Clima, la guerra in Ucraina chiede cambiamenti più urgenti. Altro che riarmo e ancora fossili!

L’attenzione ossessiva alla pandemia è stata soppiantata da una cronaca atroce, istante per istante, dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe. Da tempo le notizie si cancellano l’un l’altra. Si seguono i fatti, non si indicano i processi. L’impressione è che non sappiamo più trovare il filo delle emergenze, le loro connessioni, le possibili riparazioni che possono avere solo dimensione universale e trovare una armonia tra presenza umana e ospitalità della Terra.

Mentre l’opinione pubblica è con insistenza trascinata a vivere come sequenze temporali separate eventi che incombono senza sosta e sempre più bruschi, la società e le sue rappresentanze smarriscono il filo di un terribile pericolo: la sopravvivenza e la perdita di incivilimento che riguarda l’umano. Francesco sei anni fa aveva afferrato il cambio d’era e l’aveva descritto come un prodotto fisico, spirituale, sociale dei nostri comportamenti: irreparabile senza una svolta ed un ripensamento sull’intero fronte delle interconnessioni da cui provengono il cambio climatico, il pericolo nucleare, la diffusione della disuguaglianza sociale.

Oggi, la guerra atroce nel cuore dell’Europa evidenzia drammaticamente sofferenze e nuove povertà e intanto dilaziona le misure per frenare l’aumento della temperatura globale e sovvertire il sistema energetico, riconsegnato di colpo ai fossili in una morsa perversa tra carbone, gas, armamenti e andamento del Pil. L’errore può dimostrarsi fatale e non dobbiamo prestare il fianco. Non siamo solo esposti alle difficoltà di approvvigionamento del gas e alla penuria di combustibili di cui improvvisamente cesserà la fornitura. Siamo invece assai prossimi ad un passaggio storico cui stiamo arrivando impreparati e ad una velocità imprevista dai governanti del Pianeta.

Anche il nostro Governo, purtroppo, non coglie l’eccezionalità del momento: mentre da una parte annuncia il riarmo, dall’altra guarda all’indietro e, anziché accelerare il passaggio alle rinnovabili e ad un modello decentrato di produzione e consumo, va alla ricerca di nuovi fornitori da sostenere con ingenti investimenti infrastrutturali, che certamente non ci consentiranno la conclamata fuoriuscita dal fossile. Nei paesi importatori, in un clima di pace costituzionalmente precaria, crescerà ancora la incertezza del lavoro e la disoccupazione, assieme ad una ingiustizia sociale insanabile. Al contrario, la svolta verso la transizione ecologica dell’economia intraprenderebbe quel percorso di cura e di riequilibrio con la natura che l’Ue aveva individuato come propria missione riparatrice dopo secoli di industrializzazione e colonizzazione.

E’ grave che il governo Draghi riporti in secondo piano la questione climatica, al centro fino a pochi mesi fa di importanti incontri internazionali, e non ristrutturi dalle fondamenta la cabina di regia del Pnrr, ora che i rubinetti di approvvigionamento dei fossili vanno ad esaurimento con le sanzioni alla Russia. L’Osservatorio per la riconversione ecologica-Pnrr ha avanzato la richiesta di promuovere in tempi brevissimi una Conferenza nazionale sull’energia in cui fare il punto sulla situazione, ascoltando le proposte avanzate dai soggetti istituzionali e sociali. Queste proposte potrebbero diventare parte di un impegno comune ed eccezionale delle aziende a partecipazione statale, assieme alle forze sociali (imprese e sindacati), alle associazioni ambientaliste, alle comunità energetiche e a quanti hanno competenze in materia.

L’insano blocco delle energie rinnovabili ai livelli di dieci anni fa rende obbligatorio il protrarsi di combustioni altamente climalteranti, mentre restano inevase preziose candidature dei privati a investire risorse nel settore eolico off-shore, in quello terrestre e nel fotovoltaico. La stessa sostituzione del turbogas con le rinnovabili a Civitavecchia rimane avvolta da un silenzio inquietante.

C’è poi una narrazione che è ripresa e che vuole convincerci che il nucleare è la soluzione dei problemi energetici. L’orrore della guerra in corso richiama in modo angosciante l’illusione di avere a disposizione energia densa e concentrata non solo a fini irreparabilmente distruttivi (le bombe), bensì governata con tecnologie che offrano autonomia energetica in un quadro geopolitico dato in grande mutamento (i reattori nucleari). Siamo da mesi inondati da notizie mirabolanti e rassicuranti sull’impossibilità di avere un sistema energetico funzionale privo dell’apporto della fusione di atomi leggeri o della fissione di elementi a elevato peso atomico che assicurino la crescita, mentre la crisi climatica, esacerbata dalla guerra, toglie tempo alle illusioni più irresponsabili.

In una prospettiva di rapida indipendenza dal gas russo e, più in generale, da idrocarburi e fonti fossili, occorrono proposte precise come la riscrittura del Piano integrato energia clima (Pniec), per fissare al 2030 per le fonti rinnovabili l’obiettivo di 90 nuovi GW – ad un ritmo di 8/9 GW all’anno nel prossimo quadriennio – e per indirizzare Amministrazione pubblica, Enti e Istituzioni preposte, insieme a tutte le imprese, verso un percorso rapido di massima elettrificazione nei diversi impieghi – industria, trasporti, usi domestici – con energia elettrica fornita sempre più da energie rinnovabili (Fer).

In definitiva, le conseguenze della guerra debbono spingere ad adottare provvedimenti ancora più urgenti per le realizzazioni energetiche fondamentali per il Paese e per la lotta al cambiamento climatico, con il massimo coinvolgimento dei cittadini.

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L’idroelettrico avvantaggia solo le aziende, ma sfrutta l’ambiente e le popolazioni montane

di Ezio Roppolo e Mario Agostinelli

Nello scenario energetico italiano e internazionale alcuni aspetti della nostra realtà economica e politica trascurano o sottovalutano la “questione dell’idroelettrico” e, nel caso nazionale, la condizione svantaggiosa cui sono sotto sottoposte le popolazioni montane che ne usufruiscono. La produzione annua italiana di elettricità in Italia è di circa 280-300 TWh. La produzione elettrica dall’acqua che scende giù dai monti è quindi circa il 17%, cioè 45-50 TWh: un business vicino ai dieci miliardi di euro all’anno di fatturato, poco più di mezzo punto percentuale del nostro Pil. Questi terawattora sono quasi esclusivamente prodotti nei bacini delle nostre montagne e coprono 10,6 milioni di ettari, il 35% della superficie italiana.

Attualmente, i loro territori sono poco densamente popolati – circa 40 abitanti per chilometro quadro – prendendo come riferimento i dati della Valle d’Aosta e della provincia di Sondrio, i cui fondovalle sono peraltro molto più affollati. Se anche ipotizziamo che tutti costoro consumino in media come gli abitanti delle colline e delle pianure, anche se in pianura è insediato il maggior numero di industrie e tra loro le più “energivore”, possiamo facilmente comprendere che i territori montani meno popolati trattengano per il proprio uso solo una scarsa metà della produzione, 20-25 TWh, mentre la rimanenza viene utilizzata dal resto dell’Italia. L’energia idroelettrica prodotta tra i monti la consumiamo probabilmente entro un massimo di 50 km, quindi è quasi a chilometro zero, cioè con costi di trasporto molto più bassi di quella che si manda a Roma o a Milano. Possiamo inoltre aggiungere che anche gli “oneri di sistema” causati dalle funzioni di regolazione della rete non dovrebbero riguardare gli abitanti montani, dato che l’idroelettrico è molto “programmabile” e, semmai, contribuisce positivamente alla regolazione della rete.

Ora facciamo un po’ di conti in tasca per vedere dove vanno i denari delle bollette nel caso dell’idroelettrico, sia quelli “normali” che quelli “super” dovuti all’esplosione dei prezzi energetici degli ultimi mesi. Al fisco vanno direttamente 2,6 centesimi: il 13% di quei 20 centesimi di euro al KWh dovuto costantemente a impianti ad alimentazione prettamente naturale. Il ciclo dell’acqua anche in questo caso si rivela virtuoso, ma oneroso per chi convive con esso. Esiste poi un costo di distribuzione dell’energia che viene portata nelle fabbriche, negli uffici e nelle case di tutti a qualunque distanza arrivi la rete elettrica. Chi vive in montagna paga questo costo, comunque, al monopolio di Terna, posseduta indirettamente dallo Stato, che si prende il 17% per il trasporto e l’11% per gli oneri di sistema, cioè 5,6 centesimi di euro per ogni KWh consumato, anche se sta a “chilometro zero” dalla sorgente elettrica.

È evidente che “trasporto” e “sistema” dovrebbero costare molto meno ai montanari: l’energia è prodotta in loco e l’idroelettrico è molto programmabile, quindi non incide sulla gestione della rete: anzi, semmai la “aiuta”. Di conseguenza, per i territori interessati sarebbe probabilmente equo almeno dimezzare tale costo. Inoltre, il costo complessivo di tali oneri non dipende dal prezzo della fonte, quindi non dovrebbe variare se questo cambia con le dinamiche di mercato.

Valutiamo ora il costo effettivo della produzione. Il dato rilevato porta a una media di circa 5 centesimi di €/KWh (citiamo la fonte perché internazionale e autorevolissima). Tra imposte e tasse sui profitti, il fisco assorbe circa il 30% del totale (2,6+3,4 centesimi di euro) e Terna, proprietà indirettamente dello Stato e gestore della rete, un altro 28% (5,6 euro). Tolto il costo effettivo della produzione, ai concessionari/produttori rimane un utile del 40% [3,4/(5+3,4)]: un risultato veramente fantastico, per giunta con un rischio bassissimo, intrinseco nel business che è anche tecnologicamente molto maturo.

Il prezzo a 40 centesimi è quindi un inappropriato raddoppio rispetto alla “normalità” appena esaminata. Questa situazione verrebbe considerata un raro caso di “fallimento di mercato”; infatti, “lato domanda”, i consumatori sono obbligati a un consistente e indebito pagamento collettivo, mentre l’offerta ottiene un guadagno totalmente immeritato, perché ottenuto senza cambiamento o distinzione della capacità competitiva.

L’aspetto più tragicamente grottesco della questione dobbiamo però ancora descriverlo e riguarda l’incertezza che ha fermato le manutenzioni in tanti casi da oltre mezzo secolo. Per i bacini come per le autostrade! Quando, durante una camminata sui sentieri, osservate il centro dei laghetti sbarrati da dighe ripieni di residui, di alberi e rami, dovete pensare che per almeno 50 anni non si sono effettuati i dragaggi previsti dalle concessioni. Molte dighe con la siccità attuale a volte non contengono quasi più acqua: quindi tra poco diverranno “improduttive”, ma già ora non sono più in grado di svolgere funzioni di regolazione del flusso, utile per l’agricoltura o per la prevenzione di inondazioni. Situazioni analoghe se ne trovano molte, troppe, sopra la suola dello Stivale.

Ai territori montani rimangono il peso dei danni ambientali e gli svantaggi socioeconomici che hanno progressivamente spopolato le nostre valli, mentre ad altri vanno i benefici della disponibilità di energia elettrica. Su tutti grava lo stesso peso fiscale, pur beneficiando degli stessi servizi pagati con le tasse. I benefici economici della produzione di tutta la produzione idroelettrica vanno invece agli operatori, in grandissima maggioranza aziende di proprietà privata: sono pochi i casi di nostra conoscenza in cui la proprietà è prevalentemente o totalmente in mano a enti pubblici locali (anche se le municipalizzate si comportano come fossero ancora enti pubblici!).

Il governo attuale e gli operatori stanno armeggiando per rendere eterna questa situazione, sia attraverso il ddl Concorrenza sia rinviando a tempo indefinito la scadenza delle concessioni. Mantenere lo status quo aumenterà la protervia degli operatori nei confronti dei territori, delle amministrazioni locali, persino dei sindacati. Già ora questi soggetti si trovano a fronteggiare strapagati prìncipi del foro ogni rara volta che tentano di “alzare la cresta” e richiedere qualche minuscolo vantaggio per i propri abitanti. Dunque anche la meravigliosa capacità di trarre dall’acqua l’energia più pregiata che conosciamo senza nemmeno produrre emissioni nocive si è trasformata in un mezzo di sfruttamento indiscriminato dell’ambiente e della popolazione.

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Energia: senza una svolta su rinnovabili ed elettrificazione, l’inverno 2022-’23 sarà fatale

Scorrono le immagini terrificanti dei bombardamenti delle colonne di profughi in fuga dall’Ucraina, dei morti gettati nelle fosse comuni. Sale il disprezzo per Putin, per le sue strategie di sterminio, in un isolamento internazionale di dimensioni storiche. Ma la democrazia non sta nemmeno dalla parte di Zelensky, che richiama alle armi a tutti i costi. Già, la democrazia e la pace come diritto imprescindibile senza il quale nessun altro esiste. Ma siamo ad un cambio di civiltà di cui non ci rendiamo abbastanza conto e contro cui facciamo ancora poco, attenendoci agli schemi del secolo da cui veniamo.

Io qui di seguito mi limito a riflettere su quali misure l’Europa stia adottando per colpire l’invasore russo, ovvero sugli scenari tutt’altro che trascurabili nel caso vengano tagliate – in mancanza di un cessate il fuoco – le forniture russe di gas all’Europa per un tempo assai lungo.

Innanzitutto, va rimarcato come lo scenario di guerra in corso comporti di per sé una estrema concentrazione di climalteranti spaventoso su un territorio conteso, dispersi solo per distruggere e uccidere. La crisi climatica subirà ulteriore accelerazione e le misure di diversificazione anziché sostituzione del metano così come vengono ipotizzate dai nostri governanti, renderanno ancora più inavvicinabile la soglia di 1,5°C.

Gli Stati Uniti hanno chiesto agli alleati europei di vietare le importazioni di petrolio russo e di sospendere la certificazione del gasdotto Nord Stream, con il prezzo del greggio – e a rincorsa del gas – che sta salendo a più di 300 dollari al barile.

La società di ricerche britannica Aurora Energy Research (v. “Can Europe cope without Russian gas?”) ha pubblicato un rapporto, che analizza l’impatto di una serie di possibili scenari sul mercato europeo del gas in base al prolungamento della sospensione del gasdotto Nord Stream 2; alla possibile interruzione dei flussi dalla Russia attraverso l’Ucraina; al caso estremo di totale cessazione dei rifornimenti di gas dalla Russia.

La sospensione a tempo indefinito del NS2 si tradurrà in maggiori costi piuttosto che problemi in termini di sicurezza degli approvvigionamenti: ciò implicherebbe l’importazione di 100 miliardi di m3 di gas naturale liquido (GNL) per via nave, soprattutto dagli Stati Uniti, mentre l’interruzione dei flussi attraverso l’Ucraina, comporterebbe una enorme importazione di gas liquido naturale, con un’aggiunta di 128 miliardi di metri cubi nel 2024, oltre ai flussi maggiorati attraverso i gasdotti nordafricani, che dovrebbero aumentare a oltre 50 miliardi di metri cubi. Ovviamente, una maggiore domanda di GNL di tale entità in Europa farebbe salire i prezzi del gas sia nel vecchio continente che nel resto del mondo, al punto che perfino gli Usa stanno contattando, a sorpresa, il Venezuela di Maduro per avere un calmieramento dei prezzi anche sul loro mercato.

L’aumento della dipendenza dal GNL e dai gasdotti nordafricani metterebbe una significativa pressione al rialzo sui prezzi del gas in Europa, che potrebbe essere combattuta e attenuata solo attraverso interventi urgenti di diversificazione delle fonti – rinnovabili ovviamente – e misure di riduzione della domanda. Per l’Europa – e l’Italia in particolare – l’inverno 2022-23 potrebbe essere fatale, se non si immettesse una potenza straordinaria di fonti naturali e decentrate con un passaggio straordinario all’elettrificazione, a sistemi di accumulo e a forte decentramento, sulla base della diffusione di comunità energetiche

L’Agenzia internazionale dell’energia (https://www.iea.org/ ) ha dato indicazioni per tagliare di oltre un terzo le importazioni europee di gas dalla Russia entro un anno. Domina in questo approccio il capovolgimento dell’attuale sistema energetico, con la sostituzione urgente dei fossili con le rinnovabili in una prospettiva ineliminabile, mentre l’impiego del carbone viene visto con molta cautela. Il centro studi italiano italiano ECCO (https://economiecircolari.eu/il-progetto), da parte sua, ha indicato che puntando su efficienza energetica, riduzione dei consumi e fonti rinnovabili, in Italia si potrebbe fare a meno del 50% circa delle importazioni attuali di gas dalla Russia, e nel giro di un solo anno.

E’ evidente come in questi differenti approcci entrino in campo formidabili interessi e la possa fare da padrone ancora una volta il settore oil&gas e le grandi corporation occidentali, che quindi riservano alla guerra in corso uno sguardo tutt’altro che disinteressato. Penso a come il successo ottenuto da cittadini, lavoratori associazioni e istituzioni di Civitavecchia risulti esemplare, e proprio per questa sua concreta ragionevolezza, incontri ancor più ostacoli e ritardi sospetti nei tempi di definitiva approvazione.

Intanto, la Commissione europea ha presentato la sua proposta di percorso per porre fine alla dipendenza dal gas russo, con l’obbiettivo di tagliare di quasi l’80% del fabbisogno delle importazioni europee quest’anno. Il piano, dovrebbe proporre passi come lo sfruttamento di nuove forniture di gas e l’aumento dell’efficienza energetica già quest’anno, con eventuali emissioni di eurobond e punterebbe a raggiungere l‘indipendenza dal principale fornitore di combustibile fossile ben prima del 2030, molto in anticipo rispetto alle precedenti proiezioni.

Bisognerà vedere, eventualmente, se un piano apparentemente così intensivo otterrà il sostegno degli Stati membri, molti dei quali erano già a disagio con l’investimento richiesto dai precedenti piani di transizione energetica della Commissione e sono ora alle prese con l’impatto politico dell’aumento dei costi energetici.

C’è da contare che non si arrivi alla cessazione totale delle forniture russe e che l’Europa riesca ad emanciparsi dalla Russia in tempi più rapidi del previsto.

Del resto, sono previsti anche un aumento dei volumi di produzione e importazioni di biometano e idrogeno rinnovabile e misure per l’efficienza energetica – compreso l’abbassamento di un grado delle temperature impostate sui termostati. Preoccupa quanto la guerra Russia-Ucraina, incida sulla metalmeccanica italiana stretta tra carenza di materie prime, rincari dell’energia e blocco delle esportazioni.

Pe la Commissione europea (V. All.: SEAE (2021) 1169), gli Stati membri potranno inoltre tassare in via temporanea e non retroattiva i profitti straordinari che i produttori di energia elettrica hanno realizzato grazie ai prezzi molto alti di questi mesi, redistribuendo i proventi in maniera “non selettiva” ai consumatori finali. L’obiettivo del piano – essenzialmente un’accelerazione sui target del pacchetto Fit for 55 – è ridurre di due terzi entro un anno l’attuale import dalla Russia, pari a 155 miliardi di metri cubi nel 2021.

Ogni Paese dovrebbe poi identificare i progetti per accelerare transizione energetica e la definizione di nuovi impianti per le energie rinnovabili “di preminente interesse pubblico”, velocizzare i permessi e iniziative per le installazioni di pannelli fotovoltaici sui tetti e sviluppare la filiera delle pompe di calore, oltre a velocizzare le procedure autorizzative per i progetti relativi all’energia eolica onshore e offshore e per l’energia solare, come una questione di interesse pubblico prevalente. Purtroppo nel documento si afferma che sul nucleare invece “gli Stati membri sono liberi nelle scelte che fanno, in questa situazione non ci dovrebbero essere tabù”.

Ancora una volta l’Europa, come sulla guerra, vive di compromessi e di luce riflessa. Nella comunicazione, mancano due convitati di pietra: il nucleare e il carbone. Il primo è citato brevemente, il secondo solo quando si parla di chi rifornisce le centrali a carbone che alcuni Paesi, come l’Italia, vogliono rilanciare: sembra un paradosso, ma la la Russia, “bastonata sul gas” rappresenta il principale fornitore, con oltre il 46% del carbone acquistato dagli Stati Ue, davanti a Usa e Australia.

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Ucraina, gli Usa hanno un enorme interesse a impedire la dipendenza europea dal gas russo

L’escalation bellica in Ucraina ha subito una accelerazione drammatica dopo la decisione di Putin, condannata senza riserve, che rischia di marcare un’irreversibilità nella prospettiva di un’Europa di pace, soffocata da blocchi contrapposti. L’autocrate di Mosca brandisce addirittura l’arma nucleare e il gesto inconcepibile richiama l’esposizione alle minacce incombenti sull’umanità ricordate da Francesco: la guerra annientatrice, il clima ostile alla sopravvivenza, l’ingiustizia sociale che corrompe le esistenze.

Questa nota uscirà quando già avremo condiviso manifestazioni e azioni spero di riconciliazione e di deterrenza, come il digiuno del 2 marzo, ed è per questo che si rivolge oltre alla drammaticità del tempo immediatamente contingente, seppure tanto tragico. Non possiamo dimenticare che la sindemia aggredisce tuttora gran parte del pianeta e che la estrema siccità, come quelle dei campi da semina in Europa o lo scioglimento accelerato del permafrost in Siberia, vengono rimosse sotto la minaccia dello spettro del nucleare militare e civile lambito dai combattimenti.

Gli sprovveduti, che a volte fanno persino opinione, dicono che le guerre non hanno mai risolto nulla, come se non cambiassero mai nulla, e quindi non avessero un senso perverso ad essere combattute. Non è certo così per la guerra ucraina. L’errore strategico di Putin, oltre all’insana ferocia del ricorso all’invasione, è essere ripartito dagli abbagli dell’impero zarista, anziché collocare la contesa che è in corso nel cuore dell’avanzamento americano e dell’occidente verso l’oriente (in una espansione monodirezionale, se si guarda un atlante), ininterrotto ormai da oltre cinquant’anni. Una volta che l’Urss si è disintegrata, la Russia ha sciolto il Patto di Varsavia, ha stabilito un regime politico sull’onda delle democrazie europee, ha restaurato un capitalismo oligarchico perfino con elementi mafiosi, ha aperto la sua economia al capitale straniero e ha addirittura giocato con l’idea di entrare nella Nato.

L’operazione militare lanciata in extremis contro l’Ucraina è la conseguenza di una situazione politica non imparziale, ovvero il punto finale di fronte a quella che Boaventura de Sousa Santos ha definito “l’assoluta inettitudine dei leader occidentali nel rendersi conto che non c’è e non ci sarà sicurezza in Europa se non è garantita anche per la Russia”. Non bisogna dimenticare che la forza militare attiva dal 1991 sono gli Stati Uniti. La politica statunitense dell’amministrazione Clinton di condurre una nuova espansione militare attraverso la Nato ha pagato un dividendo di 30 anni sotto forma di spostamento della politica estera dell’Europa occidentale e di altri alleati americani, facendo della Nato l’organismo europeo di politica estera e il procacciatore di “occupazione” di territori carichi di risorse economicamente strategiche per la crescita e la rivoluzione tecnologica.

Se si considera la politica economica ed estera degli Stati Uniti in termini di complesso militare-industriale, complesso petrolifero e del gas (e minerario) – tutti interessi a rendita monopolista – l’interesse a un crollo della Russia è tangibile, sia per le vendite di armi alla Nato che per l’esportazione petrolifera e gasiera in forte concorrenza, implementata con l’escavazione di fossili dalle rocce di scisto (“shale”) del Nord America. Lo si è visto dall’impennata dei loro titoli appena avviata la guerra in Europa. Per l’Ucraina, invece, l’impoverimento è sconvolgente; per la Germania il colpo è durissimo: aumento al 2% di Pil per le armi e acquisto a prezzi doppi di gas da “shale” dagli Usa.

Non c’è solo quindi l’oscenità della guerra: avendo la Germania rifiutato di autorizzare il Nord Stream 2 ad entrare ufficialmente in funzione diventa conseguente monopolizzare il mercato delle spedizioni statunitensi di gas naturale liquefatto (Gnl) e l’aumento dei prezzi dell’energia: il che sottrarrà gran parte del vigore all’economia tedesca. Dobbiamo riconoscere ora che il monopolio del mercato petrolifero dell’area del dollaro e l’isolamento dal petrolio e dal gas russi, assieme a un accesso facilitato alle immense risorse di terre rare dell’area asiatica, è una delle principali priorità degli Stati Uniti da qualche anno. E risulta allora più chiara la ragione di un allarme insistito nei confronti del “nemico” russo, che sembrava un’assurdità, tenuto conto della competizione in atto con la Cina.

Noi – l’Italia – andiamo a ruota del declino tedesco, ma senza titubanze, sotto la guida atlantista di Draghi, che non è né Prodi, né Andreotti, né Merkel. L’obiettivo politico accessorio – ma purtroppo decisivo in questo contesto – è ignorare e rifiutare le spinte ambientaliste a sostituire petrolio, gas e carbone con fonti di energia alternative. Perciò Cingolani la tira per le lunghe e il governo sostiene l’espansione delle perforazioni in/offshore e pensa alla diffusione di gassificatori nei porti, oltre alla metanizzazione della Sardegna e al riavvio del carbone. C’è, insomma, un enorme interesse degli Stati Uniti a impedire una qualche dipendenza dell’Europa-Nato dalla Russia e, in particolare, dai suoi gasdotti.

È quindi il capitalismo finanziario postindustriale di oggi che spinge la Nato al riarmo. Il fascino dell’alleanza militare influisce perfino sulla trasformazione dei servizi di pubblica utilità in monopoli in cerca di rendita per fornire servizi di base a prezzi massimi (assistenza sanitaria, istruzione, trasporti, comunicazioni e tecnologia dell’informazione, acqua), invece che a prezzi agevolati per gli elettori. Le nostre aziende energetiche – fuorché Enel – con le municipalizzate in testa, non si ritraggono certo dal gas e dal carbone che viene loro suggerito. In questo senso è straordinaria la vittoria dal basso ottenuta a Civitavecchia con la sostituzione del turbogas con eolico galleggiante (naturalmente ritardato nei meandri dei corridoi ministeriali).

Tra le conseguenze del conflitto russo-ucraino, aumenteranno anche i prezzi dei generi alimentari, guidati dal grano (la Russia e l’Ucraina rappresentano il 25% delle esportazioni mondiali di grano). Ciò comprimerà molti paesi con deficit alimentare vicino all’est e al sud del mondo, peggiorando la loro bilancia dei pagamenti e minacciando l’insolvenza del debito estero. Se, tuttavia, la Cina decidesse di considerarsi la prossima nazione minacciata e si unisse alla Russia in una protesta comune contro la guerra commerciale e finanziaria degli Stati Uniti, le economie occidentali subirebbero un grave shock.

Oltre il blocco dell’invasione dell’Ucraina e il ristabilimento di una pace durevole, a mio parere l’obiettivo è superare la Nato e quindi promuovere le politiche di disarmo e denuclearizzazione generali per cui la Russia aveva spinto a suo tempo, con Gorbaciov. Questo non solo ridurrà gli acquisti esteri di armi statunitensi, ma potrebbe finire per portare a sanzioni contro il futuro avventurismo militare statunitense, che con troppa accondiscendenza è lasciato fuori dai nostri canali mainstream. I leader europei chiederanno allora perché i loro paesi dovrebbero pagare per le armi statunitensi che li mettono solo in pericolo; pagare di più per il Gnl e l’energia degli Stati Uniti; pagare di più per il grano e le materie prime prodotte dalla Russia: il tutto mentre si perde la possibilità di realizzare vendite all’esportazione e profitti su investimenti non militari in Russia – e, forse, perdere anche la Cina.

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Contro gas e nucleare faremo una mobilitazione nazionale. L’alternativa ai fossili c’è

C’è da chiedersi perché, fin dall’inizio, Roberto Cingolani abbia proposto come cardini di riferimento della transizione energetica due fonti non rinnovabili: gas e nucleare. Le uniche fonti, a ben vedere, non ancora poste in “phase out”, ma tuttora resistenti ad ogni principio di precauzione, in attesa di un “cambiamento di tecnologia” che le riporti in un ambito di “sostenibilità”. Cosa impossibile in rapporto ai tempi di una crisi climatica in brusca accelerazione.

In fondo c’è piena assonanza tra l’insistenza del ministro ed il risultato che le lobby energetiche hanno per ora spuntato sulla tassonomia europea: una coincidenza che rivela il segno di una cultura tecnocratica ancora prevalente nell’economia di mercato, in cui la rigenerazione della natura e il cambiamento irreversibile del clima non trovano ancora il posto dovuto. In fondo, è assai significativo come venga contrapposta la progettazione di complessi manufatti (si pensi ai reattori atomici di qualsiasi generazione o agli impianti di sequestro della CO2 o, anche, semplicemente, agli enormi consumi di acqua, elemento vitale per eccellenza, per immettere vapore nelle turbine alimentate da combustione) alla convivenza con le forze e le fonti naturali, che governano l’equilibrio del nostro pianeta e che non vanno ad esaurimento accumulando scorie ed effetti disastrosi.

Chiedersi perché non ci sia uno sforzo prodigioso verso le rinnovabili da parte di un’industria manifatturiera tuttora capace di mobilitarsi eccezionalmente soltanto per le forniture di armi per le guerre che insanguinano il pianeta, corrisponde a capire la nuova forma sotto cui si presenta il negazionismo climatico.

Direi che siamo alla terza fase: dapprima si negava l’evidenza; poi, l’affidabilità delle conferme e degli studi scientifici internazionali – come quelli dell’IPCC – ha suggerito di abbandonare al loro destino i più poveri e indifesi, contando sull’esenzione delle nazioni con maggiori risorse tecnologiche e organizzative dai danni più irreparabili; ora, pur di non abbandonare un concetto consunto e in contrasto anche con la giustizia sociale come quello della crescita, si punta alle riserve finanziarie pubbliche e alla garanzia di profitto per quelle private, pur di salvare il tenore di vita di una frazione “recintata” della popolazione umana. Quella che può meglio adattarsi ad un accrescimento inarrestabile della temperatura – ovvero dell’energia interna – del pianeta. In attesa dello sviluppo alienante di un’ingegneria climatica che ripari i guasti, simulando gemelli digitali e virtuali della Terra, della sua atmosfera, del suo rapporto con l’Universo a cui rimane, al di là delle pretese umane, interconnessa e, proprio per questo, adatta alla vita. E tutto per il rigetto di un approccio interdisciplinare e risolutivo come quello dell’ecologia integrale, che richiede democrazia prima che tecnocrazia.

Dobbiamo preoccuparci se non si ascolta il “gemito della Terra”. Nemmeno nell’agenda politica esposta da Mattarella, si è parlato di clima, mentre negli stessi giorni il Ministero del Tesoro italiano (non della Transizione energetica!), inviava una nota alla Commissione Ue per chiedere criteri addirittura più permissivi sulle emissioni di metano nella “tassonomia verde” in esame a Bruxelles.

Sono già state raccolte oltre 161.000 firme contro gas e nucleare considerate fonti “rinnovabili” nel primo passaggio del percorso europeo sul finanziamento pubblico delle fonti energetiche, mentre si continua a restare all’oscuro di come venga cambiato il PNIEC per rimanere almeno entro i dettami fissati dal Next Generation UE.

In sostanza è come se ci preparassimo a due sfide di un unico “campionato”: 1) raggiungere in Italia almeno il 55% di riduzione di climalteranti entro il 2030, ma partendo decisamente da subito; 2) ottenere che la maggioranza degli eurodeputati respinga la qualifica “verde” ai nuovi impianti di metano e al nucleare. Apriamo una partita ragionando e progettando come se si fosse in phase out da tutti i fossili e dall’atomo, perché la soluzione c’è: nelle rinnovabili, in buona occupazione, nelle comunità energetiche, nell’elettrificazione, nel cambio dei modelli di produzione e consumo e in una predisposizione alla cura dell’intero mondo del lavoro, dello studio, della ricerca. Una prospettiva di futuro che ci potrebbe essere negata.

I conflitti territoriali già in corso, pur soffocati dal silenzio dei media, possono e devono necessariamente riferirsi al quadro globale del “campionato” – così definito per voluta allusione ad inizio paragrafo – per portare avanti, su basi di “partite” fatte di concretezza, obiettivi di validità generale. Le mobilitazioni locali, l’informazione, le proposte alternative necessarie, l’impegno del mondo studentesco e di quello del lavoro devono inevitabilmente intervenire sulla riscrittura del PNIEC e sull’impostazione della tassonomia europea.

Molte associazioni si stanno preparando ad una mobilitazione su gas e nucleare per sabato 12 febbraio. Intanto, cinque ex primi ministri del Giappone si sono pronunciati contro l’atomo ed è stato annunciato da FFF lo sciopero mondiale degli studenti. Purtroppo piovono anche notizie tutt’altro che rassicuranti: Sogin rimanda ad un futuro indefinito la scelta del sito nazionale per le scorie radioattive, mentre i programmi scolastici che si dovrebbero inserire in una riforma epocale dell’organizzazione degli studi (licei quadriennali a vocazione ecologica e digitale) vengono affidati, con il compiacimento del Ministero per l’Educazione, ad Elis un consorzio privato di 100 grandi imprese.

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