assume che l’affare smetta di essere redditizio. Quindi, ciò che viene venduto come un nuovo Eldorado può presupporre non solo la rovina ambientale – e quindi economica – a lungo termine, ma persino direttamente quella economica a breve termine nelle comunità dove viene impiantato.
Il fiasco del fracking è una sorpresa, un bel sogno nel quale alcuni imprenditori hanno creduto in buona fede ma che la realtà ha smentito? Be’, in realtà no: una velina al New York Times ha rivelato che già nel 2010 i funzionari del Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti opinavano che era molto difficile che lo shale gas o lo shale oil sarebbero mai arrivati ad essere redditizi. Si potrebbe persino parlare di manipolazione dell’informazione per favorire un determinato affare speculativo, nel quale i promotore gonfiano le aspettative mentre i responsabili dell’amministrazione guardano dall’altra parte finché non esplode tutto. Bene, la stessa cosa della bolla immobiliare che, come i cattivi seriali ora torna con forza in tutto il mondo.
Riassumendo questo lungo post: le risorse estratte mediante fracking si sono potute estrarre soltanto negli Stati Uniti grazie alla forza del dollaro come moneta di riserva e per un tempo limitato. Si fa importando energia incorporata nei materiali usati ed esportando inflazione e miseria, ma ma nemmeno così si riesce a farlo durare molto tempo. Ed ovviamente un tale schema non è fattibile nemmeno lontanamente in Europa.
Dimentichi della sempre più evidente decadenza di questo tipo di estrazione negli Stati Uniti, in Spagna uno degli ultimi movimenti dei gruppi pro fracking è stato quello di tirar fuori questo video di lode dei sui benefici e di minimizzazione dei suoi problemi. Intanto, decine di gruppi locali contro il fracking, si mobilitano per cercare di bloccare i permessi. La battaglia è sempre più amara , ma a queste latitudini è chiaro che la prima parte può solo perdere, anche se questo non significa che la seconda vinca. In realtà la cosa più facile è che tutto il mondo perda se non si impone il buon senso.
Saluti.
AMT

Ambiente ed energia: un solo ministero

di Stella Bianchi

Ma l’Italia ci crede davvero alle energie rinnovabili? A parole sicuramente si, nei fatti molto meno. E’ passato poco tempo da quando – con impegno e non poche difficoltà – alla camera siamo riusciti a cambiare la norma introdotta in senato alla legge di stabilità che non si limitava ad assicurare una capacità di riserva al sistema energetico ma di fatto penalizzava le energie alternative per tenere in piedi indiscriminatamente le centrali elettriche tradizionali (soprattutto a gas e carbone) che a partire dallo ‘sblocca centrali’ del 2002 si sono moltiplicate in maniera esponenziale e che oggi sono doppiamente in crisi (per colpa dell’eccesso di produzione e per colpa del calo dei consumi energetici in tempi di Pil che arretra e industria al palo). Le rinnovabili avrebbero dovuto “pagare” questi errori di valutazione per i quali la nostra capacità di produzione di energia elettrica tradizionale è molto più del doppio dei picchi di richiesta.

Messo in archivio questo (parziale) successo le questioni tornano e tutte dentro al governo. Si avvicina un momento importante con la definizione degli obiettivi europei al 2030 dopo il successo della strategia 20-20-20 (con i tre obiettivi fissati a livello europeo per il 2020 per arrivare a meno 20% delle emissioni di co2, a più 20% per le rinnovabili, a più 20% per l’efficienza energetica). Nel governo, da una parte il ministro allo Sviluppo Zanonato sostiene nei commenti alla consultazione sul Libro Verde comunitario per le strategie energetico-climatiche al 2030, che vada fissato un obiettivo unico sulle emissioni senza definire anche obiettivi per le rinnovabili e per l’efficienza energetica. L’esperienza ci dice però quanto sia importante fissare target di sviluppo per promuovere la crescita dell’energia del futuro, che ha generato crescita e posti di lavoro ed è indispensabile per contrastare in modo efficace la terribile minaccia dei cambiamenti climatici che ci impone di cambiare il nostro modo di produrre e consumare energia.

Non a caso l’idea di un obiettivo unico, limitato alle sole emissioni di co2, è sostenuta dalle grandi imprese delle energie convenzionali e osteggiato dal mondo della green economy che chiede apertamente obiettivi per le rinnovabili. E nel governo il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando sostiene apertamente questa posizione, con una riduzione delle emissioni di co2 pari almeno al 40 per cento e obiettivi per rinnovabili ed efficienza, e su questo tema ha firmato un appello europeo insieme ad un bel numero di ministri dei paesi membri.

Ecco basta guardare le firme in calce all’appello per accorgerci che c’è qualcosa che non va qui in Italia. Ci si accorge ad esempio che Francia, in Portogallo, in Belgio, in Danimarca la qualifica dei ministri mette insieme le competenze sull’ambiente con quelle sull’energia (in qualche caso anche con i lavori pubblici e la mobilità). Fa eccezione la Germania, dove però a firmare l’appello pro-rinnovabili è Sigmar Gabriel, uomo forte dell’Spd nella grosse koalition e ministro dell’Economia e dell’Energia.

Non è mia intenzione aprire una querelle tra due ministri che stimo (per altro tutti e due del Pd…) ne voglio farne una questione personale. Credo però che non abbia senso avere le competenze dell’ambiente separate da quelle per l’energia: non siamo più negli anni in cui l’ecologia era una “passione per pochi”, siamo nel millennio del cambiamento climatico e staccare il come si produce energia (e quindi anche il come e quanto si produce in termini di gas climalteranti) e il come si preserva e anzi si cambia in meglio l’ambiente e si creano posti di lavoro a partire dal maggior rispetto per l’ambiente sia irrealistico. Sul tema di cui si discute, il governo prenda una decisione univoca che ci consenta di essere nel gruppo che traina il cambiamento necessario e promuove l’unica crescita possibile nel rispetto dell’ambiente nel quale viviamo come sostiene con chiarezza il ministro Orlando insieme ad altri ministri europei e metta mano ad una riforma delle attribuzioni ministeriali perché su questo non può esserci strabismo.

Elettricità +0,7%: sapete perché?

Dal primo gennaio le tariffe elettriche sono aumentate dello 0,7%. L’Authority – che ha ampliato il proprio titolo divenendo “Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico”, come a dire che si occuperà di tutta la materia referendaria su cui 27 milioni di cittadini hanno provato invano a dire la loro – ha chiarito che non c’è aumento del prezzo del gas e non ha avuto più il coraggio di dire che la colpa è delle rinnovabili.

“Per l’elettricità, – ha affermato – l’incremento complessivo dello 0,7% della bolletta della famiglia tipo è determinato dall’introduzione dal mese di gennaio di un nuovo onere generale di sistema, la componente ‘Ae’ per finanziare le agevolazioni alle imprese manifatturiere con elevati consumi di energia elettrica introdotte dalla legislazione”. Così, la bolletta è diventata una sorta di bancomat su cui scaricare i costi dell’oscura politica energetica e fiscale italiana. E non è finita, perché finora è stata contabilizzata solo la prima tranche di 400 milioni prevista dalla legge del governo delle larghe intese: ce ne sono altri 820 da recuperare per il 2014! (v. www.martinbuber.eu)

Non sarebbe il caso che Zanonato, che dall’inizio del suo operato parla di ridurre il costo della bolletta, si dedichi a trasformarne e renderne trasparente la struttura riportandole al loro scopo originario ed eliminando tutti i carichi impropri che ne falsano la natura? Ma non sembra questo il cammino che ci aspetta: in sospeso c’è “un’erogazione a favore della Sogin per far fronte agli impegni connessi ai contratti di riprocessamento in Francia del combustibile nucleare irraggiato e del combustibile di Creys Malville” (citazione dalla delibera 641/2013/R/Com). Sapevamo che il nucleare è per sempre, ma adesso se ne accorgono anche le nostre tasche. E poi, senza che se ne sia parlato, si attinge alle bollette per 300 milioni di euro, prelevati e spostati per coprire la cancellazione dell’IMU.

Basta così, direte. Ma eccoci al famoso Cip6, l’incentivo allo smaltimento rifiuti e scarti petroliferi attraverso la generazione elettrica. Vanno reperiti 470 milioni di euro “per far fronte alla risoluzione anticipata della convenzione della centrale di Falconara dell’Api e altri 570 milioni di euro in relazione alla centrale di Priolo, raffineria ISAB di Erg” (v. www.staffettaonline.com). Infine, sale del 60% il costo per la copertura del nuovo capacity payment a favore dei cicli combinati a gas (si pagherà non la corrente prodotta ma la disponibilità a entrare celermente in produzione), onere fortemente voluto dalle utility per remunerare la capacità disponibile ad entrare in produzione per adattarsi alla generazione rinnovabile.

In queste amare constatazioni, c’è molta “technicality”, dirà chi legge ed è difficile capire. Vogliamo tradurre? Si tratta di 3,5 miliardi di euro come aggravio previsto per le future bollette, considerando anche altri oneri relativi a quelle del gas (Quotidiano energia del 7/1/2014). Chi potrebbe scambiare per politica energetica e industriale questo accanimento verso i consumatori ignari e male informati? E ci sembra arduo cercare di convincerli che i costi elevati dell’erogazione di energia e la mancata riduzione delle tariffe sono da attribuire alla diffusione incentivata delle fonti rinnovabili!

di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

Il quinto rapporto IPCC sul riscaldamento globale

Lo scorso 27 settembre è stato rilasciato a Stoccolma il quinto rapporto dell’IPCC per la valutazione del riscaldamento globale. E’ possibile ora, alla luce di un documento scientifico con un consenso senza precedenti, riflettere sulla distanza tra l’allarme lanciato e il comportamento dei leader mondiali, che nei consessi successivi a Varsavia e a Bali non hanno per l’ennesima volta corrisposto alla responsabilità cui sono chiamati. D’altra parte, prevale ancora la competizione nell’arena del mercato globale rispetto alla cooperazione per il salvataggio del pianeta e continua ad affiorare il pensiero prevalente di questa fase storica, che si affida ad una presunta “razionalità economica” per affrontare i problemi sociali, politici e ambientali.

 

I contenuti del rapporto

Partiamo dai contenuti inoppugnabili del rapporto.

Non ci sono più margini di incertezza riguardo alla responsabilità dell’uomo sul riscaldamento globale. Anzi, ulteriori emissioni di gas ad effetto serra causeranno un ulteriore riscaldamento e cambiamenti in tutte le componenti del sistema climatico.

Le proiezioni climatiche mostrano che entro la fine di questo secolo la temperatura globale superficiale del nostro pianeta probabilmente raggiungerà 1.5 °C oltre il livello del periodo 1850 – 1900. Senza serie iniziative mirate alla mitigazione e alla riduzione delle emissioni globali di gas serra, l’incremento della temperatura media globale rispetto al livello preindustriale potrebbe superare i 2 °C e arrivare anche oltre i 5 °C.

Gli ultimi tre decenni sono stati i più caldi dal 1850, quando sono iniziate le misure termometriche a livello globale. L’ultimo decennio è stato il più caldo e l’oceano superficiale (0–700 m) si è riscaldato durante gli ultimi decenni del 1971-2010.

Il periodo 1983–2012  “probabilmente” è il trentennio più caldo degli ultimi 1400 anni.

Dal 1950 sono stati osservati cambiamenti negli eventi estremi meteorologici e climatici: la frequenza di ondate di calore è aumentata in vaste aree dell’Europa, Asia e Australia; in Europa e Nord America la frequenza o l’intensità di precipitazioni intense (o estreme) è aumentata.

Le calotte glaciali in Groenlandia e Antartide hanno perso massa negli ultimi due decenni. I ghiacciai si sono ridotti quasi in tutto il pianeta. Entro la fine del secolo, è verosimilmente da attendere una forte diminuzione delle coperture glaciali a scala globale (-15% fino a -55%), escluso l’Antartide.

L’innalzamento del livello globale medio marino ha accelerato negli ultimi due secoli ed è stato di 1.7mm/anno nel periodo 1901-2010 e di 3.2mm/anno nel periodo 1993-2010”.

Le continue emissioni di gas serra provocheranno ulteriore riscaldamento nel sistema climatico, con cambiamenti nella temperatura dell’aria, degli oceani, nel ciclo dell’acqua, nel livello dei mari, nella criosfera, in alcuni eventi estremi e nella acidificazione oceanica. Molti di questi cambiamenti persisteranno per molti secoli.

E ‘praticamente certo che ci saranno più frequenti estremi di temperatura (caldi e freddi) sulla maggior parte delle aree di terra e su scale temporali giornaliere e stagionali, all’aumentare delle temperature medie globali.

Le aree soggette a permafrost superficiale (fino a 3.5 m di profondità) presenti alle latitudini intermedie ed elevate si ridurranno (da -37 % fino a -81%) con l’aumento delle temperature atteso.

Il cambiamento climatico influenzerà in maniera crescente il ciclo dell’acqua a scala globale: le zone equatoriali e le alte latitudini vedranno probabilmente una crescita delle precipitazioni, con intensificarsi dei fenomeni estremi e susseguenti piene, mentre le zone tropicali aride andranno verosimilmente incontro a precipitazioni sempre minori. Le aree soggette a precipitazioni di matrice monsonica verosimilmente incrementeranno.

 

L’urgenza del cambiamento e la staticità dei decisori politici

Se il medico annuncia una malattia grave, si dovrebbe subito iniziare a cercare la cura. Perché mai dovremmo correre rischi più grandi quando si tratta della salute del nostro pianeta? E ‘fuor di dubbio che, se vogliamo evitare il cambiamento climatico superiore a due gradi centigradi, abbiamo bisogno di responsabili politici per implementare meccanismi che garantiscono che una grande quantità di carbonio rimanga sotto terra, sia riducendo l’estrazione dei fossili e sostituendoli con le rinnovabili e promuovendo il risparmio, che sostenendo l’agricoltura contadina e la riforestazione.

Gli impatti dei cambiamenti climatici presenteranno crescenti sfide per i governi di tutto il mondo e rischi imprevedibili per il sistema globale delle imprese. L’aumento delle temperature, i cambiamenti nel regime delle precipitazioni, l’aumento del livello dei mari, ghiacciai che scompaiono e l’acidificazione dell’acqua del mare avranno effetti diretti sulla spesa pubblica, sulla salute, sulla qualità della vita, sui risultati economici di molti settori industriali. La stessa UE sembra non mantenersi all’altezza della sua storia precedente e cede sempre di più alla pressione dei grandi enti energetici che spingono per bassi costi delle materie prime fossili, incentivi per l’ammodernamento delle grandi infrastrutture, eliminazione di qualsiasi forma di carbon tax. Va segnalato come alla testa di questo schieramento si sia posizionata la Polonia, forte anche dell’accondiscendenza del governo italiano.

C’è molta incertezza nelle aree geopolitiche del pianeta, che guardano a breve al rilancio del gas e del petrolio con sistemi non convenzionali (shale gas) per accreditare un’affermazione dei loro settori manifatturieri tradizionali grazie al minor peso della bolletta energetica. Naturalmente, tutti i costi esterni di queste scelte ricadrebbero sulla società a livello globale e sulle generazioni future, costrette a riparare ai danni climatici, all’inquinamento e al peggioramento delle condizioni di salute. C’è un aperto conflitto tra Canada, Australia e Stati Uniti da una parte e i paesi poveri dall’altra, con la Cina il Brasile e i paesi emergenti in una posizione di attesa, mentre la stessa UE si trova incerta e lacerata al proprio interno.

 

Il negazionismo dei media

L’obiettivo della gran parte dei media è di tener lontano l’opinione pubblica dalla drammaticità del problema con una insistenza calcolata nel mettere in dubbio i risultati dei rapporti IPCC e nel travisare l’informazione sulle prove esibite. Il ruolo delle grandi corporation e delle lobby del carbone e del gas che stanno dietro questa operazione è evidente ed è documentato da una coraggiosa inchiesta del Guardian. Sono all’attacco il Sunday, il Christian Post, i canali e i giornali di Rubert Murdoch, il Wall Street Journal e il Washington Post. E, naturalmente, ne risentono anche i quotidiani nostrani come Repubblica, Il Sole 24 Ore e soprattutto il Corriere della Sera, che vengono amplificati e ripresi dalle TV private nelle news e nelle loro trasmissioni pseudoscientifiche.

La disinformazione e il negazionismo si sono sapientemente articolati secondo cinque schemi, che tutt’ora si intrecciano a seconda dell’occasione. Lo schema 1 riguarda la pura negazione che il problema del clima esista. Quando le persone vengono poste di fronte ad un problema scomodo, la reazione immediata consiste nel negare la sua esistenza e, in questo caso, nel negare che il pianeta si stia riscaldando. A tal fine si sono esibiti dati che riguardavano la bassa atmosfera, ma ben presto è stato dimostrato che anche la bassa atmosfera si stava scaldando a un ritmo coerente con le misure di temperatura superficiale. In più si è volutamente trascurato che il 98% del riscaldamento inizialmente va a finire negli oceani.

Lo schema 2 si è sviluppato per negare che l’uomo fosse la causa e, a questo fine, sono stati contestati i modelli in uso per interpretare i dati; inoltre, si è messa in discussione la eccezionale concordanza degli esperti, andando a scovare le chat dissonanti su blog tematici per niente certificati e citando illegalmente della corrispondenza privata. Lo schema 3 accetta che l’uomo sia responsabile del mutamento, ma sostiene che il riscaldamento globale non è nulla di cui preoccuparsi, perché può essere risolto dalla tecnologia a valle e da una riorganizzazione degli insediamenti umani. Lo schema 4 esprime il massimo di pessimismo: non c’è niente da fare! La soluzione del problema sarebbe troppo costosa e farebbe male ai poveri. In realtà è vero il contrario. Lo scetticismo su possibili soluzioni addirittura precipita nella schema 5: è troppo tardi per intervenire. Quindi, non dovremmo perder tempo e dovremmo solo attrezzarci ad anticipare le catastrofi ed a ripararle poi con un apparato di intervento di permanente emergenza.

Credo che ognuno di noi abbia fatto esperienza di quanto queste posizioni vengano a bella posta contrapposte tempestivamente ad ogni esposizione dei responsabili internazionali dell’IPCC.  Basta ancor oggi leggere i giornali o ascoltare radio e TV. Gli opinion leader frequentemente si buttano a confutare una previsione che dovrebbe ribaltare completamente l’agenda politica e lo fanno grossolanamente su commissione, senza cognizioni di causa. Ma il quinto rapporto IPCC è un brutale colpo a quelle che ormai si rivelano solo insinuazioni o, più banalmente, cappellate.

 

Il rischio per il sistema delle imprese

C’è un aspetto nuovo nel conflitto aperto sul “climate change” e riguarda proprio il punto che sembrava il più ostico da affrontare – cioè la convenienza economica – e coinvolge i partner più titubanti a cambiare passo – cioè il mondo delle imprese. Il rischio di una gigantesca “bolla di carbonio” che deriverebbe dall’attuazione di serie politiche di riduzione delle emissioni, mette a rischio il futuro del settore del gas e del petrolio: infatti, se non si prenderanno subito provvedimenti, in un futuro prossimo non sarà più utilizzabile il 60 – 80% delle riserve di carbone, petrolio e gas delle aziende quotate in borsa. Gli investitori più attenti si stanno accorgendo che puntare su questo tipo di aziende sta diventando una scelta molto rischiosa. Già oggi la BEI e la Banca Mondiale ricusano molti dei progetti di costruzione di centrali a carbone.

La competitività delle imprese in Europa sarebbe gravemente colpita dal riscaldamento globale, che secondo molti scienziati rischia di verificarsi in questo secolo. Peter Thorne, l’autore principale delle osservazione per il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) ha affermato che:

“se si dispone di possibilità alternative e di cambiamento, è sbagliato continuare a costruire infrastrutture che peggioreranno il clima, mentre è più saggio costruirne per le implicazioni di adattamento e mitigazione”. L’UE è scossa al proprio interno dalle richieste degli enti energetici, appoggiati da alcuni governi (tra cui quello polacco e quello italiano), per incentivare l’utilizzo in Europa di carbone e gas a buon mercato importato dagli Stati Uniti spostando il finanziamento alle fonti rinnovabili.

 

Si direbbe però che l’imprenditoria più innovativa sia assai più avanti: infatti, per aiutare la comunità imprenditoriale a comprendere meglio le implicazioni del cambiamento climatico, la University of Judge Business School di Cambridge e la Fondazione Europea per il Clima hanno distribuito a vari settori industriali un documento assai rigoroso, dal titolo intrigante: “Il cambiamento climatico influenzerà il mio settore di attività?”. L’intento è quello di incoraggiare le direzioni aziendali a uscire dal business quando comporta forti emissioni ed a prepararsi per una nuova economia “low carbon”. Il documento si trova su http://bit.ly/15D2DvH.

 

Dopo il rapporto: i negoziati di Varsavia (Novembre) e Bali (Dicembre 2013)

“Sono davvero sbalordito, non vi è alcun senso di urgenza qui” ha dichiarato un portavoce dell’IPCC alla conferenza COP 19 conclusa a Novembre a Varsavia.

L’unico sorprendente successo è stato un accordo sul REDD (Riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado) che fornirà una compensazione per i paesi che potrebbero perdere gettito non sfruttando le loro foreste e che include la verifica, il monitoraggio e la salvaguardia per le comunità locali. La deforestazione e la conversione delle foreste in terreno agricolo contribuisce per circa il 10 per cento delle emissioni totali di CO2 antropica.

Più controversa è stata l’introduzione di un meccanismo internazionale per le perdite e i danni climatici” (“loss and damage”), che apre la strada al risarcimento dei danni per i paesi sviluppati. In definitiva, la lentezza del processo per arrivare nel 2015 al “dopo Kyoto” e la scarsa fiducia fra le Parti, suscitano seri dubbi sul  raggiungimento di un nuovo accordo globale per la riduzione delle emissioni.

A Bali, in Dicembre, per la prima volta nella sua storia, l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha concluso un incontro ministeriale con un accordo.

A sperare in un accordo finale erano stati proprio i PVS, perché per loro da quando l’OMC/WTO ha smesso di funzionare come strumento prevalentemente euro-americano, è iniziata la stagione degli accordi bilaterali o regionali che seguono la logica delle catene di approvvigionamento esigendo una grande integrazione fra i Paesi che partecipano alla filiera di un prodotto. Ma questi accordi in genere legano un centro di consumo a quelli di produzione e i Paesi più deboli si trovano in una posizione negoziale debole.

Questo apre possibilità per il futuro, possibilità però che saranno tutte da creare. L’accordo in sé è infatti molto deludente e il piatto della bilancia pende anche questa volta dalla parte dei paesi più forti. Il rischio è che i Paesi poveri siano costretti a privilegiare l’informatizzazione dei loro uffici doganali rispetto alle scuole e a migliorare le infrastrutture dei porti piuttosto che gli ospedali.

Come ha scritto Roberto Meregalli, “la battaglia per un sistema equo di regole che ponga il diritto al cibo, al lavoro, alla salute, all’ambiente prima del diritto a fare business, sarà ancora aspra e lunga, ma la crisi dell’occidente dovrebbe aver insegnato che le ricette del passato sono da buttare e che l’unica politica win-win è quella della cooperazione”.

Insomma, dopo Stoccolma, Varsavia e Bali è la scienza o l’economia a dettare l’agenda per gli abitanti del pianeta?

Politica energetica italiana: via col gas

di Mario Agostinelli

In un ottimo articolo su Repubblica, Sylos Labini e Ruffolo prospettano una politica energeticache traduca in opportunità le ammonizioni del quinto rapporto Ipcc (Intergovernmental panel on climate change). Moltissime loro osservazioni potrebbero interloquire positivamente con questo blog e i commenti che lo arricchiscono. In sostanza, i due autori ritengono necessaria una maggior indipendenza dell’Italia dalle importazioni allargando strategicamente il contributo delle rinnovabili e riconvertendo l’eccesso di offerta elettrica dei cicli combinati e delle centrali a carbone. Ma chi lo va a dire a Enel ed Eni che hanno continue assicurazioni da un governo che manca di una politica industriale, che sposta incentivi dalle fonti rinnovabili alle fossili e vorrebbe trasformare la nostra penisola nell’hub del gas d’Europa?

La linea strategica di Labini e Ruffolo prevede investimenti e occupazione stabile proiettata nel futuro e programmabile sul territorio. Una rivoluzione, che in Germania sta già avvenendo, seppur tra contrasti, ma che i paesi dell’Est europeo, più l’Italia, vorrebbero seppellire sotto una nube di gas a buon mercato estratto e consegnato con enormi ricadute ambientali (lo shale gas, il gas siberiano con le implicazioni sul permafrost, le condotte che occupano decine di migliaia di tratte di foreste e fondali marini). È stata assunta la crisi come alibi per un miope rilancio del vecchio, per interessiche i cittadini non condividono (a proposito: se non avessero vinto i “sì” al referendum cosa ne avremmo fatto delle centrali nucleari già programmate?).

Così, ad ogni accensione dello schermo ci troviamo il cane a sei zampe e i “guerrieri” dell’Enel  a parlarci della loro energia buona, che, guarda caso, nobilita ogni nostra azione senza che venga mai citata l’emergenza climatica come opportunità per correggere i nostri comportamenti e per adeguare il sistema di offerta e consumo di energia. Avanti così, dunque, negando che gli scienziati di tutto il mondo hanno ammonito che invece non si può continuare in questo modo.

In fondo, i negazionisti del clima sono tutt’altro che rinunciatari e li sostengono la rete di Murdoch, i giornali economici più prestigiosi, i quotidiani che fanno opinione. Con una strategia ben definita, che il Guardian ha disvelato. Si procede per tappe: prima negando che il problema ci sia; poi riconoscendolo, ma affermando che la tecnologia può risolvere il problema; quindi, assumendo per inesatta l’affermazione dell’Ipcc per cui l’aumento di temperatura è, con una probabilità di almeno il 95%, causato dall’uomo; infine, riconoscendo che il problema c’è, ma che abbiamo a disposizione molto tempo o, addirittura, non c’è più niente da fare.

Fortunatamente abbiamo pochissimo ma sufficiente tempo, se facciamo prevalere senza compromessi l’interesse per la vita e la salute. Ma dove galleggia il Governo italiano tra quelle tappe esemplificate dal “Guardian”, visto che considera l’abbattimento di CO2 con 18GW di solare e gli oltre 8GW di eolico un peso da ridimensionare? Un po’ si era già capito, quando era stata presentata una traccia di strategia energetica nazionale (Sen) fortunatamente oggi riposta in un cassetto. In quel documento si accontentava un po’ tutti, all’italiana. Credo soprattutto per rassicurare Putin, Erdogan, l’Azerbajan e l’Algeria che le nostre banche avrebbero onorato i loro impegni neglispaventosi investimenti richiesti dai gasdotti che, in un braccio di ferro tra contendenti e in un abbraccio micidiale per le nazioni importatrici, solcano e solcheranno l’Europa da nord e da sud. Magari con gli italiani che alla loro inaugurazione si metteranno a cantare “O sole mio!”.