Ucraina, il gas che attizza i roghi di Kiev

Torneremo a vivere in un continente che – come mezzo secolo fa – era metà sotto il tallone degli Usae metà sotto quello dell’Unione Sovietica? Saranno ancora le armi ospitate sul suo territorio a segnare il ruolo subalterno dell’Europa tra i contendenti? La tragedia ucraina è presentata intermini geopolitici non convincenti: l’Ucraina aderirà alla “democratica” Unione Europea o manterrà legami con il “dispotico” impero russo?

È vero che i confini della moderna Ucraina contengono una crepa Est-Ovest, che è linguistica, religiosa, economica e culturale. Ma finora la frattura non sembrava comportare irreparabili minacce di guerra. Ben più decisiva sembrerebbe la determinazione dell’economia e della finanza che dominano il mondo nello sfruttare fino allo sfinimento le fonti energetiche fossili che superano in enormi condotte grandi distese o giacciono sotto quelle grandi pianure, in spregio alla realtà del cambiamento climatico e in insostenibile alternativa al sistema diffuso delle fonti rinnovabili, là pressoché sconosciute.

Victoria Nuland, vice Segretario di Stato per gli affari europei – un superstite della cricca neoconservatrice che circondava George W. Bush – catturata da una telecamera nascosta mentre bisbigliava: “che gli Europei si fottano!”, parla esplicitamente di una lotta tra Europa e Stati Uniti, terrorizzati – questi ultimi – da un’alleanza geopolitica tra Germania, Francia e Russia all’interno della transizione energetica in corso.

La verità è che l’Europa attuale ha abdicato di fronte alla politica finanziaria ed energetica dellecorporation multinazionali e alla geopolitica militare che punta all’annessione dell’Ucraina alla Nato: il modello dell’Est è fatto di carbone, gasdotti e giacimenti fossili da controllare con l’esibizione degli eserciti, mentre il controllo del clima è subordinato alla competizione nel mercato.

Il fattore “scatenante” dei roghi di piazza e dell’entrata dei blindati russi in Crimea potrebbe essere individuato nello shale gas, o meglio nelle grandi risorse di gas ucraine estraibili con la tecnica del fracking, con la conseguente concorrenza alle condotte che portano gas convenzionale dalla Russia interna ed estrema.

La possibile eppur trascurata spiegazione dell’intreccio economico che sta dietro la guerra civile di Kiev e l’invasione della Crimea, viene addirittura da una fonte insospettabile come il think thank Conservative Home, che si definisce “la casa del conservatorismo”. Harry Phibbs – il principale columnist del web di Conservative Home – ricorda che “lo scorso novembre ci fu un accordo di coproduzione da 10 miliardi dollari per il gas da scisto, firmato dall’Ucraina con laChevron, che faceva seguito ad un precedente, simile accordo con la Royal Dutch Shell”. E aggiunge che “l’Ucraina è uno dei campi di battaglia per la rivoluzione dello shale gas, dato che finora l’Occidente per le sue forniture di petrolio e gas tradizionali è stato fortemente dipendente da un instabile Medio Oriente e da una Russia inaffidabile”.

Questo serve anche a spiegare il rumoroso silenzio sulla vicenda ucraina del fedele amico di Putin,Silvio Berlusconi, e di buona parte del gotha energetico italiano che con Putin e con la sua oligarchia autoritaria dello Stato-mercato energetico russo fa e ha fatto affari d’oro, pur non ritraendosi dall’avventura del gas non tradizionale, finora avversata dall’Ue.

Da tempo l’Ucraina punta a diventare, da problematico Paese di transito del gas russo, un Paese produttore di shale gas, sostenuto dalla Global Shale Gas Initiative promossa dagli Stati Uniti per fornire supporto tecnologico e know how attraverso il coinvolgimento delle proprie compagnie energetiche.

A riguardo, l’Italia non sta con le mani in mano. Scaroni, amministratore delegato del gruppo Eni in odore di riconferma col governo Renzi, il 27 novembre 2013 ricordava, a margine della presentazione dell’opera della Madonna di Raffaello a Palazzo Marino, di avere 9 blocchi esplorativi per il gas non convenzionale nelle regioni vicine alla Crimea (Lliv).

Insomma: lo sfruttamento del gas non convenzionale da parte di Usa, ex satelliti sovietici e Cina potrebbe privare Mosca del suo ruolo di fornitore energetico dominante, togliendo al Cremlino una formidabile arma economica e geopolitica.

La partita tuttavia è apertissima, perché il diffondersi su scala globale di una shale gas revolution appare complicato da una serie di fattori economici e tecnologici, nonché dal suo devastante impatto ambientale.

Ma dovrebbe colpirci come questo acutissimo conflitto avvenga tutto all’interno delle vecchie fonti – gas, petrolio e, di riflesso, carbone – su cui si sostiene un modello che ha un presente di guerra, ma non ha un futuro né sul piano della soluzione della crisi ambientale e economica, né sul versante dell’occupazione e della democrazia. Ecco perché, quando è più evidente il richiamo delle armi, è tanto più urgente andare alle radici delle motivazioni per la loro entrata in campo. E la soluzione di una energia rinnovabile, decentrata, governata e conservata democraticamente sul territorio diventa a questo punto ineliminabile.

Un governo ignaro di rinnovabili e clima

Se il buongiorno si vede dal mattino, per il settore delle rinnovabili e dell’efficienza energetica non tira proprio un vento a favore, vista la nomina dei due ministri ‘competenti’ in materia da parte del neo presidente del consiglio Matteo Renzi. E’ pur vero che le valutazioni sulle persone si fanno sulla base di atti concreti, ma è proprio la direzione presa con la scelta dei due responsabili ai dicasteri Sviluppo e Ambiente che non sembra rendere centrale l’industria low carbon e le questioni ecologiche. Intendiamoci, non che il recente passato sia stato un alternarsi di ministri folgorati sulla via della green economy. Dove non hanno fatto disastri (più o meno consapevoli) per questi comparti, nel migliore dei casi sono stati ininfluenti (almeno il ministro Orlando si era speso per obiettivi distinti e vincolanti per rinnovabili ed efficienza energetica al 2030).

Al ministero dello Sviluppo Economico ci sarà Federica Guidi la cui nomina già in queste ore sta diventando un fattore di criticità del nuovo governo per i conflitti di interesse di cui è portatrice. Figlia dell’industriale Guildalberto Guidi, storico rappresentante della Confindustria, laureata in giurisprudenza, è stata presidente dal 2008 al 2011 dei Giovani imprenditori di Confindustria. Tanto per capirci, parliamo di quella parte di Confindustria che avallava l’idea dell’ad di Enel, Fulvio Conti, dicostruire 4 o 5 centrali nucleari in Italia. Quel ritorno al nucleare avrebbe portato, a regime, almeno altri 60 TWh all’anno. Alla faccia della storica overcapacity. Alla luce degli obiettivi 2020 e di quelli che poi sarebbero stati definiti al 2030, del lento declino della produzione domestica già in atto e di una domanda che dal 2011 è in costante calo (con circa 108 TWh su 318 coperti da rinnovabili nel 2013), ci saremmo dovuti sorbire un enorme surplus di elettricità, oltre i costi e i rischi di quel piano, in fondo solo per dare ossigeno ai soliti pochi appaltatori dell’impresa. Ricordiamocelo sempre quando li sentiamo in coro pontificare sui costi delle rinnovabili unica causa, a loro dire, del caro bolletta e sulle illuminanti visioni dell’energia del futuro.

In un’intervista a Il Tempo nel giugno del 2008, la neo ministra Guidi affermava: “Abbiamo le centrali nucleari a pochi chilometri dai nostri confini. Dunque non farle sul nostro territorio è un falso problema. C’è stato un terremoto in Giappone e il sistema di sicurezza delle centrali ha tenuto. Inoltre pur non essendo esperta del settore sento parlare di nucleare di terza o quarta generazione e di un livello di prevenzione del rischio ancora più elevato. Questo può bastare per dare una risposta a un costo dell’energia che in Italia è più alto del 30% rispetto ai partner europei. Un ultimo aspetto è che possiamo rientrare in pista anche dal punto di vista commerciale in un settore in cui eravamo leader”. Ecco, non è esperta in materia. Per una ministra che dovrebbe essere un tecnico non è un bel biglietto da visita.

Dopo il giuramento al Quirinale, correttamente Federica Guidi si è dimessa dalle cariche operative della società di famiglia, la Ducati Energia, ma resta lampante il conflitto d’interessi. La sua azienda opera in tutti i settori controllati dal suo Ministero: energia elettrica, eolico, meccanica di precisione, eccetera. E inoltre, i suoi prodotti sono venduti a società pubbliche di cui lo Stato è ancora azionista come Enel, Poste o Ferrovie dello Stato.

Solo per fare un esempio la Ducati Energia è tra le aziende in gara, insieme ad altre inclusa la turca Karsan, per l’acquisto della Bredamenarinibus, la più importante azienda italiana produttrice di autobus che deve essere ceduta da Finmeccanica (controllata al 30% dallo Stato). La Guidi uscirà dalla stanza del consiglio dei ministri, come diceva di fare Berlusconi, quando all’ordine del giorno c’era da discutere di uno dei suoi molteplici affari privati? Non prendiamoci in giro. Siamo curiosi di sapere cosa dirà l’Antitrust sulla posizione della neo-ministra.

Il ‘premier rottamatore’ aveva per questo dicastero due altre cartucce: l’amministratore delegato delle Ferrovie Mauro Moretti e Luca Cordero di Montezemolo. Non proprio due figure dalla riconosciuta nomea verde.

Pare che essere esperti non sia una condizione fondamentale per la scelta dei ministri e il governo Renzi non si allontana da questa linea.

All’ambiente infatti c’è Gian Luca Galletti, laureato in scienze economiche e commerciali, succede ad Andrea Orlando, a sua volta nominato ministro della Giustizia. Appartenente all’Udc, si è occupato di finanzia pubblica, ma mai di tematiche ambientali. Insomma c’era da assegnare un ministero al gruppo parlamentare di Casini ed è stato scelto quello meno conteso, in perfetto stile prima repubblica. E questo dà la cifra del richiamo per il nuovo premier dei temi ambientali.

I due ministeri sono stati assegnati a due personalità di centro-destra, in un governo che dovrebbe avere soprattutto un profilo di centro-sinistra (altro conflitto?) e rispondere a quella sfida di totale cambiamento di cui tanto parla l’ex sindaco di Firenze. Ma a prescindere dalla loro collocazione politica, che lascia il tempo che trova visti i recenti risultati bipartisan, molti ricordano che Renzi nei suoi famosi discorsi alla Leopolda dava spesso grande rilevanza ai temi ambientali, alle energie rinnovabili, si diceva contrario alle grandi opere inutili e alla cementificazione del territorio. Quando si parla di fatti! Queste sono scelte a prima vista in forte controtendenza, un puro compromesso per chi afferma di voler rivoluzionare il paese.

Aspettiamo ovviamente di essere smentiti, ma il rischio di ritrovarsi, al solito, con ministeri che si assumono il ruolo di meri fiancheggiatori dei grandi gruppi industriali ed energetici è evidente.

24 febbraio 2014

Governo Renzi. Pace, acqua, energia: fine della ricreazione!

di Mario Agostinelli

Il funambolico Matteo Renzi ci ha presentato la sua squadra con i fasti di un evento “son et lumières”: sorrisi ammalianti, nidiate tricolori, cascate di flash su griffes impeccabili. Ma il suo delfino Delrio si è dovuto subito dopo occupare delle biografie di ministri e ministre sicuramente non inappuntabili. Così sospette, da convincermi che il nuovo governo sia nei suoi punti chiave schierato manifestamente contro i 27 milioni di cittadini che hanno votato sì ai referendum del 2011 e risulti ostile a quei movimenti per la pace e la sostenibilità legittimati da una forte partecipazione dal basso. Partecipazione radicata, che una domenica di primarie con due milioni di consensi una tantum dovrebbe comunque rispettare, se non riconoscere come risorsa e valore.

Oltre alla riconferma di Lupi, pro-grandi opere e pro-Tav, le new entries Galletti e Guidi, che muoveranno le risorse economiche più importanti per la politica industriale, l’energia, l’ambiente, e il clima, si sono fin qui contraddistinte a favore della privatizzazione dell’acqua e del ritorno del nucleare e non danno segni di ripensamento. Pinotti, a sua volta, è ben nota nell’ambiente militare e industriale – in particolare in Finmeccanica e Fincantieri – per essere pro-industria bellica, in buona continuità con il suo predecessore Mauro. Ma andiamo con ordine.

Gianluca Galletti, neo ministro dell’Ambiente, è un commercialista che non ha mai masticato ambiente in vita sua. Proseguirà la tendenza della Prestigiacomo e di Clini in direzione di una industrializzazione dell’Ambiente: a favore delle energie fossili, per la privatizzazione dell’acqua, a sostegno della fusione finanziaria delle utility pubbliche rimaste. Mirabolanti le dichiarazioni rese sull’acqua pubblica: “I partiti che hanno sostenuto il referendum sull’acqua e le Regioni che hanno proposto ricorso alla Corte Costituzionale si devono ora assumere la responsabilità di aver causato un danno enorme al Paese nel suo momento più difficile.” E non sono da meno quelle sul nucleare, quando, candidato alle regionali dell’Emilia Romagna dichiarava: “Se mi dimostrano che in tutta Italia il sito più sicuro e più economico è in Emilia-Romagna io non avrei timore a mettere un reattore nucleare proprio qui.”

Federica Guidi, neo ministro per lo Sviluppo economico, già beccata per una cena ad Arcore da Berlusconi, per parlare anche di una sua possibile candidatura con Forza Italia alle prossime europee, è inconflitto di interessi con Enel, Poste, Ferrovie per l’azienda di famiglia da cui si è prontamente dimessa, la Ducati Energia. Dice del suo incarico Stefano Fassina, ex vice ministro dell’Economia: “Il potenziale conflitto di interessi è del tutto evidente. Ma oltre a questo mi preoccupa la visione del ministro sulla politica industriale, la sua idea di rilanciare il nucleare, la sua contrarietà al ruolo dello Stato nell’economia.”  Nota per aver sostenuto l’abolizione del contratto nazionale di lavoro da sostituire con accordi individuali, ha attaccato le municipalizzate ancora a prevalenza di capitale pubblico e sostenuto con decisione il passaggio in mano privata delle fasi più remunerative del ciclo integrato dell’acqua.

Roberta Pinotti, neo ministro alla Difesa, sostiene la funzione dell’organizzazione e dell’intervento militari per l’aiuto che forniscono in tutti gli eventi calamitosi. Contraria alla riconversione dell’industria bellica, arriva ad affermare: “Se si decidesse che non è ‘etico’ avere un’industria militare, dovremmo rinunciare a una quota dell’uno per cento del prodotto interno, che dà lavoro a 50mila addetti diretti e a 150mila nell’indotto. Auspico investimenti nella ricerca e nello sviluppo dell’alta tecnologia militare da riversare nei dispositivi civili”. Come insegna l’avventura F-35.

Accanto alla Mogherini, grande fautrice dell’integrazione fra Nato ed Unione Europea, darà filo da torcere ai sostenitori dell’inutilità dell’acquisto dei caccia F-35 ed Eurofighter.

Quando Delrio dice che “sui ministri tecnici non abbiamo chiesto a nessuno per chi votavano e non ci interessava saperlo, ma sapere cosa avrebbero fatto nel settore in cui si sarebbero impegnati”, tenta di glissare sul significato politico delle designazioni antireferendum e antidisarmo, che, in quanto a contenuti, parlano più chiaro degli opportunismi e della volatilità del voto.

La FILLEA-CGIL dice NO al CONSUMO di SUOLO

PER LA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL PAESAGGIO, UN FUTURO ALLE LAVORATRICI E AI LAVORATORI DELLE COSTRUZIONI: CONSUMO DI SUOLO ZERO

Al convegno organizzato a Roma dal WWF il 31 maggio e il 1° giugno u.s. si è molto dibattuto, con interventi di grande autorevolezza, su “riutilizziamo l’Italia”, “contenere il consumo di suolo” e “riqualificare il belpaese”.

Il 1° giugno u.s. “La Repubblica” ha pubblicato un articolo di Salvatore Settis dal titolo “La strana alleanza in salsa verde”. Nei giorni precedenti sono stati depositati da parte di diversi gruppi parlamentari disegni di legge che rientrano entro il perimetro del consumo di suolo e delle aree urbane e altri gruppi parlamentari hanno annunciato la presentazione di nuovi ddl.

Le istituzioni, i partiti e i loro gruppi parlamentari, l’associazionismo e il sindacalismo imprenditoriali e dei lavoratori dipendenti, specialmente delle costruzioni, devono, a nostro avviso, affrontare un dilemma: viene prima il territorio e dopo le aree urbane e gli appartamenti o prima vengono gli appartamenti, le aree urbane e, poi, il territorio?

Fare una scelta anziché un’altra non è indolore.

Da tantissimi anni gli italiani che “partecipano” alla filiera decisionale del costruire hanno scelto, con i risultati disastrosi che sono stati evidenziati per ultimo dalla totalità degli intervenuti al già richiamato convegno, di soddisfare la fame (o l’ingordigia) di case, di immobili singoli o condominiali, di capannoni. Il tutto con la partecipazione di chi il territorio lo deve governare nel rispetto della Costituzione e della legislazione, che certamente non prevede i colossali processi di cementificazione privata o pubblica di cui il BELPAESE è vittima.

Invece, nello stesso periodo, del territorio se ne sono occupati solamente qualche professore o qualche associazione sindacale o di cittadini.

Tra le ultima iniziative evidenziamo quella organizzata a Torino il 22 marzo u.s. dalla FILLEA CGIL dal titolo “Consumo di suolo ZERO” e l’assemblea organizzata il 4 maggio u.s. a Bologna dal Forum nazionale “Salviamo il Paesaggio”.

Nel corso di queste ennesime iniziative si è approfondito il tema, assumendo la convinzione che la drammaticità della situazione non ammette subordinate.

Il Consiglio Europeo sta già per varare una Direttiva Comunitaria che identifica bene la questione attraverso l’analisi del fenomeno, la definizione di contenuti chiari e univoci dei termini che si usano (cos’è suolo, impermeabilizzazione, cementificazione, etc…), la predisposizione di programmi precisi e vincolanti finalizzati a raggiungere l’obiettivo “ZERO consumo di suolo”.

Gli istituti più autorevoli ci dicono che si consumano in Italia giornalmente circa 100 ettari (moltiplicare per 10.000 per avere i mq) e non sarebbe difficile calcolare per quanto si moltiplica il valore in Euro di un mq di terreno non impermeabilizzato fino alla fase in cui un cittadino acquista l’appartamento o altro manufatto che impermeabilizza il suolo.

La FILLEA, a Torino, ha lanciato la proposta di ridurre entro il 2020 il consumo di suolo in Italia di almeno il 50%, e che da subito tutte le decisioni che fanno capo all’edificazione dipendente dalle pubbliche amministrazioni e collegate, a qualsiasi titolo destinati, o che fanno capo a risorse finanziarie date a privati per lo stesso scopo, siano edificati solo su terreno impermeabilizzato, possibilmente già di proprietà pubblica.

Il Forum Salviamo il Paesaggio, a Bologna, ha suggerito diverse azioni immediate, tra cui la considerazione dell’identità dei suoli liberi o fertili come assoluto Bene Comune e come Valore ecologico ed economico (turistico, culturale, agricolo, enogastronomico …) e il rapido inserimento nel calendario dei lavori parlamentari delle commissioni competenti del ddl “Salva suoli”, per il contenimento del consumo di suolo e la valorizzazione delle aree agricole.

A partire da “adesso” riteniamo che gli Enti Locali, in coerenza con l’obiettivo di ridurre il consumo di suolo, debbano rivalutare le scelte operate che comportano l’utilizzo del suolo non impermeabilizzato.

Convinti di essere all’interno dei solchi degli articoli 9, 41, 44 e 137 della Costituzione, ci sembra che le proposte di cui sopra possano essere assunte “velocemente e adesso” da tutti gli Enti Locali che hanno formale competenza sul “GOVERNO DEL TERRITORIO E DELLE AREE URBANE”.

Il pubblico può decidere sul pubblico, e può decidere se una superficie deve essere impermeabilizzata e no.

Sulla terra e sul suolo, a differenza dell’acqua e dell’aria, da secoli gli esseri umani vantano diritti di proprietà e di uso. Ma su di essi è la Costituzione, nei modi previsti, che esercita un diritto pubblico primario.

Pertanto prima si eserciti, finalmente, questo diritto primario e conseguentemente nello stesso provvedimento si affronti il tema della ristrutturazione, della riqualificazione e del riutilizzo delle aree urbane e non urbane. Il prima e il dopo non sono temporali, ma politici e di tutela degli interessi generali.

Chiudiamo il recinto prima che i buoi scappino definitivamente, intendendo per recinto il territorio e per buoi le aree urbane e gli edifici.

Continuano a essere tante le scelte di cementificare fatte per fini nobili, tra gli ultimi un terreno non impermeabilizzato confiscato alla mafia destinato al Comune di Palermo e ceduto alla Curia palermitana per costruire la chiesa a Padre Puglisi sul territorio in cui operava. Ma a Brancaccio non ci sono luoghi già impermeabilizzati dove edificare la chiesa? Sono rari i casi di amministrazioni che dicono “no” alla costruzione su terreno non impermeabilizzato come ha fatto nei mesi scorsi la provincia di Torino negando all’Ikea l’autorizzazione di costruire un centro commerciale su una superficie di 18 ettari.

Chi avrà voglia di approfondire, leggerà che il principale sindacato della filiera delle costruzioni e il Forum che comprende più di 900 organizzazioni e migliaia di cittadini non sono diventati degli “integralisti del territorio”. Più semplicemente una crisi che ha determinato 400 mila disoccupati su un milione di occupati non può essere affrontata con pannicelli caldi o con qualche nominale “eco” o “bio”, fermo restando che l’importante è continuare a costruire dappertutto.

Abbiamo sempre pensato che la fase di crescita o di arricchimento non corrisponde con quella di sviluppo del nostro paese e alle centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori che oggi piangono le conseguenze di questa crisi strutturale vogliamo dare una prospettiva non più basata su quanto Sciascia prima e Rosi dopo fin dagli anni ’60 hanno scritto e raccontato nel libro “Il giorno della civetta” e nel film “Mani sulla città”.

Il pubblico (eletti e funzionari) DEVE governare il territorio e non favorire gli interessi privati (palazzinari, cementificatori, tangentisti e mafiosi ).

I privati di cui sopra, come hanno dimostrato i grandi sequestri di mafia operati sul fronte degli impianti eolici, sono pronti a sfruttare qualsiasi tecnologia o tendenza ambientalista. Il pubblico, di cui sopra, affermi la determinazione di voler governare il paese sul solco di tutto ciò ha fatto diventare l’Italia il “BELPAESE”.

400 morti per il carbone di Vado

da corriere.it

La dichiarazione è choc: «Senza la centrale a carbone di Vado tanti decessi non ci sarebbero stati… 400 morti dal 2000 al 2007». Sorprende il numero delle vittime e sorprende che a parlare in questi termini sia il procuratore capo di Savona, Francantonio Granero, che si sta occupando direttamente delle due inchieste sulle emissioni della Tirreno Power di Vado Ligure, un impianto costruito nel 1970 e ancora in funzione.

«Quei morti sono da attribuire alle emissioni degli impianti». Non solo. Ci sarebbero stati anche «tra i 1.700 e i 200 ricoveri di adulti per malattie respiratorie e cardiovascolari e 450 bambini ricoverati per patologie respiratorie e attacchi d’asma, tra il 2005 e il 2012». I dati emergono da una consulenza disposta dalla procura nell’ambito delle indagini per disastro ambientale e omicidio colposo, due distinti fascicoli aperti sospettando che le polveri uscite dalle ciminiere di Vado siano la causa delle malattie fra gli abitanti della zona. Una conclusione alla quale i periti sono arrivati attraverso un’analisi sul tasso di mortalità in diverse aree vicine alla centrale (il perimetro riguarda quasi tutta Savona, Vado, Quliano e Bergeggi e in parte Albisola e Varazze), dove sarebbe stato accertato un sensibile incremento di decessi tra le zone di minima e massima ricaduta degli elementi inquinanti. Gli esperti hanno anche escluso che le patologie possano essere attribuite ad altri fattori: traffico automobilistico, altre aziende della zona o fumi delle navi in porto. Per il momento nel registro degli indagati sono stati iscritti tre nomi per il reato di disastro ambientale. Si tratta di tre dirigenti, fra cui l’ex direttore generale di Tirreno Power Giovanni Gosio, che ha lasciato la società qualche settimana fa, e il direttore dello stabilimento Pasquale D’Elia.

Tirreno Power, società controllata a metà dalla Suez Gaz de France e dalla Cir della famiglia De Benedetti (il 50% è detenuto dalla Energia Italia, a sua volta controllata per il 78% dalla Sorgenia del gruppo Cir), ha replicato alle parole del procuratore di Savona smentendo il nesso fra i decessi e i fumi della centrale: «Non si comprende quale sia stato il metodo di valutazione di esposizione agli inquinanti. Tale mancanza di chiarezza è accompagnata dall’assenza della doverosa analisi di robustezza, di sensitività e quindi di affidabilità globale del metodo adottato. Anche per questo motivo non si può affermare in concreto alcun nesso di causalità».

Va detto che il documento è comunque ancora coperto dal segreto istruttorio e che nessuno ha potuto visionarlo. «Un atto comunque di parte e mai sottoposto a contraddittorio», ha precisato la società che invita ad «una maggiore prudenza considerando la forte rilevanza anche emotiva che i temi trattati rivestono e che dovrebbero essere tuttavia sempre suffragati da fatti comprovati anziché da ipotesi di parte le cui fondamenta sono tutte da verificare».
Alla grana giudiziaria di Tirreno Power si stanno sommando i problemi finanziari di Sorgenia che lunedì aveva comunicato di avere un’autonomia di un mese. Anche per questa ragione ieri a Piazza Affari il titolo Cir ha subito una flessione di oltre il 3%.