Per il futuro: rinnovabili a buon mercato o petrolio drogato?

di Mario Agostinelli

Siamo costantemente messi di fronte all’esaurimento delle fonti fossili e al drammatico deterioramento del clima e dell’ambiente. Ma l’una e l’altro sono sovrastati da un chiassoso dibattito sul “benefico” crollo del prezzo del petrolio (ma i mercati scommettono che quel prezzo tornerà a 90 $ al barile entro un paio di anni…) e sull’acclamata opportunità di una estrazione di gas e olio con percorsi che si rivelano pazzeschi (permafrost, Artico, sabbie bituminose, fracking di scisti), sia dal lato del bilancio energetico sia da quello del danno ambientale. Una leadership mondiale che non sa come uscire dalla crisi da lei stessa prodotta e che fissa “road map” di rientro dal debito finanziario ad ogni incontro dei big (quanti sono e quanta CO2 per questi inutili e incessanti meeting?), mette in conto perfino la guerra perché non vuole uscire dal vincolo di un sistema energetico centralizzato e non si preoccupa del debito contratto verso la natura. Banalmente spera che tutto si appiani con uno sconto provvisorio sul barile.

La vita moderna si basa sull’uso onnipresente di combustibili fossili, tutti con rilevanti svantaggi non solo per gli effetti climatici. Il carbone, il più economico e più abbondante, è stata ed è la fonte più sporca, che contribuisce massicciamente all’inquinamento, non solo termico. Le forniture di petrolio sono vulnerabili agli shock geopolitici e a collusioni sui prezzi da parte dei produttori. Il gas naturale ha bisogno di lunghissime e vulnerabili pipeline, che limitano l’autonomia energetica e marcano le dipendenze da giacimenti fuori controllo, come nel caso dell’Europa dalla Russia. L’energia nucleare è afflitta da esposizioni finanziarie e da complicazioni politiche, intensificate dagli allarmi dell’opinione pubblica dopo gli incidenti di Chernobyl e Fukushima. Al contrario, le fonti rinnovabili come l’eolico e il solare comportano un basso impatto, ma sono ostacolate e mantenute in un ruolo marginale, nonostante un consenso crescente e saldo nei loro confronti.

In questo scenario, l’impressione che l’enfatizzazione del calo temporaneo del prezzo del petrolio faccia parte della volontà di dilazionare i tempi del cambiamento, non è solo giustificata, ma va analizzata in tutte le sue implicazioni, in particolare per quanto riguarda il modello sociale e economico che si vorrebbe procrastinare. Non si deve sottovalutare quanto il rilancio oggi del petrolio, a pochi mesi da un decisivo vertice sul clima, sia un elemento diabolicamente razionale e sapientemente ricattatorio, che le corporation e i grandi produttori dell’energia hanno messo in campo in una crisi economica per cui il liberismo non ammette alternative.

Nel 2013 nel mondo ben 550 miliardi dollari sono stati spesi per sovvenzionare i combustibili fossili, favorendo le multinazionali, distorcendo le economie e aggravando l’inquinamento. Per le rinnovabili gli investimenti (non i sussidi!) hanno registrato una media di 260 miliardi di dollari all’anno nel corso degli ultimi cinque anni. La IEA, l’organizzazione intergovernativa per l’energia, certamente di ispirazioni conservatrici, dice che il mondo dovrà sborsare circa 23.000 miliardi dollari nei prossimi 20 anni per finanziare l’estrazione di gas, petrolio e carbone, sempre meno accessibili. E, inoltre, stima che gli investimenti necessari oggi per la “decarbonizzazione” della sola produzione di energia elettrica si aggirano sui 44.000 miliardi dollari.

Proviamo allora a chiederci non tanto quello che il calo dei prezzi del petrolio significhi per l’energia pulita, ma quello che significherà la prospettiva di energia pulita e di efficienza energetica per il prezzo del petrolio.

Proviamo allora ad allargare lo sguardo. E’ addirittura l’edizione online di metà Febbraio di Bloomberg Energy ad affermare che vale la pena di investire nelle rinnovabili, data la conferma di un andamento costantemente positivo del settore.  Cioè, uno dei guru più prestigiosi del sistema finanziario e bancario mondiale sostiene la possibilità di ricorrere ad energia pulita per sopravvivere oltre la temporanea caduta del prezzo del petrolio. Da metà ottobre, mentre il greggio è sceso di quasi 30 dollari al barile, non ci sono stati cambiamenti nelle quotazioni dell’energia da fonti naturali, come misurato dal NEX (New Energy Global Innovation Index). E questo perché godono ormai di fatto di un sostegno politico e sociale generale, anche se contrastato nei media e disdegnato da Governi alla giornata come il nostro.

Una presa d’atto, quella del mondo degli affari più avvertito, che prevede stabilità oltre la tempesta. In pratica, la valutazione dei rischi da parte delle agenzie di credito all’esportazione risulta più vantaggiosa per investimenti nelle rinnovabili che non per opere di estrazione e trasporto dei fossili. Di conseguenza, si sono aperti mercati all’estero per le imprese “green” tedesche, danesi, coreane e statunitensi, sostenute dalle azioni dei loro governi.

Di fatto, i costi nell’eolico offshore sono sempre più ridotti, dopo che è stata raggiunta competitività nei due settori principali (vento onshore e PV). E la parity grid è stata ormai raggiunta anche senza particolari incentivi. Secondo il National Renewable Energy Laboratory (NREL), il costo di pannelli solari su una tipica casa americana è sceso di circa il 70 per cento negli ultimi dieci anni e mezzo. In Europa la convenienza è ormai accertata e migliorerà con investimenti in reti intelligenti e accumuli appropriati. I dati di produzione, poi, sono illuminanti: nel 2014 l’energia “pulita” nel mondo è volata ancora in alto, superando le aspettative (v. Ansa del 9 Gen 2015), con una crescita del 16% – pari a 310 miliardi di $ in investimenti – con un balzo record in Cina (+32%) e con crescite assai maggiori rispetto ai settori tradizionali anche in USA (+8%), Giappone (+12%), Canada (+26%), India (+14%), mentre da noi gli investimenti sono calati del 60% rispetto al 2013.

Il mondo cambia più rapidamente di quanto gli esperti sappiano immaginare e non è sufficiente studiare il passato per prevedere il futuro. La fame di energia dell’Asia e del Sud del mondo non è infinita e il loro sviluppo non sarà la fotocopia del nostro, perché rinnovabili ed efficienza sono ad uno step evolutivo ben diverso rispetto a quelli dei tempi della nostra crescita.

Alla luce di un esame attento, petrolio e gas di scisto non hanno inaugurato una nuova stagione dell’abbondanza: hanno solo reso accessibili risorse già conosciute e recuperabili grazie al prezzo elevato tenuto dal greggio fino a qualche tempo fa e solo a tale prezzo avranno ancora chance. E qui aggiungo: se glielo permetteranno lo sviluppo prevedibile delle fonti naturali diffuse e il risparmio praticabile negli edifici. I prodotti “shale” sono oggetto di aumentate preoccupazioni e perdita di consenso, con probabili effetti sul loro prezzo in futuro, come è già avvenuto per il nucleare.

A riprova, le preoccupazioni in USA e Canada per i rischi per l’acqua e il suolo, dato che il boom di estrazione da scisto richiede cambiamenti dirompenti nella gestione delle falde e dei terreni, ha indotto le comunità locali a chiedere garanzie con investimenti onerosi nella depurazione e nelle compensazioni ambientali, nonché nella sicurezza dei sistemi di tubazione e in quelli ferroviari di trasporto. Per di più, le nuove riserve energetiche si trovano in aree che non sono ben collegate ai porti o alle raffinerie già sviluppate nel secolo precedente e le imprese del settore energetico sono impegnate a costruire infrastrutture per abbinare la mutata geografia alla nuova offerta.

Un esempio delle riserve nell’opinione pubblica sulla tecnologie di estrazione non convenzionali viene anche dalla Germania, che, ha in queste settimane presentato un progetto di legge che ha cambiato le carte in tavola, anticipando al 2019 il permesso per estrarre gas da scisto. Quando il Ministro dell’Ambiente Barbara Hendricks ha detto che saranno applicate “le regole più severe che siano mai esistite nel settore del fracking”, ha freudianamente aggiunto che le perforazioni “saranno consentite solo con il massimo rispetto per l’ambiente e l’acqua potabile”.

Con un sapore da umorismo noir, la ministra prevede che il fracking sia vietato in tutte le aree di approvvigionamento idrico pubblico e consentito solo con criteri chiari per la gestione dell’acqua del serbatoio in cui finiscono i fluidi dell’operazione, suscitando un po’ di sconsolata ilarità e l’allarme dell’Associazione di Municipal Utilities (VKU), che fornisce circa l’80% di acqua potabile ai tedeschi.  Vincoli e normative rigide e sempre da migliorare per le popolazioni: costi in ascesa, quindi, o non se ne fa niente.

Intanto la Cina, il maggior consumatore in prospettiva, prevede l’autosufficienza energetica e la riduzione radicale delle emissioni di carbonio. Il presidente Xi Jinping annuncia sul South China Morning Post del 7 Febbraio di puntare ad abbassare il picco delle emissioni di anidride carbonica prima del 2030, con un ricorso al nucleare, ma, soprattutto, con una crescita impressionante delle rinnovabili. E aggiunge, significativamente, che “il cambiamento in atto nel mix energetico del Paese si basa su una minore dipendenza da carbone, lignite e petrolio e sull’aumento del consumo di energia pulita, cui seguirà il riequilibrio economico della nazione con un marcato rallentamento della crescita delle industrie manifatturiere ad alta intensità energetica e una rapida espansione del benessere e delle attività dei servizi”.

Per raggiungere gli obiettivi programmati, il “continente” ha bisogno di creare ex novo entro il 2030 da 800 a 1.000 GW di capacità di produzione di energia elettrica con zero emissioni. Il dettaglio presentato mette all’ultimo posto il ricorso al nucleare: 275 GW di capacità eolica, 385 GW di capacità solare e 120 GW di capacità idroelettrica, contro 85 GW di capacità nucleare. Suscettibili oltretutto di contenimento, per le riserve che si manifestano dopo l’incidente di Fukushima. L’esplosione degli impianti rinnovabili sulla scala macro del territorio cinese comporterà una drastica caduta del prezzo del kwh prodotto da pale, pannelli, digestori etc., con tecnologie di facile esportazione e adattamento anche nei paesi poveri.

Si ridurrà di conseguenza l’offerta eccedente di petrolio e gas da cui dipende in parte l’attuale caduta dei prezzi, pronti a risalire per l’impiego nei settori della mobilità, dei derivati post cracking e in quelli che richiedono la più alta densità energetica.

Se queste sono le condizioni nel medio periodo, meglio non adagiarsi sul prezzo attuale del greggio, ma prendere il tempo per le corna e accelerare il cambio di paradigma energetico che le energie naturali e rinnovabili – incardinate in stili di vita sostenibili – possono già innescare. Deve farsi strada la consapevolezza, fra chi governa e i cittadini, che essere sullo stesso pianeta e alimentarsi delle stesse risorse impone una politica globale di collaborazione, quando si ha come obiettivo la sicurezza, la guerra alla povertà, la difesa del clima e una vita e un lavoro decente per tutti. E questa è, forse, la chance vincente per decidere di superare rapidamente il sistema fossile e nucleare.

Di tutto questo non si è accorta l’organizzazione di EXPO 2015, che ha ridotto l’occasione di un appuntamento mondiale nel nostro Paese al solo capitolo alimentazione, privilegiando implicazioni prevalentemente commerciali rispetto alla sfida che quel binomio “energia-vita” –  originalmente presente all’avvio, ma praticamente cancellato dalla manifestazione che si aprirà – avrebbe comportato per un ripensamento  della sostenibilità a partire dalla Lombardia e dalla città di Milano.

 

L’idolo del mercato

di Roberto Meregalli – BCP/Energia felice

Da tempo fra gli addetti ai lavori si parla dell’eliminazione della “maggior tutela”, ossia del regime accessibile ai clienti domestici (e non solo) che non vogliono passare al mercato libero. Nei giorni scorsi la norma era apparsa nelle bozze del DDL concorrenza scatenando diversi commenti, soprattutto perché indicava una data molto vicina per la fine della maggior tutela: il giugno del 2016. Venerdì 20 febbraio il governo ha approvato un testo che conferma la proposta di eliminare la maggio tutela ma con tempi dilatati.

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Cambia la Grecia Cambia l’Europa. Manifestazione nazionale sabato 14 febbraio a Roma

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Noi crediamo che sia giunto il momento di non adeguarsi ai ricatti della Bce e dei tedeschi che stanno schiacciando non solo i cittadini greci ma l’Europa delle persone, dei lavoratori, degli onesti contribuenti.

Noi crediamo che sia giunto il momento di rendere prioritaria una soluzione all’emergenza umanitaria attuale.

Perché nessuno debba patire la fame o rimanere senza una casa e un lavoro.

Non è possibile permettere sprechi, evasione fiscale, svendita dei beni pubblici ed esigere contemporaneamente un rientro dal debito a tassi usurai.

Oramai la democrazia è solo una formalità.

Il Governo Tsipras sta cercando di riportare la Grecia fuori dall’emergenza con l’obiettivo di uscire dall’indebitamento e con un progetto di rinascita che può essere un esempio anche per chi ancora crede nell’Europa.

La nostra associazione si unisce alla FIOM, all’Arci, e a tutti i democratici che hanno promosso la manifestazione del 14 febbraio a Roma.

Associazione Energia Felice

Scorie nucleari, deposito cercasi

Con una nota del 2 Gennaio 2015 (http://www.adnkronos.com/soldi/economia/2015/01/02/scorie-nucleari-pronta-mappa-delle-aree-idonee-per-ospitare-depositi_m6St3sGkL5dCQjugIfDdLN.html)

veniamo informati che la SOGIN ha presentato ad ISPRA la mappa dei siti adatti a ospitare i depositi per le scorie nucleari. Si tratta, in particolare, delle Aree Potenzialmente Idonee (Cnapi) ad ospitare il Deposito Nazionale e il Parco Tecnologico per il trattamento e la messa in sicurezza. Entro Aprile il Governo dovrebbe dare il nulla osta affinché Sogin pubblichi la Cnapi. Si dovrebbe poi aprire una fase di consultazione pubblica, che dovrebbe culminare in un Seminario Nazionale, dove saranno invitati a partecipare tutti i soggetti coinvolti ed interessati.

Il Deposito Nazionale è un’infrastruttura di superficie dove mettere in totale sicurezza i rifiuti radioattivi, consentendo il decommissioning completo degli impianti nucleari italiani e di gestire tutti i rifiuti radioattivi, compresi quelli provenienti dalle attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca. Il Deposito Nazionale sarebbe accompagnato da un Parco Tecnologico legato alla ricerca e alla gestione del materiale radioattivo.

Esattamente un mese dopo, il 2 febbraio, la  Sogin ha lanciato sul web (www.futurosicuro.info) la campagna informativa “Scriviamo insieme un futuro più sicuro”, coinvolgendo – come da comunicato – “oltre 10 mila siti, nell’intento di approdare ad una scelta condivisa, finalizzata alla messa in totale sicurezza di tutti i rifiuti radioattivi e, con essa, anche alla chiusura del ciclo del nucleare in Italia”. Sono in ballo circa 75 mila metri cubi di rifiuti di bassa e media attività e lo stoccaggio temporaneo di circa 15 mila metri cubi di rifiuti ad alta attività.Ma il processo di individuazione delle aree potenzialmente idonee per la realizzazione del deposito nazionale e del parco tecnologico sono disciplinate dal D.lgs. 31/10, un provvedimento che, seppur modificato, venne partorito nel pieno convincimento del Governo filonucleare di allora di riprendere la produzione di energia nucleare in Italia, che verrà fermata dall’esito referendum.

Sollevo da subito alcuni punti a cui rivolgere l’attenzione, onde evitare che all’esito positivo del referendum antinucleare succeda lo stesso indecente trattamento che il Governo ha riservato al referendum per l’acqua. Infatti da una attenta lettura delle procedure preliminari indicate per la realizzazione del deposito nazionale sono già riscontrabili alcune criticità.

Mentre nella letteratura internazionale è consuetudine tenere separati i percorsi per la realizzazione di depositi per bassa e media attività da quelli di alta attività, qui

si parla solo di rifiuti a bassa e media attività. Forse per attutire l’impatto nel  coinvolgimento della popolazione, che quindi parte già carico di ambiguità.

Tra i criteri di esclusione per la definizione del sito, si cita quello di “aree contrassegnate da sismicità elevate”. Si introduce quindi una certa opinabilità in un territorio come quello italiano, a sperimentata prevalenza sismica.

Questi margini di aleatorietà, inquineranno il processo partecipativo assicurato sulla carta (si pensi solo alla vicenda dell’adozione della Strategia Energetica Nazionale  – la fantomatica SEN – un profluvio di slides in assenza di una vera discussione pubblica!). Anche perché, in ogni caso, in assenza di manifestazioni di interesse o del raggiungimento di un’intesa per l’individuazione delle aree, il Governo deciderà unilateralmente e autoritativamente in quale sito dovrà essere realizzato il DNPT.  Tale aspetto è estremamente rilevante, in quanto supera e rimuove qualsiasi ostacolo che potrebbe essere sollevato nel merito della valutazione promossa dalla partecipazione e dal coinvolgimento diretto dei territori.

Inoltre la Sogin, già oggetto di scarsa fiducia e affidabilità da parte della popolazione, diventerebbe, oltre che il soggetto responsabile degli impianti a fine vita e del mantenimento in sicurezza degli stessi, anche la responsabile della realizzazione e dell’esercizio del Deposito nazionale e del Parco Tecnologico. Una responsabilità esercitata in assenza di una struttura di controllo indipendente della gestione del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi.

 

Come la mettiamo con la consultazione reale, oltre che con quella virtuale senza verifica alcuna? In ogni caso, nell’attesa di pervenire a decisioni davvero condivise in una democrazia sempre più mutilata, si sospenda da subito la realizzazione di nuovi depositi nucleari temporanei nei vari siti attuali (Trino e Saluggia in particolare), che sono totalmente inidonei ad ospitarli.

Nell’economia delle miniere non è tutto oro quel che luccica

di Daniela Patrucco

Le popolazioni amazzoniche indigene proteggono e conservano le foreste. Il forte legame tra un popolo indigeno e il suo territorio e il rispetto fondamentale che le comunità indigene hanno verso gli ecosistemi da cui dipendono sono fattori chiave per mantenere la ricchezza ecologica delle terre indigene. L’America Latina è la più grande riserva di minerali metallici in tutto il mondo. I più ambiti sono oro e argento ma tantissime sono le risorse del sottosuolo la cui estrazione mette a repentaglio enormi aree, che garantiscono la sopravvivenza stessa del Pianeta. La resistenza delle popolazioni locali e indigene alle violazioni ambientali è causa della delocalizzazione forzosa di intere comunità, di violenze di ogni genere nei confronti dei giovani e delle donne, di crimini e persecuzioni ai danni degli attori sociali. Nonostante tutto, c’è una resistenza determinata e vitale, nonviolenta, creativa e propositiva, che si alimenta di sempre nuove energie. Una resistenza che riflette sull’inopportunità di depredare e svendere le risorse naturali del sottosuolo e si chiede cosa succederà quando queste risorse saranno esaurite?

 

COP20 di Lima: un fondo territoriale indigeno per il clima

 
Dove ci sono territori indigeni si ha 7 volte meno deforestazione (0,2%) che nelle aree protette (1,4%). I popoli indigeni dei nove paesi amazzonici proteggono 210 milioni di ettari di foreste che forniscono una serie di servizi per l’umanità. Il WWF ha dichiarato che l’80% delle più ricche “ecoregioni” del mondo è abitato da comunità indigene. La tutela della grande quantità di carbonio delle foreste in territori indigeni e aree protette – che è il 55% del carbonio di tutta regione amazzonica – è cruciale per la stabilità del clima globale, per l’identità culturale degli abitanti della foresta e per la salute degli ecosistemi in cui essi vivono.
Le foreste affidate ai popoli indigeni catturano ogni anno 26.250 milioni di tonnellate di carbonio e 96, 075 mila tonnellate di CO2. Questi numeri equivalgono a tutte le emissioni di CO2 a livello mondiale del 2010, 2011 e 2012 sommati tra loro.

 

Nel quadro della COP20 di Lima le popolazioni indigene  – organizzate in una rete di 5.000 comunità  – hanno chiesto di essere titolari di 20 milioni di ettari in Amazzonia e 400 milioni nel resto del mondo. Per la prima volta nella storia le organizzazioni indigene e comunitarie dell’Africa, Asia e America Latina – territori che rappresentano l’85% delle foreste tropicali del mondo – si sono unite per richiedere la creazione di un fondo territoriale indigeno per il clima. L’obiettivo è il rafforzamento dei diritti dei popoli indigeni e il loro sostegno nella protezione delle foreste tropicali nel mondo, prima che deforestazione e degrado avanzino ulteriormente.

 

Il prezzo pagato dalle comunità e dai popoli indigeni dell’America latina: le miniere

 

Nello stato di Minas Gerais (Brasile) c’è una piccola comunità, Bean Creek, recentemente minacciata da una nuova società mineraria, la “Green Metals” che vuole installarsi sul suo territorio. La semplicità della vita quotidiana di questa comunità (i fagioli, le radici e la cultura popolare) è minacciata dall’ignoto – estraneo e incomprensibile – che arriva senza permesso e senza che alcuno sia stato consultato, spesso per conto di grandi aziende come la Vale SA, una multinazionale che domina tutta la regione.  E’ soltanto un esempio microscopico di ciò che sta accadendo in tutta l’America Latina e nel resto del mondo.

 

L’America Latina è la più grande riserva di minerali metallici in tutto il mondo – i più ambiti sono oro e argento – e poiché circa il 90% delle miniere sono a cielo aperto, la loro estrazione causa la contaminazione delle acque di superficie e sotterranee, nonché del suolo e dell’aria. Il caso dell’oro è paradossale: “solo il 10% di quello estratto viene utilizzato nella tecnologia, mentre il 40% diventa gioielleria e il rimanente 50% investimento finanziario. Esce dal sottosuolo dei territori e degli ecosistemi vivi per andare a finire nel sottosuolo dei territori finanziari: le banche” (Sursiendo http://sursiendo.com/blog/2014/01/repensar-el-uso-de-metales-frente-al-modelo-extractivista/).
L’ossessione del mondo per i minerali è in crescita. Ciò è dovuto principalmente all’avanzare di una nuova classe media globale, principalmente in Asia, che si ispira ai modelli di consumo dei paesi industrializzati. Si prevede che in 20 anni i soli BRIICS (Brasile, Russia, India, Indonesia, Cina e Sud Africa) raddoppieranno il loro prelievo complessivo di minerali metalliferi (2,2 miliardi di tonnellate nel 2002- 4,4 nel 2020). Se questa resterà la velocità di estrazione, le riserve mondiali di minerale di ferro saranno esaurite in 41 anni, in 48 quelle di alluminio, rispettivamente in 18 e 16 rame e zinco. Il meccanismo è perverso perché la crescita della domanda mondiale, la riduzione delle migliori riserve di minerali e la possibile scarsità di alcuni minerali a medio termine determinano un generale aumento dei prezzi. Ciò causerà probabilmente una rapida espansione delle miniere esistenti e l’intensificazione della ricerca di nuovi giacimenti. Dopo la colonizzazione e il saccheggio delle miniere e altri beni comuni per arricchire le casse delle metropoli nazionali, ancora una volta il Brasile accoglie il modello di esportazione delle commodities come una soluzione pronta per la generazione di facile rendita.

 

Una realtà perversa, anche nei paesi in cui l’intensificazione dell’estrazione di minerali e idrocarburi è giustificata con gli investimenti da parte dello Stato in programmi contro le povertà sociali. Il modello economico estrattivo si basa su profonde ingiustizie ambientali: “società diseguali dal punto di vista economico e sociale caricano il maggior peso del danno ambientale dovuto allo sviluppo alle popolazioni a basso reddito, gruppi razziali discriminati, comunità etniche, tradizionali quartieri della classe operaia, emarginati e popolazioni vulnerabili” (Acselrad H. et al., “O que é injustiça ambiental”, Garamond, 2008)“. Secondo la teoria dell’”ecologismo dei poveri”, la maggior parte degli attuali conflitti sociali in America Latina è causata dalle minacce e dagli impatti ecologici: i poveri cercano di mantenere il controllo delle risorse ambientali di cui hanno bisogno per vivere, con la minaccia che queste diventino proprietà dello Stato o proprietà privata capitalista.
La reazione a catena dei numerosi singoli progetti. L’impatto dell’industria mineraria non si limita alle zone immediatamente circostanti le miniere. Nella maggior parte dei casi l’impatto locale è solo uno degli esiti di un modello economico che ha forti influenze sulle decisioni politiche degli stati, e che pertanto incide sugli equilibri e i destini di intere società. Inoltre, tutti i grandi progetti minerari hanno bisogno di una solida infrastruttura di supporto per la generazione e la fornitura di energia, per l’accumulo della grande quantità di acqua necessaria, per trasportare il minerale attraverso condutture, strade, ferrovie e porti.
In Brasile, ad esempio, il treno più lungo del mondo ha 330 vetture che si snodano lungo 900 km di ferrovia: si tratta di una concessione a favore della Vale SA per esportare il minerale di ferro amazzonico del Carajás in Cina, Giappone ed Europa. Una ferrovia delle stesse dimensioni è stata costruita dalla stessa azienda tra il Mozambico e il Malawi per il trasporto del carbone.

In Perù, il tanto contestato gasdotto di Camisea è principalmente destinato ad alimentare i grandi progetti minerari nel sud del Brasile. Sempre in Perù, mano nella mano con il famigerato progetto minerario “Conga”, che ha mobilitato migliaia di persone in manifestazioni sorprendenti (http://www.yanacocha.com.pe/proyecto-conga/) cammina anche il progetto idroelettrico Chadin (http://minacorrupta.wordpress.com/tag/chadin-2/), della società di costruzioni brasiliana Odebrecht, con un’enorme diga che ostacola il rio Marañón, uno dei più grandi affluenti del Rio delle Amazzoni. Sono molte e diverse le persone e le comunità che si ritengono colpite dall’estrazione mineraria, con diverse conseguenze. Alcune tra le principali offrono qualche spunto di riflessione.
Gli impatti ambientali più evidenti delle attività estrattive sono la deforestazione (Carajás, Brasile), le enormi quantità di rifiuti residui (Lake Sandy Pond in Canada, che scomparirà a causa del materiale di scarto in esso smaltito), l’inquinamento prodotto dalle industrie che compongono la catena estrattiva (La Oroya – Perù, Piquiá de Baixo e Santa Cruz, Brasile) e l’enorme consumo di acqua (le grandi miniere del Cile possono consumare 13 metri cubi di acqua al secondo, corrispondente al consumo di acqua medio per secondo di oltre 6 milioni di persone). Il progetto minerario Pascua Lama (Cile-Argentina) dimostra quanto sia impattante l’estrazione dell’oro: per ottenere un grammo d’oro è necessario rimuovere 4 tonnellate di roccia, consumando 380 litri di acqua, 1 kg di esplosivo e quasi la stessa quantità di cianuro. L’energia richiesta per separare 1 g di oro può essere paragonata a quella consumata mediamente in una settimana da una famiglia argentina. Il fenomeno di drenaggio acido, per la presenza della pirite che degenera in acido solforico, influenza la falda dei territori dove avviene l’estrazione mineraria. Le conseguenze perdurano per migliaia di anni e sono particolarmente acute quando le miniere sono poste vicino alle sorgenti a causa della contaminazione delle acque dell’intero bacino.
Gli spostamenti forzosi delle popolazioni. Per fare spazio ai progetti minerari e alle infrastrutture connesse molto spesso famiglie o intere comunità sono espulse dai loro territori. Le comunità rurali e urbane sono reinsediate in condizioni e contesti in molti casi peggiori di quelli in cui sono vissuti. Per far posto alle miniere di carbone sono state reinsediate le comunità di Cateme e 25 de Setembro in Mozambico e El Hatillo, Piano Bonito e Boqueron in Colombia; la comunità di Piquiá de Baixo, in Brasile, è un raro caso in cui è la comunità stessa a chiedere il reinsediamento a causa delle disperate condizioni di inquinamento cui è condannata.

Sebbene la Convenzione n. 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro raccomandi di consultare e ottenere il consenso delle comunità indigene e tradizionali prima dell’avvio di qualsiasi tipo di attività produttiva nel loro territorio, nella maggior parte dei paesi il processo di consultazione è spesso inesistente, estremamente precario e volutamente inefficace. In questo modo le comunità indigene subiscono gli effetti della deforestazione, la fuga degli animali da cacciare, la perdita di controllo dei territori e la riduzione delle loro dimensioni. È il caso, ad esempio, del popolo Shuar in Ecuador o Awa-Guajá in Brasile.
La negazione del futuro e la violenza sui più giovani. L’industria mineraria stabilisce vere e proprie economie di enclave nei territori in cui decide di operare. Che significa che la maggior parte delle iniziative locali rientrano nel settore minerario, che diventa una prospettiva economica quasi esclusiva. Questo processo – che garantisce gli interessi di alcune minoranze influenti a livello economico e politico, nazionale e internazionale – molto raramente permette agli attori economici locali e alle comunità di pianificare e diversificare i propri investimenti, scegliendo attività alternative come l’agricoltura familiare o la micro-impresa in altri settori produttivi. Poiché le politiche di sviluppo regionale sono fondate sul diritto alla partecipazione da parte di chi abita il territorio, queste tendono a promuovere incentivi fiscali e finanziamenti per i progetti del settore minerario, boicottando altri punti di vista e prospettive. La mancanza di alternative gioca a favore delle miniere: genera manodopera a basso costo che si concentra, geograficamente ed economicamente, e si vincola permanentemente alla filiera estrattiva. Si tratta a volte di vere e proprie migrazioni verso il moderno “Eldorado”, che in contesti di povertà e con il fallimento del ruolo dello Stato inducono l’idea di sviluppo. Si tratta invece di un falso sviluppo, con una crescita incontrollata che provoca caos e violenza. Marabà e Parauapebas – le città dello Stato del Pará (Brasile) più vicine al Carajás, la più grande miniera di ferro del mondo –  sono tra le città più violente del Brasile: in queste città la probabilità di un giovane uomo di essere ucciso da un’arma da fuoco o da taglio, è del 25% superiore a quella dell’Iraq, un paese con uno dei più alti tassi di mortalità da conflitti armati.

La criminalizzazione degli attori sociali. Chi critica la grande industria mineraria è esposto a persecuzione giudiziaria, minacce, diffamazione, spionaggio, omicidio. La banca dati sui conflitti minerari in America Latina descrive in dettaglio 198 casi ancora aperti di conflitto nel continente, conflitto che interessa 297 comunità. L’attacco ai movimenti sociali e alle comunità è palese e a volte istituzionale. Nel 2010 l’allora presidente del Perù Alan Garcia definì “nemici dello sviluppo” gli ambientalisti e gli attivisti per i diritti delle popolazioni indigene: secondo il Presidente costoro erano affetti dalla sindrome Nimby. Non cambia molto tra i cosiddetti governi progressisti. Nel 2007 il presidente dell’Ecuador Rafael Correa, dichiarò “E’ finita l’anarchia. Tutti coloro che si oppongono ai progressi del paese sono terroristi. Chi farà manifestazioni con blocchi stradali sarà punito nella misura massima consentita dalla legge. Non sono le comunità che protestano, ma un piccolo gruppo di terroristi. Gli ambientalisti romantici e gli ecologisti infantili sono quelli che vogliono destabilizzare il governo”.
In molti casi, si crea strategicamente un falso dilemma tra l’interesse collettivo e la tutela dei diritti umani e della natura. Recentemente i coordinamenti dei movimenti sociali che in Brasile si oppongono ai grandi progetti minerari sono stati spiati con l’infiltrazione di agenti segreti delle forze pubbliche e private di sicurezza. Dallo spionaggio alla persecuzione fisica e alla violenza il passo è breve. Lo dimostrano alcuni dei peggiori massacri: il Bagua, in Perù nel 2009, con decine di indigeni dispersi e 28 poliziotti uccisi; il ponte ferroviario di Marabà, in Brasile nel 1987, con la morte di diversi minatori; l’Eldorado dos Carajás, in Brasile nel 1996, a opera della polizia militare brasiliana con il sostegno apparente della società Vale SA e la morte di 21 lavoratori rurali del MST.
La violenza contro le donne. Raramente percepita come violenza di genere, l’estrazione mineraria su larga scala ha una dimensione che riguarda intensamente la vita delle donne a causa degli impatti già descritti. La sottrazione della terra è una violenza soprattutto contro le donne, che in molti casi sono responsabili della salute e della sicurezza alimentare della casa.  Spesso hanno inoltre subito l’uccisione o il rapimento dei loro mariti e sono minacciate affinché vendano le loro terre alle compagnie minerarie. Nelle aree minerarie in cui si realizzano grandi progetti si sono intensificate le aggressioni fisiche ed è aumentato lo sfruttamento sessuale. Infine, i grandi progetti tendono (spesso deliberatamente) a smantellare il tessuto sociale delle comunità: si perde un ambiente di sicurezza e protezione, nonché la possibilità di partecipazione. Anche in questo caso, le principali vittime sono donne.

La Resistenza. Il conflitto racchiude anche vitalità, creatività, fermezza e fiducia nella lotta intrapresa e nelle alternative proposte dalle comunità. Diversi i referenti di quella che è una vera e propria forma di resistenza: all’Observatorio de Conflictos Mineros in America Latina (OCMAL), al Movimiento Mesoamericano contra el Modelo extractivo Minero (M4) e al Coordinamento Internazionale delle Vittime della Vale, sì è aggiunta più di recente Justica Nos Trilhos, la rete dei religiosi e dei legali in lotta contro l’estrazione mineraria del continente.

 

“In tutti questi spazi di resistenza – ci dicono Padre Dario Bossi e Danilo Chammas di Justica Nos Trilhos  – la questione non è se siamo a favore o contrari all’industria estrattiva. Il fatto è che in un tempo molto prossimo dovremo saper vivere senza miniere, perché le risorse saranno esaurite. Cosa fare nel frattempo? Aspettare quel giorno per risolvere il problema, o trasformare rapidamente e radicalmente il modello estrattivo del nostro continente?”

 

Tre le principali linee di azione della Rete:

– il rifiuto di un’economia basata sull’estrazione mineraria, attraverso proteste contro nuovi progetti di grandi dimensioni di miniere e infrastrutture collegate; il riconoscimento dell’illegittimità di alcuni progetti, con azioni legali e manifestazioni, e la richiesta di leggi che proibiscano l’attività mineraria, inquinante e incontrollata; campagne internazionali, come “L’acqua vale più dell’oro” che ha ricevuto anche il sostegno di Papa Francesco;

– la garanzia dei diritti individuali e collettivi dove ci sono già impianti consolidati, con appelli alle istituzioni per la mitigazione e la piena riparazione delle violazioni dei diritti umani, il rallentamento dell’espansione degli impianti e la ricerca di altre attività socio-economiche da combinare con l’attività mineraria;

– la promozione di diversi stili di vita e alternative economiche in vista della dismissione delle miniere, con dibattiti e azioni di lungo termine nelle regioni e nei paesi minerari.

 

Fonti e articoli originali:

– Nem tudo que reluz é ouro – Os impactos da mineração sobre os direitos humanos – Por Pe. Dário Bossi e Danilo Chammas (in portoghese, inviato dagli autori)

– Donde hay territorios indígenas hay 7 veces menos deforestación que en las áreas protegidas

http://www.cop20.pe/ck/donde-hay-territorios-indigenas-hay-7-veces-menos-deforestacion-que-en-las-areas-protegidas/