Congresso CGIL: uscire dalla crisi cambiando la politica energetica

 XVII CONGRESSO CGIL: una occasione per uscire dalla crisi cambiando la politica energetica e di sviluppo innovando le politiche del lavoro

Il congresso del più grande sindacato italiano ha per forza (nel bene o nel male) un impatto su tutto il quadro sociale, economico, politico, non solo sui lavoratori, e tra questi, sugli iscritti alla Cgil.

Purtroppo il Governo risulta sordo all’urgenza di varare un piano energetico che colga la necessità di fuoriuscire dal sistema dei fossili e continua ad ignorare il rapporto tra politica energetica, politica industriale, lavoro, ambiente e clima. Sono temi altresì all’ordine del giorno del congresso del più grande sindacato confederale, che realizza la consultazione e il coinvolgimento più democratico oggi realizzabile nel Paese. Anche per questo, nel massimo rispetto dell’autonomia di ognuno, come Associazione “Si alle energie rinnovabili No al nucleare”, siamo interessati ad approfondirne i contenuti in una forma che eviti qualsiasi intromissione e costituisca solo un arricchimento specifico su un terreno che vorremmo praticare insieme.

 

Partiamo dai testi integrali dei due documenti: il primo «Il lavoro decide il futuro», con  una serie di emendamenti collegati, e il secondo «Il sindacato è un’altra cosa»,  che possono essere consultati sul sito www.cgil.it.

Nella ragione sociale della nostra associazione non c’è solo il no al nucleare, ma soprattutto la necessità di trovare una direzione nella transizione energetica, superando le fonti fossili, a partire dal carbone, e sostituendole razionalmente e con congrua urgenza con quelle rinnovabili e l’efficienza energetica. Un altro modello non più basato sulle grandi centrali ma sulla generazione distribuita. I benefici non sarebbero solo ambientali, climatici ed economici (riducendo le importazioni); si porrebbero le basi per avviare una riconversione verso una economia di beni durevoli e sostenibili,  inducendo innovazioni nei cicli produttivi, nella stessa progettazione dei prodotti e dei loro cicli di vita. Un’altra strada per uscire dalla crisi, in alternativa agli investimenti per le grandi opere e per le spese militari, che oltre a valorizzare i beni comuni, creerebbe molte più occasioni di lavoro stabile e qualificato. Un percorso partecipato che necessita di precise scelte di politica industriale e di ricerca e anche di una partecipazione attiva, attraverso una pratica contrattuale coerente  da parte dei lavoratori, e di una consapevolezza dei consumatori, dei cittadini.

Da qui il nostro interesse per il movimento sindacale e per la Cgil. Infatti, su queste basi abbiamo già avuto la feconda occasione di collaborare con Cgil, Spi, Fillea, Flc, Fiom, Federconsumatori,  Sunia, Abitare e Anziani, Auser, al progetto Risparmiare energia a casa tua conviene”.

 

A noi sembra che questa “nuova idea di sviluppo” che salda le questioni sociali a quelle ambientali, ma che non sempre è stata, né è perseguita, con sufficiente coerenza dal movimento sindacale, anche per contraddizioni e oggettive difficoltà, sia sostanzialmente presente nel documento «Il lavoro decide il futuro» (costituito da una premessa generale e da 11 azioni tematiche), se si comprendono ed integrano anche gli emendamenti, sostenuti da alcuni dirigenti confederali e di alcune categorie (Fiom, Flc, Spi, Fillea, Fisac, Fp, ecc..) che hanno un coerente filo conduttore.

 

Questa è la valutazione generale che diamo come associazione; naturalmente chi di noi è iscritto e milita nelle diverse categorie della Cgil, si impegnerà a partecipare alle assemblee congressuali sostenendo queste posizioni con le necessarie articolazioni.

 

 

La Presidenza di “SI alle energie rinnovabili NO al nucleare” (www.oltreilnucleare.it)

 

Vittorio Bardi
Pierluigi Adami
Mario Agostinelli
Paolo Bartolomei
Mauro Bulgarelli
Nicola Cipolla
Massimo de Santi
Alfiero Grandi
Oscar Mancini
Gianni Mattioli
Gianni Naggi
Debora Rizzuto
Massimo Scalia
Alex Sorokin
Umberto Zona

Carla Ravaioli se ne è andata…. leggera

Vorremo sempre bene a Carla perché ci rimane dentro. In effetti, non le volevamo solo bene: ne coglievamo in ogni istante l’apporto irripetibile per capire più in profondo come stessero le cose, senza limitarsi a dire che tutto sta cambiando solo per disancorarsi dai principi, dai valori, dalla memoria. Magari creandosi l’alibi per non stare più su una frontiera sempre meno presidiata.

La incontravo spesso venendo a Roma e ne apprezzavo la ricchezza di attenzioni anche agli aspetti umani delle relazioni. Bruna, mia moglie, sorrideva quando mi passava le sue telefonate, immancabilmente in orari che ci coglievano negli spazi sereni del ritorno a casa, quasi fosse una di famiglia che, quando viene a trovarti, metti al tavolo con quello che c’è.

Ho scritto un libro con lei sulle 35 ore e la riduzione dell’orario di lavoro in cui c’era tutta l’esplosione di gioia per la possibilità di riappropriarsi di uno spazio di vita, di ambiente restituito alla riproduzione e alla rinnovabilità, di convivialità meritata. Carla era molto bella anche dopo gli ottant’anni: il che faceva sperare a tutti gli estimatori di non invecchiare mai. Non accomodante, ma gentile, non settaria, ma rigorosa, dialogante, ma irriducibile nelle sue convinzioni. Credo sia appartenuta ad una generazione che era in grado ancora di trasmettere a quelle successive: ora se ne va, leggera, senza vivere il dramma della mia generazione che viene “rottamata” perfino dagli amici, prima che dagli avversari. Carla mi ricorda Laura Conti, seppure nella profonda diversità di esperienze, carattere, rapporti con l’eresia in politica. Laura ci è rimasta compagna di viaggio, come lo sarà indubbiamente Carla.

Ti vediamo sorridente anche in questo momento triste. Ma, come per Bruna, a cui tu eri affezionata e di cui ti addolorava la morte, “la vita non finisce mai”.

Mario

Il fracking si frattura

di Antonio Turiel

Cari lettori,

la bolla del fracking sta giungendo alla sua fine. Già qualche mese fa analizzavamo la bassa redditività del gas e del petrolio sfruttati con questo metodo e l’assurdità economica del loro sfruttamento (specialmente nel caso del gas) e prevedevamo per niente luminoso per il loro sfruttamento, tanto negli Stati Uniti quanto nel resto del mondo. In solo nove mesi molti dei cattivi presagi sull’evoluzione dei giacimenti sfruttati mediante il fracking si sono andati confermando e tutta la bolla finanziaria montata intorno ad esso, sostenuta dall’inganno secondo il quale gli Stati Uniti saranno presto autosufficienti energeticamente è sul punto di sgretolarsi. Ricapitoliamo.

Cominciamo dalle denunce dell’industria stessa, ingannata dalle promesse alimentate dagli speculatori. Se già nell’agosto dello scorso anno Rex Tillerson, amministratore delegato di Exxon Mobile, denunciava al New York Times che nell’affare del gas da fracking “abbiamo tutti perso anche le mutande”, quest’anno è stata la volta di Peter Voser, nel momento in cui ha smesso di essere amministratore delegato della Shell, di riconoscere al Financial Times che la cosa di cui si pentiva di più era quella di essersi messo nel fracking . Il fatto è che nella frenesia del fracking negli Stati Uniti è stato reso prioritario il denaro liquido immediato davanti alla redditività a lungo periodo, dando per scontate condizioni economiche (che costi si sarebbero abbassati e che i prezzi sarebbero saliti) che alla fine non si sono verificate. I prezzi non salgono perché il consumo di gas naturale, dopo un leggero rialzo durante gli ultimi anni, sembra aver raggiunto il tetto e nell’ultimo anno si mantiene simile all’anno scorso, persino leggermente inferiore, se guardiamo i dati del consumo mensile della EIA del Governo degli Stati Uniti.

Pensate inoltre che il consumo annuale cresceva soprattutto perché lo faceva il consumo a valle, nel periodo di minor consumo – l’estate – perché il gas è meno caro in quel momento, il che ovviamente rendeva difficile rendere redditizio l’investimento. I fatti mal si addicono con certa propaganda interessata sulla rivoluzione dello shale gas in America e con l’inganno secondo il quale i prezzi si trovano grazie ad essa ai minimi storici.

Il fatto è che il costo della produzione di gas da fracking non è solo 2 o 3 volte superiore al prezzo attuale di vendita negli Stati Uniti (era necessario vendere il gas a più di 8 dollari ogni 1000 piedi cubici di gas perché tornassero i conti col fracking); il fatto è che lo sforzo necessario a mantenere i livelli produttivi attuali porta ad dover perforare sempre più pozzi ed un ritmo sempre più veloce, esponenziale, il che incrementa i costi reali ancora di più. Cosicché prima o poi doveva succedere ciò che sta succedendo, cioè che alcune delle formazioni più ricche di gas di roccia poco porosa (prima dicevamo gas di scisto ma non è il termine giusto per shale gas; in ogni caso, stiamo parlando del gas che si estrae per mezzo del fracking) stanno già cominciando a declinare. Peak shale gas.

Immagine da Oil Man: http://petrole.blog.lemonde.fr/2013/10/01/gaz-de-schiste-premiers-declins-aux-etats-unis/

Come mostra il grafico sopra di queste sopra queste linee, tratte da un eccellente articolo del miglior blog in lingua francese sul problema delle risorse naturali, Oil Man, le formazioni di Haynesville e Barnett, le due più produttive di gas di roccia poco porosa, sono giunte a loro rispettivi picchi di produzione in dicembre e novembre del 2011, rispettivamente. La stampa convenzionale americana comincia a farsi eco di ciò che sono dati e specula su quando aspettarsi che l’ultima grande formazione, Marcellus, entri in declino.

Naturalmente i promotori di questo tipo di estrazione diranno che si può aumentare la produzione se si investe di più, cosa che si dovrebbe fare con decisione perché, secondo loro, è la fonte energetica del futuro. In realtà si può dire lo stesso del petrolio convenzionale o di qualsiasi altra risorsa che giunge al proprio picco: è sempre vero che investendo di più si può estrarre più gas, petrolio, carbone e uranio. Il problema è che sia redditizio, cosa che, come abbiamo già spiegato, dipende dall’EROEI (redditività energetica, insomma) nonostante che, a quanto sembra, gli economisti non riescono a comprendere un concetto così semplice, ma che si scontra coi loro pregiudizi su come dovrebbe funzionare il mondo per adattarsi ai loro desideri. E’ questo tipo di argomentazione sbagliata quella che porta a vendere come cosa praticamente fatta il miracolo che non arriva del petrolio da acqua ultra profonde del Brasile o della futura produzione di petrolio da Vaca Muerta in Argentina che dovrebbe invertire il declino terminale della produzione di petrolio della nazione andina. Menzogne per il consumo locale, cinismo nell’era del declino.

Per chi non capisca che si possa estrarre il gas di roccia poco porosa nonostante in esso si perdano ingenti quantità di denaro (10.000 milioni di euro solo nel 2012, come mostrava Dave Hughes nell’articolo apparso su Nature questo febbraio) raccomando di guardare i video della serieFrackonomics, al primo dei quali si accede seguendo il link che ho messo nel nome. La questione è semplice: “si tratta di una bolla finanziaria orchestrata da Wall Street”, nelle parole di Deborah Rogers dell’Energy Policy Forum. Se volete più dati sulla farsa dello shale gas  e dello shale oil (del quale parleremo ora) non mancate di visitare il sito ShaleBubble.org.

E cosa succede al petrolio di roccia poco porosa? Questa risorsa non è stata identificata in Europa (qui si parla solo di shale gas), perché i suoi giacimenti sono molto meno numerosi. Come spiegavamo nel post di inizio anno, il petrolio leggero di roccia compatta è redditizio in modo marginale; non darà grandi benefici, ma almeno ne dà qualcuno, non come il gas naturale di roccia poco porosa (l’economia dello shale gas, ad essere onesti, è un po’ più complessa visto che i liquidi associati che appaiono in alcuni giacimenti rendono effettivamente redditizie alcune piattaforme). Tuttavia, le prospettive della sua produzione non sono tanto allegre come quelle delloshale gas: persino la IEA riconosce nei suoi rapporti che la sua produzione sarà sempre marginale (come abbiamo già detto in questo blog). Persino coloro che scommettono su un futuro luminoso per lo shale oil, come Goldman Sachs in un recente rapporto, riconoscono che la sua produzione arriverà al massimo al 2022:

Immagine da Oil Man, http://petrole.blog.lemonde.fr/2013/10/08/le-court-avenir-du-petrole-de-schiste-vu-par-goldman-sachs
 
Tuttavia, una volta che i posti migliori (sweet spots) sono stati sfruttati quello che rimane è più difficile e più caro da estrarre e meno redditizio. Se già per lo shale oil era necessario un prezzo al barile superiore agli 80 dollari, nella misura in cui passa il tempo il prezzo minimo sale finché a un certo momento non lontano questi giacimenti smetteranno di essere redditizi. E per non lontano intendo dire ora: anche se alcuni gestori famosi continuano a lodare gli incredibili vantaggi del fracking, la cosa certa è che il numero di pozzi attivi nella formazione di Bakken (la più produttiva proprio in questo momento) sembrano aver raggiunto un massimo a settembre dell’anno scorso (e ancora a novembre veniva negato), come mostra il grafico seguente, ancora una volta grazie a Oil Man:
Di nuovo la stessa argomentazione: con più investimenti uscirà fuori più petrolio, senza tenere conto che questo aumento di investimento può renderlo non redditizio e che logicamente gli investitori rifuggono gli investimenti non redditizi. Dave Hughes fa una stima più realistica di quello che ci si può aspettare dal petrolio di roccia compatta negli Stati Uniti:
Cioè, a seconda se si riesce ad aggiungere più o meno pozzi nuovi ogni anno il peak shale oil o punto di produzione massima di questo tipo di risorsa sarà nel 2015-2017. Non è un gran cambiamento, in ogni caso e il suo arrivo seppellirà tutti i sogni di indipendenza energetica degli Stati Uniti. E i problemi potrebbero arrivare prima: un articolo recente mette in guardia rispetto al fatto che la produzione dei pozzi di petrolio di roccia compatta attualmente in estrazione crolla di 63.000 barili al giorno in meno ogni mese e ogni volta crolla più rapidamente.
Immagine da SRSrocco Report
Il che non è proprio poco se si tiene in considerazione che equivale al 71% della nuova produzione.
Immagine da SRSrocco Report
Entro poco tempo, forse in un paio di mesi, la nuova produzione non potrebbe già più compensare il declino dei pozzi già attivi: è come correre su un tapis roulant. Tutto questo sembra dare ragione a Dave Hughes ed alle sue stime di quando avverrà il picco del petrolio di roccia compatta.
Le conseguenze di questa festa del fracking sono, naturalmente, molto negative. I gruppi anti fracking di solito si focalizzano sul problema dell’impatto ambientale, soprattutto sotto forma di inquinamento. Alla fine dei conti si devono iniettare ingenti quantità di acqua combinata a prodotti chimici abbastanza aggressivi e la maggior parte di quest’acqua torna in superficie, dove deve essere trattata o semplicemente immagazzinata. Questo aumenta lo stress idrico delle zone di perforazione (in Texas c’è una guerra aperta fra l’industria del fracking e gli agricoltori e gli allevatori) e aumenta il rischio che quest’acqua inquinata arrivi ad esaurirsi se non viene trattata in modo corretto (il che, dato l’ingente consumo e il ritmo frenetico, non è per nulla facile). Dall’altra parte, nonostante il tanto insistere sul fatto che le zone di frattura idraulica sono molto più profonde della falda acquifera e che la cassaforma della perforazione isola perfettamente la falda dalla penetrazione di sostanze chimiche che salgono e scendono, la cosa certa è che si sa che entro 5 anni almeno il 50% delle perforazioni presentano fessurazioni. L’effetto a lungo termine di questo inquinamento persistente pertanto è sconosciuto, data l’applicazione recente su ampia scala di questa tecnica.
Meno conosciuto è il fatto è il fatto che il fracking è un incubo logistico con un grande impatto ambientale più convenzionale a livello superficiale. Le forniture per mantenere la frenetica attività arrivano via strada, in camion carichi di acqua, sabbia e prodotti chimici e nella maggior parte dei siti la scarsa produzione dei singoli pozzi (alcune decine di barili di petrolio al giorno, nel caso deltight oil) fa sì che persino il petrolio e il gas risultante venga trasportato via camion. Questo implica fare grandi piattaforme logistiche, con un grande impatto sul territorio ed altri problemi associati al traffico così intenso (gli incidenti possono essere abbastanza gravi). Ovviamente nessuno paga queste esternalità ambientali. Tuttavia, ci sono altre esternalità che possono portare che possono portare a breve termine alla bancarotta piccole comunità. Come spiega Deborah Rogers, alcune contee del Texas si vedono obbligate a tenere le strade continuamente dissestate  a causa dell’intenso traffico pesante che vi transita grazie a fracking e le tasse che raccolgono non coprono nemmeno lontanamente questa spesa, fino al punto di poter distruggere le casse delle contee. La cosa curiosa della Texas Railroad Commission’s Eagle Ford Shale Task Force che ha analizzato la questione è che implicitamente assume che l’affare smetta di essere redditizio. Quindi, ciò che viene venduto come un nuovo Eldorado può presupporre non solo la rovina ambientale – e quindi economica – a lungo termine, ma persino direttamente quella economica a breve termine nelle comunità dove viene impiantato.
Il fiasco del fracking è una sorpresa, un bel sogno nel quale alcuni imprenditori hanno creduto in buona fede ma che la realtà ha smentito? Be’, in realtà no: una velina al New York Times ha rivelato che già nel 2010 i funzionari del Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti opinavano che era molto difficile che lo shale gas o lo shale oil sarebbero mai arrivati ad essere redditizi. Si potrebbe persino parlare di manipolazione dell’informazione per favorire un determinato affare speculativo, nel quale i promotore gonfiano le aspettative mentre i responsabili dell’amministrazione guardano dall’altra parte finché non esplode tutto. Bene, la stessa cosa della bolla immobiliare che, come i cattivi seriali ora torna con forza in tutto il mondo.
Riassumendo questo lungo post: le risorse estratte mediante fracking si sono potute estrarre soltanto negli Stati Uniti grazie alla forza del dollaro come moneta di riserva e per un tempo limitato. Si fa importando energia incorporata nei materiali usati ed esportando inflazione e miseria, ma ma nemmeno così si riesce a farlo durare molto tempo. Ed ovviamente un tale schema non è fattibile nemmeno lontanamente in Europa.
Dimentichi della sempre più evidente decadenza di questo tipo di estrazione negli Stati Uniti, in Spagna uno degli ultimi movimenti dei gruppi pro fracking è stato quello di tirar fuori questo video di lode dei sui benefici e di minimizzazione dei suoi problemi. Intanto, decine di gruppi locali contro il fracking, si mobilitano per cercare di bloccare i permessi. La battaglia è sempre più amara , ma a queste latitudini è chiaro che la prima parte può solo perdere, anche se questo non significa che la seconda vinca. In realtà la cosa più facile è che tutto il mondo perda se non si impone il buon senso.
Saluti.
AMT

Ambiente ed energia: un solo ministero

di Stella Bianchi

Ma l’Italia ci crede davvero alle energie rinnovabili? A parole sicuramente si, nei fatti molto meno. E’ passato poco tempo da quando – con impegno e non poche difficoltà – alla camera siamo riusciti a cambiare la norma introdotta in senato alla legge di stabilità che non si limitava ad assicurare una capacità di riserva al sistema energetico ma di fatto penalizzava le energie alternative per tenere in piedi indiscriminatamente le centrali elettriche tradizionali (soprattutto a gas e carbone) che a partire dallo ‘sblocca centrali’ del 2002 si sono moltiplicate in maniera esponenziale e che oggi sono doppiamente in crisi (per colpa dell’eccesso di produzione e per colpa del calo dei consumi energetici in tempi di Pil che arretra e industria al palo). Le rinnovabili avrebbero dovuto “pagare” questi errori di valutazione per i quali la nostra capacità di produzione di energia elettrica tradizionale è molto più del doppio dei picchi di richiesta.

Messo in archivio questo (parziale) successo le questioni tornano e tutte dentro al governo. Si avvicina un momento importante con la definizione degli obiettivi europei al 2030 dopo il successo della strategia 20-20-20 (con i tre obiettivi fissati a livello europeo per il 2020 per arrivare a meno 20% delle emissioni di co2, a più 20% per le rinnovabili, a più 20% per l’efficienza energetica). Nel governo, da una parte il ministro allo Sviluppo Zanonato sostiene nei commenti alla consultazione sul Libro Verde comunitario per le strategie energetico-climatiche al 2030, che vada fissato un obiettivo unico sulle emissioni senza definire anche obiettivi per le rinnovabili e per l’efficienza energetica. L’esperienza ci dice però quanto sia importante fissare target di sviluppo per promuovere la crescita dell’energia del futuro, che ha generato crescita e posti di lavoro ed è indispensabile per contrastare in modo efficace la terribile minaccia dei cambiamenti climatici che ci impone di cambiare il nostro modo di produrre e consumare energia.

Non a caso l’idea di un obiettivo unico, limitato alle sole emissioni di co2, è sostenuta dalle grandi imprese delle energie convenzionali e osteggiato dal mondo della green economy che chiede apertamente obiettivi per le rinnovabili. E nel governo il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando sostiene apertamente questa posizione, con una riduzione delle emissioni di co2 pari almeno al 40 per cento e obiettivi per rinnovabili ed efficienza, e su questo tema ha firmato un appello europeo insieme ad un bel numero di ministri dei paesi membri.

Ecco basta guardare le firme in calce all’appello per accorgerci che c’è qualcosa che non va qui in Italia. Ci si accorge ad esempio che Francia, in Portogallo, in Belgio, in Danimarca la qualifica dei ministri mette insieme le competenze sull’ambiente con quelle sull’energia (in qualche caso anche con i lavori pubblici e la mobilità). Fa eccezione la Germania, dove però a firmare l’appello pro-rinnovabili è Sigmar Gabriel, uomo forte dell’Spd nella grosse koalition e ministro dell’Economia e dell’Energia.

Non è mia intenzione aprire una querelle tra due ministri che stimo (per altro tutti e due del Pd…) ne voglio farne una questione personale. Credo però che non abbia senso avere le competenze dell’ambiente separate da quelle per l’energia: non siamo più negli anni in cui l’ecologia era una “passione per pochi”, siamo nel millennio del cambiamento climatico e staccare il come si produce energia (e quindi anche il come e quanto si produce in termini di gas climalteranti) e il come si preserva e anzi si cambia in meglio l’ambiente e si creano posti di lavoro a partire dal maggior rispetto per l’ambiente sia irrealistico. Sul tema di cui si discute, il governo prenda una decisione univoca che ci consenta di essere nel gruppo che traina il cambiamento necessario e promuove l’unica crescita possibile nel rispetto dell’ambiente nel quale viviamo come sostiene con chiarezza il ministro Orlando insieme ad altri ministri europei e metta mano ad una riforma delle attribuzioni ministeriali perché su questo non può esserci strabismo.

Elettricità +0,7%: sapete perché?

Dal primo gennaio le tariffe elettriche sono aumentate dello 0,7%. L’Authority – che ha ampliato il proprio titolo divenendo “Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico”, come a dire che si occuperà di tutta la materia referendaria su cui 27 milioni di cittadini hanno provato invano a dire la loro – ha chiarito che non c’è aumento del prezzo del gas e non ha avuto più il coraggio di dire che la colpa è delle rinnovabili.

“Per l’elettricità, – ha affermato – l’incremento complessivo dello 0,7% della bolletta della famiglia tipo è determinato dall’introduzione dal mese di gennaio di un nuovo onere generale di sistema, la componente ‘Ae’ per finanziare le agevolazioni alle imprese manifatturiere con elevati consumi di energia elettrica introdotte dalla legislazione”. Così, la bolletta è diventata una sorta di bancomat su cui scaricare i costi dell’oscura politica energetica e fiscale italiana. E non è finita, perché finora è stata contabilizzata solo la prima tranche di 400 milioni prevista dalla legge del governo delle larghe intese: ce ne sono altri 820 da recuperare per il 2014! (v. www.martinbuber.eu)

Non sarebbe il caso che Zanonato, che dall’inizio del suo operato parla di ridurre il costo della bolletta, si dedichi a trasformarne e renderne trasparente la struttura riportandole al loro scopo originario ed eliminando tutti i carichi impropri che ne falsano la natura? Ma non sembra questo il cammino che ci aspetta: in sospeso c’è “un’erogazione a favore della Sogin per far fronte agli impegni connessi ai contratti di riprocessamento in Francia del combustibile nucleare irraggiato e del combustibile di Creys Malville” (citazione dalla delibera 641/2013/R/Com). Sapevamo che il nucleare è per sempre, ma adesso se ne accorgono anche le nostre tasche. E poi, senza che se ne sia parlato, si attinge alle bollette per 300 milioni di euro, prelevati e spostati per coprire la cancellazione dell’IMU.

Basta così, direte. Ma eccoci al famoso Cip6, l’incentivo allo smaltimento rifiuti e scarti petroliferi attraverso la generazione elettrica. Vanno reperiti 470 milioni di euro “per far fronte alla risoluzione anticipata della convenzione della centrale di Falconara dell’Api e altri 570 milioni di euro in relazione alla centrale di Priolo, raffineria ISAB di Erg” (v. www.staffettaonline.com). Infine, sale del 60% il costo per la copertura del nuovo capacity payment a favore dei cicli combinati a gas (si pagherà non la corrente prodotta ma la disponibilità a entrare celermente in produzione), onere fortemente voluto dalle utility per remunerare la capacità disponibile ad entrare in produzione per adattarsi alla generazione rinnovabile.

In queste amare constatazioni, c’è molta “technicality”, dirà chi legge ed è difficile capire. Vogliamo tradurre? Si tratta di 3,5 miliardi di euro come aggravio previsto per le future bollette, considerando anche altri oneri relativi a quelle del gas (Quotidiano energia del 7/1/2014). Chi potrebbe scambiare per politica energetica e industriale questo accanimento verso i consumatori ignari e male informati? E ci sembra arduo cercare di convincerli che i costi elevati dell’erogazione di energia e la mancata riduzione delle tariffe sono da attribuire alla diffusione incentivata delle fonti rinnovabili!

di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli