Civitavecchia, dal gas al vento e al sole: una grande conquista dei cittadini di cui non si parla

In questi giorni è passata sotto silenzio una notizia di notevole rilievo che – a mio parere – potrebbe non solo influenzare ma qualificare il prossimo decennio dell’assetto del sistema energetico nazionale. Mentre la guerra in corso spinge i nostri ministri e capi di governo, affiancati dall’immancabile ad di Eni, De Scalzi, a siglare accordi per l’approvvigionamento di gas fossile proveniente dai pozzi e da regioni lontane dalla nostra penisola, con bilanci energetici ambientali e implicazioni finanziarie e politiche pesantemente sfavorevoli, il 22 marzo una serie simultanea di comunicati ufficiali – sottolineati con enfasi dalle sigle in calce di tre grandi imprese Eni, Cni, Cdp e Cip – hanno inondato le redazioni italiane e europee, senza tuttavia che le notizie in essi contenuti fossero in particolar modo amplificate da giornali, social o tv.

Il 22 marzo è stata formalizzata la costituzione di una colossale joint venture tra Eni, Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e un forte partner danese (Cip) – il più grande gestore di fondi dedicato agli investimenti verdi nelle rinnovabili – per rendere operativi a regime 3 GW di nuova capacità verde, ottenuta con eolico galleggiante a 30 km dalle coste del Tirreno (Civitavecchia) e delle grandi isole italiane.

Deve sempre sollevare apprensione la presenza di grandi interessi economici e finanziari nell’esecuzione di progetti decentrati e a carattere territoriale, ma credo che, nel caso della fruizione dell’elettricità, l’attenzione dei cittadini e il loro diritto a condeterminare le scelte partecipando e cooperando tra di loro possano risolvere ogni prevaricazione. Forse si può capire perché la comunicazione della nuova Joint Venture per l’eolico offshore sia stata data un po’ sotto traccia – come un improvviso colpo di fulmine da appannare dopo scoccato. In effetti, essa non poteva che risultare del tutto contraddittoria rispetto al rilancio del gas e del sistema centralizzato di approvvigionamento e combustione dei fossili per produrre energia, cui ci ha abituato il sistema che puntiamo a cambiare.

Siamo nel mezzo di una disputa aspra tra cittadini locali e rappresentanze istituzionali riguardo all’approdo in rada di enormi rigassificatori a Piombino e Ravenna. E il tenue clamore per un irreversibile rilancio delle rinnovabili, attraverso una partnership robusta e credibile, è del tutto spiegabile con il coinvolgimento e la compromissione dei nostri governi con la vecchia politica energetica. In questi stessi giorni viene rilanciato il progetto di sequestro di CO2 in Romagna, sotto l’egida di Eni e del Presidente della Regione, mentre la presidenza del Friuli mostra arrendevolezza nell’accettare la riconversione della Centrale a carbone di A2A a Monfalcone con un più potente turbogas.

Di conseguenza, un impegno così rilevante su eolico e fotovoltaico troverà resistenze e imbarazzi nel constatare che settori energetici, finanziari e industriali si muovono verso positive ricadute occupazionali, manifatturiere e ambientali fin qui ignorate dal Pniec (v. https://www.mase.gov.it/), dal maggior ente energetico nazionale e dai governi romani.

In ogni caso, non si può fare a meno di constatare che l’avvio di una riconversione dal gas al vento e al sole è maturata a Civitavecchia in un contesto di straordinaria partecipazione democratica che, andando oltre alla mera opposizione al metano, ha saputo costruire le condizioni per una coalizione sociale che ha favorito l’incontro di cittadini, studenti, sindacati, ricercatori e tecnici e ha tradotto in politica la pressione sociale per liberarsi dall’inquinamento.

Di questa premessa nei comunicati usciti il 22 marzo non c’è traccia, mentre sta proprio in essa il valore aggiunto dell’approdo cui si sta pervenendo e che richiederà passi ulteriori verso la solarizzazione delle strutture del porto, le comunità energetiche e la mobilità sostenibile.

La stima del progetto complessivo è data a circa 5 TWh (2 milioni di famiglie ai consumi attuali); la sua operatività è prevista tra il 2028 e il 2031 a valle della conclusione dell’iter autorizzativo e dei lavori di installazione da compiere. La realizzazione sarà affidata a un team di lavoro congiunto affiancato da Nice Technology e 7 Seas Wind Power, società italiane che si avviano a consolidare la loro esperienza nel comparto offshore incoraggiando la crescita occupazionale e professionale anche della filiera produttiva locale.

Forse comincia a traballare l’ipotesi propria del governo Cingolani-Draghi e, probabilmente, di quello attuale di dilazionare i tempi per l’abbandono del gas entro il 2050. E perfino l’Eni, dopo la rinuncia dell’Enel al turbogas di Torrevaldaliga, si comincia a rendere conto che non abbiamo più tempo per mantenere un mix fossile di fonti energetiche oltre la metà del secolo.

In conclusione, la risorsa che nasce dalla partecipazione e dalla democrazia dal basso dimostra che si possono far convergere sulla conversione ecologica interessi riluttanti a riprogettare l’erogazione di energia sulla base di un nuovo paradigma duraturo e desiderabile, in armonia con la biosfera, come si conviene in una fase di drammatica emergenza climatica e sociale.

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Le auto elettriche abbatteranno il rumore e le emissioni inquinanti. Allora perché tanta ostilità?

Riprendo l’articolo pubblicato il giorno dopo la decisione del Parlamento Ue sull’auto elettrica con alcune osservazioni che vanno al di là della cronaca e attestano ancora una volta l’inadeguatezza dei nostri governanti a mantenere un minimo di coerenza con le linee di fondo sul clima adottate dal Parlamento Europeo. A Strasburgo il centrodestra italiano (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) ha votato compattamente contro il termine del 2035, oltre il quale si potranno immatricolare solo auto elettriche.

Già il governo Draghi si era battuto per il principio della “neutralità tecnologica” sostenendo che sarebbe stato un errore puntare su una mobilità esclusivamente elettrica. Si tratta non di un fatto estemporaneo o di un timore giustificato per l’occupazione, ma di una linea di fondo di non percezione dell’urgenza di un cambiamento complessivo delle produzioni e dei consumi in un tempo che viene ogni giorno sempre più a mancare e che necessita di un impegno altrettanto urgente per la giustizia sociale e la difesa del lavoro.

E’ significativo come perfino un redivivo Roberto Formigoni abbia oggi sentenziato contro il limite fissato al 2035 dimenticandosi forse che fin dal 2004 un gruppo allargato di ricercatori dell’Enea, sotto la supervisione del Nobel Rubbia, avesse presentato alla Regione Lombardia un articolato piano per la mobilità sostenibile fondato sulla riconversione a idrogeno dei motori degli autoveicoli e sull’estensione di sistemi di logistica intermodale in cui prevalesse il trasporto pubblico. Si trattava di riconvertire l’intera area Alfa Romeo in una manifattura prestigiosa e all’avanguardia e finita, invece, dopo estenuanti confronti, con l’ospitare il più grande supermercato d’Italia – “Il Centro” di Arese – il cui azionista di maggioranza è da sempre vicino alla Compagnia delle Opere. La povertà di visione di chi ci governa (in Lombardia ormai da 30 anni) riduce perfino la politica industriale a interessi di parte e ad un gioco di poteri stantii.

Qui vorrei inquadrare il salto di qualità che i due provvedimenti adottati dal Parlamento Ue (Fit for 55 e Stop al 2035) cercano di imporre, sempre che la Commissione e i capi di governo non ne attenuino il significato, come è avvenuto sulla “tassonomia europea” e come sta profilandosi sulla riduzione della quota di rinnovabili da varare entro il 20230 – dal 45% al 40% secondo la Commissione. E’ in atto, purtroppo, un pericoloso scostamento tra gli esecutivi e il Parlamento, che Ursula von der Leyen tratta con troppa disinvoltura e con un ascolto non irrilevante delle lobby fossili.

Il settore dei trasporti è responsabile del 30% delle emissioni totali di CO2 in Europa. Dal punto di vista delle fabbriche automobilistiche, le principali difficoltà tecniche per alleggerire l’inquinamento da traffico consistono innanzitutto nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e, inoltre, nel contenimento degli ossidi di azoto (NOx) per le alimentazioni diesel e del numero di particelle microscopiche (PN) per le alimentazioni a benzina a iniezione diretta, emissioni pesate come anidride carbonica equivalente (CO2 eq.).

Da fine degli anni 90 gli approcci ai regolamenti sui gas serra per i veicoli commerciali si erano concentrate sulle emissioni dal condotto di scarico. Così, in tutta la trafila di classificazioni per gli autoveicoli da Euro 1 a Euro 6 si sono fissati limiti di emissioni del combustibile impiegato misurati “al tubo di scappamento”. Invece dal 2035 facendo riferimento esclusivamente al vettore elettrico anziché continuare ad andare esclusivamente nella direzione di combustibili a minor emissioni di carbonio, ci si muoverà verso le nuove fonti di alimentazione dei motori, come i gruppi motopropulsori elettrici delle batterie, che ottengono la loro energia dall’elettricità con cui si caricano. E qui entra in gioco non solo il gas misurato allo scappamento del veicolo, ma anche quello immesso in atmosfera dal mix di fonti con cui si alimentano le colonnine di ricarica. Il passaggio all’elettrico ha quindi un significato che va oltre il settore automobilistico: anche per l’inquinamento dovuto alla mobilità diventerà sempre più rilevante il percorso con cui si procurerà l’elettricità trattenuta nelle batterie o come verrà prodotto, eventualmente, l’idrogeno (verde o grigio) che alimenterà le celle a combustibile montate sui veicoli.

In sostanza: il salto di qualità sta nel porsi un obbiettivo più esteso: il vettore (elettricità o idrogeno) che consente al motore elettrico di abbassare drasticamente gli inquinanti rispetto al motore a combustione termica andrà a sua volta ottenuto da fonti rinnovabili a bassissime emissioni anziché da fonti fossili, grandi emittenti di climalteranti e gas inquinanti (o radiazioni nel caso del nucleare). La cosa interessante da notare è che per la prima volta un Regolamento europeo sulle emissioni nel settore automotive cita la metodologia dell’intero ciclo di vita (Lca). Puntando – corroborato dal contributo degli obbiettivi del “Fit for 55” – a diminuire drasticamente anche le emissioni a monte legate alla produzione dell’energia elettrica o dell’idrogeno impiegati dal veicolo.

L’obbiettivo è molto ambizioso e condivisibile: un sostanziale assorbimento di energia elettrica per il settore stradale può fungere da driver per aumentare la quota di energie rinnovabili nel mix di fonti energetiche Ue. E, parimenti, “l’inverdimento” del mix di reti aiuta anche “l’inverdimento” del settore stradale. In base alla penetrazione delle rinnovabili (fissate dalla Ue almeno al 45% al 2030) è possibile stimare che le emissioni clima-alteranti (in tutto il ciclo di vita) dei veicoli saranno almeno quasi dimezzate al 2035. Per di più, i veicoli abbatteranno radicalmente il rumore e le emissioni inquinanti (NOx, CO, PM, HC) in ambito locale. Perché allora tanta ostilità e insensibilità climatica da parte dei nostri ministri e governanti?

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Anche la decarbonizzazione produrrà CO2. Il fattore decisivo? I tempi

In un lungo e documentato articolo, un gruppo di scienziati e tecnici statunitensi del Pnas valuta il rischio pagato in adattamento e aggravamento climatico in funzione della rapidità con cui si rendono operative le fonti rinnovabili per abbattere le emissioni fossili. Il testo, ricco di grafici e di tabelle, rileva come non sia stato ancora sufficientemente discusso un bilancio relativo alla quantità di energia e materiali “sporchi”, che continueranno a causare inquinamento e surriscaldamento anche solo per costruire e rendere operativi nuovi impianti alimentati da acqua, sole e vento, oltre ad allestire batterie, nuovi sistemi di reti elettriche locali, fino a barriere costiere a riparo dell’innalzamento dei mari.

Solitamente non si prende in considerazione quanta CO2 e quanto CH4 “non contabilizzato” occorreranno per modificare a fondo, trasformandolo, l’attuale sistema energetico. In effetti, la decarbonizzazione che viene fissata per obbiettivi da raggiungere in vari stadi da qui al 2100, va contabilizzata puntualmente tenendo anche conto di una quota di emissioni dovute all’impiego di fossili necessari– almeno all’inizio – per costruire i nuovi impianti. In sostanza, la diffusione delle rinnovabili si traduce in una domanda di energia per tutto il 21° secolo, inizialmente soddisfatta principalmente dai combustibili fossili, poi sempre più dalle fonti rinnovabili stesse, diventate, secondo la definizione di Georgescu Roegen, finalmente “prometeiche”.

I diversi pericoli del cambiamento climatico indotto dall’uomo richiedono due grandi sforzi a livello internazionale:

1) Ridurre le emissioni di gas a effetto serra (Ghg) in misura sufficiente a mantenere il riscaldamento al di sotto di un limite prefissato;

2) Adattare le infrastrutture e le altre attività umane al cambiamento che ne risulta in base al limite effettivamente raggiunto. Per ottenere una previsione quantitativa affidabile dei risultati di tali sforzi occorre, in primo luogo, stimare l’effetto delle emissioni di Co2 del settore energetico attuale con cui si ottiene una costruzione di massa di capacità di generazione di elettricità rinnovabile (anche la più rapida diffusione di energie rinnovabili richiede emissioni di climalteranti dovute all’impiego delle fonti fossili con cui attualmente vengono fabbricate). In secondo luogo, va valutato come e quanto il riscaldamento climatico dovuto alle emissioni storiche e nel futuro – il più prossimo possibile – renderà necessario il raffreddamento degli ambienti in nuove regioni e aumenterà la durata e l’intensità del suo ricorso a livello globale;

3) In terzo luogo, va preso in considerazione l’innalzamento del livello del mare causato dalle emissioni storiche e future, che richiederà la costruzione di difese contro le inondazioni e il trasferimento di alcuni insediamenti costieri.

In definitiva, ciascuno di questi tre interventi richiederà energia per essere approntato e funzionare e, poiché la capacità rinnovabile è attualmente insufficiente, questa energia che definiamo “incorporata” deve essere inizialmente alimentata da combustibili fossili con conseguenti emissioni di CO2 incorporate. Dallo studio citato emerge come fattore decisivo l’abbreviamento dei tempi di sostituzione dei combustibili fossili che, se non drammaticamente accelerati entro il 2025 e praticamente conclusi entro il 2050, porterebbero a un innalzamento della temperatura del Pianeta oltre 2.7°C a fine secolo.

L’analisi del Pnas fornisce una stima dettagliata delle emissioni di CO2 incorporate, che potrebbero derivare dalla mitigazione e dall’adattamento durante la transizione climatica per gli anni dal 2020 al 2100. Per farlo vengono quantificate primariamente e come riferimento le emissioni incorporate nella transizione in un percorso energetico e climatico futuro graduale e coerente con una ipotesi di aumento della temperatura di +2 °C. Quindi, si confrontano queste emissioni incorporate in uno scenario rapido (1,5 °C) e in uno ritardato (2,7 °C).

Per quanto riguarda i risultati a fine secolo, la rapidità di sostituzione delle fonti fossili risulta rilevantissima. Avendo preso a riferimento un percorso di decarbonizzazione graduale che limiti il riscaldamento a 2 °C (limite che molto probabilmente rischieremo di superare), gli interventi selezionati relativi all’adattamento (coibentazioni degli edifici, dighe sui litorali, arretramenti di insediamenti etc.) emetteranno ~1,3 GtCO2 fino al 2100, mentre le emissioni derivanti dall’energia utilizzata per distribuire la nuova capacità rinnovabile sono assai rilevanti: ~95 GtCO2. Insieme, queste emissioni equivalgono a oltre 2 anni delle attuali emissioni globali e all’8,3% del restante budget di carbonio per non superare i 2 °C.

Le emissioni di transizione incorporate totali vengono invece ridotte di circa l’80% (a 21,2 GtCO2) con un percorso rapido che limita il riscaldamento a 1,5 °C, con un picco nel 2025 a 3,8 GtCO2/anno prima di diminuire drasticamente, mentre raddoppiano (all’incirca a 185 GtCO2) in un percorso ritardato, purtroppo coerente con le politiche attuali e corrispondente a 2,7 °C di riscaldamento entro il 2100.

Ne segue che, in risposta alle guerre già intrinsecamente climalteranti, sia un pessimo annuncio quello di reiterare con nuovi approvvigionamenti l’impiego del gas e del carbone nelle centrali (rigassificatori e revamping di centrali fossili) e l’utilizzo del petrolio nella motorizzazione, come traspare anche dalle mosse del nostro governo.

Nonostante la crescente minaccia dell’effetto serra è in atto un consolidamento dei centri di potere legati ai fossili: colossi “pubblici” che, sulla base dei loro profitti, suggeriscono al governo del proprio Paese come operare e quali alleanze stipulare. Anche in Europa il ruolo delle lobby sta avversando una svolta ancora timida verso l’autoproduzione da fonti naturali, il decentramento territoriale, il risparmio, le forme di consumo comunitarie al punto che a inizio 2023 i governi dei 27 Paesi si sono fatti riluttanti a impegnarsi per un obiettivo di rinnovabili al di sopra del 40% per il 2030.

In conclusione: nell’ambito del percorso di decarbonizzazione rapida, il tasso di installazione della capacità rinnovabile è in media di 5,9 TWp/anno dal 2020 al 2050, il 30% in più rispetto al tasso per il percorso graduale, con picchi forti negli anni 2020 a oltre 10 TWp/anno. I combustibili fossili sono virtualmente eliminati dal mix energetico entro il 2030 e la diffusione delle energie rinnovabili è successivamente alimentata dal reinvestimento (prometeico) di energia rinnovabile, mentre il livello del mare aumenta del 14% in meno rispetto alla graduale decarbonizzazione verso i +2°C (43 cm entro il 2100).

Purtroppo, il confronto tra i tre scenari riflette accuratamente l’attuale divario globale tra impegni e azioni per il clima. Mentre gli accordi internazionali affermano obiettivi di riscaldamento massimo ben al di sotto di 2 °C e idealmente di 1,5 °C, le politiche nazionali sono complessivamente più coerenti con lo scenario di transizione ritardata di ~2,7 °C, con impatti inimmaginabili per la geopolitica, l’economia e il clima.

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L’anno nero dell’energia /2 – Sul gas paghiamo il prezzo di non aver investito in transizione verde

[continua da qui]

Le conclusioni della Cop 27

Il 20 novembre, alla COP 27 di Sharm el-Sheikh, tra lo stallo dei governi e le pressioni delle lobby e dopo un’impasse tesa e molte ore di negoziati, quasi 200 paesi hanno raggiunto un accordo per istituire un fondo perdite e danni per assistere le nazioni più colpite dal cambiamento climatico – una richiesta considerata non negoziabile dai paesi in via di sviluppo. Questo però è l’unico risultato davvero significativo dell’Assise protratta tra notevoli tensioni oltre la sua scadenza prevista, dopo aver constatato l’impossibilità di far avanzare il processo avviato dopo Parigi 2015 verso il contenimento dell’aumento della temperatura del pianeta entro 1,5°C.

Ridurre gli obiettivi di Next Generation Ue?

Il confronto a tre (Commissione, Consiglio e Parlamento Ue) di inizio anno sulla tassonomia sembra ripetersi sulla riduzione dell’obbiettivo di rinnovabili al 2030, dal 45% al 40 %. I 27 ministri dell’Energia hanno trovato una maggioranza che sostiene la riduzione dell’obbiettivo, osteggiato solo da Austria, Danimarca, Estonia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Portogallo e Spagna, ma non dall’Italia. Toccherà al Parlamento organizzare una risposta per mantenere il 45% come livello da perseguire.

Ma anche la Germania sta glissando su queste aspettative: infatti è significativa la resistenza della popolazione di Lützerath, un piccolo centro della Renania, nella Germania nordoccidentale, che deve scomparire per far posto all’ampliamento di una delle maggiori miniere a cielo aperto d’Europa, che dovrebbe aumentare di 280 milioni di tonnellate l’estrazione di lignite. Malgrado le precedenti promesse di non farlo e i solenni impegni sulla riduzione delle emissioni che puntuali si rinnovano ad ogni conferenza internazionale sul clima, le istituzioni tedesche locali e nazionali hanno deciso di radere al suolo a metà di gennaio del 2023 il villaggio per continuare i processi di escavazione.

C’è solo un piccolo ostacolo: la popolazione locale – qualche migliaio di cittadini – e i movimenti territoriali non sono affatto d’accordo e hanno cominciato a fermare le solerti autorità che devono garantire la presunta inevitabile avanzata del progresso piegando brutalmente ogni resistenza.

Ccs a Ravenna?

Il nuovo ministro dell’Ambiente (più precisamente ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) Pichetto Fratin e la nuova Presidente del Consiglio Meloni fanno una gran pubblicità alla trasformazione del nostro Paese nell’Hub di distribuzione del gas per l’Europa come se fosse una idea rivoluzionaria del governo appena insediatosi. In realtà era già un progetto del governo precedente sponsorizzata da Eni, in questi mesi in odore di rinnovo del suo CdA. L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e l’amministratore delegato di Snam, Stefano Venier, hanno firmato lo scorso 19 dicembre un accordo attraverso il quale Eni e Snam, in joint venture paritetica, collaboreranno allo sviluppo e alla gestione della Fase 1 del Progetto Ravenna di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS), che prevede la cattura di 25mila tonnellate di CO2 dalla centrale Eni di trattamento di gas naturale di Casalborsetti (Ravenna). Una volta catturata, la CO2 sarà convogliata verso la piattaforma di Porto Corsini Mare Ovest e infine iniettata nell’omonimo giacimento a gas esaurito, nell’offshore ravennate. A testimonianza, quindi, di quanto il metano rimanga strategico nelle intenzioni delle burocrazie che guidano la politica energetica nazionale.

Extraprofitti e prezzo del gas

Grazie alle sanzioni, le società energetiche americane (v. Financial Times, 5 novembre 2022) hanno registrato tra aprile e settembre 2022 extra profitti per 200 miliardi di dollari, mentre le metaniere Usa navigavano davanti alle coste europee europee per scaricare quando i prezzi erano (e sono) ancora elevati. Bp, Eni, Equinor, Repsol, Shell e TotalEnergies, ovvero le sei principali oil major europee, hanno incamerato 74,55 miliardi di dollari di extra-profitti nel solo primo semestre del 2022.

E’ toccato a Starace, ad di Enel, di criticare al meeting Ambrosetti di Cernobbio l’eccessiva dipendenza del Paese dal gas. Anche queste voci autorevoli sono però oscurate dalla politica nostrana, che ha nel gas e nel possibile ripristino del carbone la carta che preferisce adottare in emergenza.

In una fase in cui vediamo le nostre bollette aumentare a dismisura, sia per effetto della speculazione finanziaria che della guerra, dobbiamo – oggi più che mai – leggere la situazione in tutta la sua enorme complessità, per non lasciare che l’emergenza e le paure di un carico insostenibile per bisogni primari siano usate per ridefinire la direzione delle politiche energetiche, gli assetti internazionali e, addirittura, il futuro del pianeta sulla base degli interessi di pochi.

Contrariamente a quello che ci viene detto, quello che viviamo oggi è il prezzo per non aver investito sulla transizione verde. Con la corsa al gas stiamo arricchendo governi autocratici quali Egitto, Azerbaigian, Algeria, Repubblica del Congo e ne stiamo avallando le drammatiche politiche repressive dei diritti umani e sociali e gettando così le basi per nuovi conflitti.

A livello europeo si è concordato che il prezzo del gas non debba scendere sotto un certo livello, per non penalizzare eccessivamente gli scambi speculativi di mercato dove viene quotato. E’ il mercato di Amsterdam (TTF) che decide il prezzo del gas, definendolo sulla base dei titoli future e non sull’effettivo scambio tra offerta e domanda. La sua recente oscillazione tra 330 euro al MWa ed il valore attuale attorno ai 100 euro al MWa è dovuta variabili contingenti, ma non si riflette immediatamente sul consumatore finale. Il regolatore europeo ha solo funzioni di coordinamento e armonizzazione ed il price cap introdotto per i valori dell’energia elettrica fissato a livello europeo è regolato al fine di evitare eccessive distorsioni prodotte dall’interscambio. E ciò non per fissare un prezzo “politico” in una fase di assoluta eccezionalità, ma per assicurare comunque margini di profitto alle compagnie Oil &Gas.

Il cambio di prospettiva

In direzione positiva, anche se criticata dai gruppi ambientalisti secondo cui l’accordo non è all’altezza di quanto necessario per mantenere l’aumento delle temperature globali al di sotto di 1,5 °C, va citata la nuova normativa UE sul Sistema per lo scambio delle quote di emissioni (ETS). La riforma degli Ets amplierà la platea dei settori interessati e ridurrà l’inquinamento del 62% entro il 2030, rispetto al 43% previsto attualmente. Il sistema Ets attuale riguarda circa 10.000 fabbriche e centrali elettriche, consentendo a chi ha quote di emissione in eccesso di realizzare un profitto più contenuto, vendendo permessi di CO2 sul mercato. Il prezzo del carbonio sarà di circa 100 euro, rispetto agli 80-85 euro attuali ed i permessi di emissione gratuiti saranno gradualmente sostituiti dalla nuova tariffa sul carbonio alle frontiere.

Ricorro, a titolo conclusivo, ad una serie di osservazioni portate con competenza da Leonardo Berlen su Qualenergia e da me condivise.
In Italia abbiamo dai tre ai cinque anni per cambiare marcia al fine di arrivare ad installare al 2030 70 nuovi GW tra fotovoltaico ed eolico, investire in reti di distribuzione e trasmissione, elettrificazione dei consumi, sistemi di accumulo di vario tipo, iniziare a rendere operativi diversi elettrolizzatori per la produzione di idrogeno verde, per non parlare della riqualificazione profonda del nostro energivoro parco edilizio. Sotto questo profilo, la realizzazione del progetto eolico e fotovoltaico di Civitavecchia assume, anche per i tempi di attuazione e per la mobilitazione che l’ha sostenuto, una funzione nazionale paradigmatica.

Sono necessari interventi su vari fronti, sia sul quello autorizzativo e normativo per allocare ingenti investimenti nella formazione di tecnici e di addetti della pubblica amministrazione nazionale e locale, sia su quello della programmazione di politica industriale che favorisca la nascita di linee produttive nazionali per sistemi e componenti essenziali nell’ambito di una manifattura oggi in crisi e da riconvertire a confronto di prodotti importati da mercati in cui gli standard ambientali sono più deboli e che altrimenti godrebbero di un vantaggio competitivo ingiusto.
Per il solo fotovoltaico si tratta di allestire e collegare in rete 8 GW all’anno, passando dai 27 TWh/anno generati oggi dal solare a 100 TWh/anno: una produzione che ci consentirebbe di evitare l’importazione di 20 miliardi di metri cubi di gas/anno. Un compito ed una sfida che anche culturalmente deve riguardare la politica l’imprenditoria, il sindacato.

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L’anno nero dell’energia e i timidi passi verso la transizione: ma le lobby sono ancora troppo forti

Se dovessimo fare un bilancio sull’avanzamento della conversione energetica nell’anno appena conclusosi difficilmente potremmo essere ottimisti, anzi! L’energia è emersa nel suo aspetto più politico, svincolandosi dal peso del solo mercato, condizionata ampiamente da un’incipiente “terza guerra mondiale a pezzi”. La stessa coesione della Ue, dimostrata al tempo del “20/20/20”, si è frantumata a fronte di una crisi energetica senza precedenti. Dodici riunioni dei ministri dell’Energia – precedute da 191 riunioni di gruppi di lavoro e ambasciatori – per coordinare la risposta dell’Europa all’aumento dei prezzi del gas e dell’elettricità hanno soltanto assunto l’impegno generico ad acquistare congiuntamente la fonte fossile ad impatto forse meno devastante e ad accelerare l’autorizzazione degli impianti di energia rinnovabile, per sostituirla in un futuro “compatibile” con i suoi effetti climalteranti.

Ma invece del “grande affare energetico europeo” di cui l’Europa aveva bisogno, i leader dell’Ue sono rimasti bloccati nella politica interna. Al di là della svolta politica, indotta dall’invasione russa dell’Ucraina, ciò che rimane è una lotta senza senso per un tetto massimo del prezzo del gas, che nella migliore delle ipotesi farà ben poco per abbassare i prezzi dell’energia e, nella peggiore, spaventerà i venditori sul mercato. Lo stanziamento comune Repower UE per la riconversione dal fossile è sostenuto con pochi soldi freschi – un misero 20 miliardi di euro prelevati dal mercato delle emissioni – e, mentre i Paesi dell’Ue sostengono a parole e con distinzioni preoccupanti le energie rinnovabili, i loro governi rimangono riluttanti a impegnarsi per un obiettivo al di sopra del 40% per il 2030.

I centri di potere legati ai fossili sono tuttora colossi pubblici che rendicontano al governo del proprio Paese del loro operato. Il ruolo delle lobby ha di conseguenza sovrastato la svolta ancora timida verso l’autoproduzione da fonti naturali, il decentramento territoriale, il risparmio, le forme di consumo comunitarie. In realtà è come se i governi e le popolazioni si trovassero su due diversi binari, mentre le vere emergenze del clima, della guerra (nucleare?), della riduzione delle libertà e dei diritti sociali si spostano nel tempo su uno sfondo geopolitico incerto.

Il 2022 anno nero per il clima

Secondo l’ultimo rapporto della Iea, nel 2022 le emissioni mondiali di CO2 aumenteranno di 330 milioni di tonnellate. Ma le tonnellate in più sarebbero state il triplo senza il contributo delle rinnovabili e della mobilità elettrica. L’incremento mondiale della di CO2 in questo anno (+1%) è stato determinato da un piccolo aumento (+1,5%) delle emissioni statunitensi e da uno più elevato di quelle indiane. Le emissioni cinesi hanno registrato invece un lieve calo (-0,9%), analogo a quello della UE (-0,8%).

Veniamo da un periodo di siccità che ha colpito l’Italia, soprattutto il centro nord, con un clima sempre più torrido e con una diminuzione massiccia della produzione agro-alimentare. Il rapporto di Legambiente registra 310 “fenomeni” che hanno provocato 29 morti. A livello territoriale il nord della Penisola è stata l’area più colpita. A livello regionale la Lombardia è la regione che registra più casi “singolari”, ben 37. Il mese di giugno, poi, ha visto una anomalia della temperatura media di +3,3°C in Italia. A luglio il record si è registrato nelle città lombarde: a Brescia e Cremona si sono misurati 39,5°C, a Pavia 38,9°C e a Milano 38,5°C. Ne hanno mai parlato Salvini o Fontana? Senza risorse è impossibile ripensare la città. Come garantiamo, di conseguenza, ad agricoltura e allevamento le opportunità per diversificare le attività? Come promuoviamo la vivibilità per i cittadini e la sopravvivenza delle attività produttive?

Per quanto riguarda il mare che lambisce le nostre coste, va detto che sono uno dei pozzi di carbonio più preziosi al mondo. Sono le distese di acqua salata a catturare e trattenere circa 1/3 dell’anidride carbonica emessa dall’uomo ogni anno in atmosfera. Tuttavia, questo ruolo di “carbon sink” scricchiola sotto il peso del riscaldamento globale. Oceani più caldi renderanno “più difficile per il carbonio organico trovare la strada per essere sepolto nel sistema sedimentario marino”. Eppure a Ravenna l’Eni conta di poter seppellire in mare la CO2 sequestrata dai suoi impianti!

La crisi pandemica, i lockdown, il caro energia e di materie prime con un’inflazione a due cifre, la guerra in Ucraina, i rischi sempre più concreti di sicurezza sulle forniture, gli eventi climatici sempre più estremi, sono tra loro interdipendenti e il cambio di paradigma energetico assume un ruolo molto rilevante: basta pensare che l’Italia ha speso nel 2022 circa 75 miliardi di euro in più per l’energia rispetto alla media dei 10 anni precedenti. Una cifra comparabile con gli investimenti per lo sviluppo delle fonti rinnovabili in base agli obbiettivi europei assegnatici dalla Ue al 2030.

La guerra in Ucraina e la sostituzione del gas russo

Certamente la data del 24 febbraio ha impresso un punto di svolta determinante, ma già con l’inizio dell’anno, dopo l’approvazione della tassonomia europea che rendeva “green” il gas e il nucleare, si è realizzata una prima ferita alla completa decarbonizzazione del sistema elettrico, da conseguire entro metà secolo nella Ue.

Con l’eliminazione delle importazioni di gas dalla Russia, resa ancor più definitiva dopo la distruzione dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 (avvenuta lo scorso 26 settembre), l’Europa ha tagliato i ponti dietro se stessa, ricorrendo ad un maggiore impiego del carbone ed alla riconferma del nucleare assieme ad una corsa forsennata a trovare nuovi canali di rifornimento di metano. Pur tuttavia, nello stesso tempo, è stato incrementato l’apporto delle rinnovabili di 39 TWh in più rispetto al 2021 (+13% su base annua), con il primato del Portogallo che ha alzato dal 58 all’80% la quota di rinnovabili elettriche da raggiungere nel 2026, mentre l’Italia è per ora rimasta sostanzialmente al palo di una incerta progettazione di eolico e fotovoltaico in mare.

Nell’immediato, il nostro governo ha deciso di cercare nuovi partner e nuove condotte per il metano e di mettere in opera due nuovi rigassificatori galleggianti per l’acquisto nei prossimi anni di gas liquido (GNL). Un’operazione giustamente contestata per l’aspetto strutturale che sottende: il ciclo del GNL è molto inquinante. Passa infatti da estrazioni rovinose, dal successivo processo di liquefazione, dal trasporto via mare a lunga distanza in grandi navi, dalla necessaria rigassificazione e dall’aggancio finale ai tubi dei gasdotti locali. In pratica, il governo ricorre ad un potenziamento non temporaneo delle infrastrutture fossili, reso evidente dall’annuncio di progetti di 2.000 km di nuove pipeline, il 18% in più rispetto all’esistente. Risulta così ancor più rilevante la dispersione in atmosfera di quantità di CH4 puro, fortemente climalterante.

Ci si affida quindi alla carta del GNL il cui limite operativo non dipende da fattori tecnologici, ma dalle infrastrutture che sono rappresentate, dal numero di navi gasiere disponibili sul mercato e dai terminali di liquefazione (in partenza: Usa e Qatar) e di rigassificazione (in arrivo: Piombino e Ravenna in primo luogo). La costruzione di altri gasdotti e di approdi alle metaniere, quando il mondo ha bisogno di abbandonare urgentemente i combustibili fossili è una tendenza più che preoccupante e non solo per il nostro Paese.

L’illusione del nucleare e il miraggio della fusione

Roberto Cingolani sul Corriere del 31 dicembre proclama: “Nucleare niente pregiudizi, il futuro passa da qui: armi ed energia sono cose diverse”. Buon per lui. Che il prossimo decennio sia decisivo per la storia umana lo scrive nell’introduzione il documento in 80 pagine sulla strategia di difesa Usa (DNS), centrato in gran parte sull’impiego dell’arma nucleare e sulla supremazia tecnologica del Pentagono. Geopolitica al top e biosfera e natura retrocesse a preda del vincitore.

Una simile distorsione nell’interpretare l’epoca attuale comporta un arretramento di civiltà, un colpevole spreco di risorse necessarie alla sopravvivenza, la predisposizione alla guerra come soluzione della “concorrenza” tra blocchi in corsa per l’egemonia globale. In un simile contesto è l’energia che la fa da padrone, anche sotto la forma più incontrollabile delle armi. In questo quadro “scosso” è facile far scivolare l’opinione pubblica verso il nucleare civile, da fissione o fusione che sia, raccontato come praticabile e difendibile quanto l’uso incontenibile delle armi, fino ad un sommesso “sdoganamento” dell’atomica.

In un contesto così alterato prende corpo il miraggio della fusione, un’energia come quella che proviene dal sole (ma ad una distanza di 150.000 km!) che nell’esperimento propagandato a Livermore non tiene conto del divario incolmabile tra il risultato dell’accensione e l’energia necessaria per il pareggio del dispositivo. Questo modo di procedere e di spacciare per ingegnerizzabile e commerciabile in anni vicini un esperimento di prevalente destinazione militare, ha instaurato tra scienza e tecnologia un processo politico di decisione e informazione dei cittadini con l’obbiettivo di mettere sotto il tappeto quel “non c’è più tempo”, che invece è ormai patrimonio del senso comune ed ha a portata di mano la rivoluzione delle rinnovabili.

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L’articolo L’anno nero dell’energia e i timidi passi verso la transizione: ma le lobby sono ancora troppo forti proviene da Il Fatto Quotidiano.