In un lungo e documentato articolo, un gruppo di scienziati e tecnici statunitensi del Pnas valuta il rischio pagato in adattamento e aggravamento climatico in funzione della rapidità con cui si rendono operative le fonti rinnovabili per abbattere le emissioni fossili. Il testo, ricco di grafici e di tabelle, rileva come non sia stato ancora sufficientemente discusso un bilancio relativo alla quantità di energia e materiali “sporchi”, che continueranno a causare inquinamento e surriscaldamento anche solo per costruire e rendere operativi nuovi impianti alimentati da acqua, sole e vento, oltre ad allestire batterie, nuovi sistemi di reti elettriche locali, fino a barriere costiere a riparo dell’innalzamento dei mari.
Solitamente non si prende in considerazione quanta CO2 e quanto CH4 “non contabilizzato” occorreranno per modificare a fondo, trasformandolo, l’attuale sistema energetico. In effetti, la decarbonizzazione che viene fissata per obbiettivi da raggiungere in vari stadi da qui al 2100, va contabilizzata puntualmente tenendo anche conto di una quota di emissioni dovute all’impiego di fossili necessari– almeno all’inizio – per costruire i nuovi impianti. In sostanza, la diffusione delle rinnovabili si traduce in una domanda di energia per tutto il 21° secolo, inizialmente soddisfatta principalmente dai combustibili fossili, poi sempre più dalle fonti rinnovabili stesse, diventate, secondo la definizione di Georgescu Roegen, finalmente “prometeiche”.
I diversi pericoli del cambiamento climatico indotto dall’uomo richiedono due grandi sforzi a livello internazionale:
1) Ridurre le emissioni di gas a effetto serra (Ghg) in misura sufficiente a mantenere il riscaldamento al di sotto di un limite prefissato;
2) Adattare le infrastrutture e le altre attività umane al cambiamento che ne risulta in base al limite effettivamente raggiunto. Per ottenere una previsione quantitativa affidabile dei risultati di tali sforzi occorre, in primo luogo, stimare l’effetto delle emissioni di Co2 del settore energetico attuale con cui si ottiene una costruzione di massa di capacità di generazione di elettricità rinnovabile (anche la più rapida diffusione di energie rinnovabili richiede emissioni di climalteranti dovute all’impiego delle fonti fossili con cui attualmente vengono fabbricate). In secondo luogo, va valutato come e quanto il riscaldamento climatico dovuto alle emissioni storiche e nel futuro – il più prossimo possibile – renderà necessario il raffreddamento degli ambienti in nuove regioni e aumenterà la durata e l’intensità del suo ricorso a livello globale;
3) In terzo luogo, va preso in considerazione l’innalzamento del livello del mare causato dalle emissioni storiche e future, che richiederà la costruzione di difese contro le inondazioni e il trasferimento di alcuni insediamenti costieri.
In definitiva, ciascuno di questi tre interventi richiederà energia per essere approntato e funzionare e, poiché la capacità rinnovabile è attualmente insufficiente, questa energia che definiamo “incorporata” deve essere inizialmente alimentata da combustibili fossili con conseguenti emissioni di CO2 incorporate. Dallo studio citato emerge come fattore decisivo l’abbreviamento dei tempi di sostituzione dei combustibili fossili che, se non drammaticamente accelerati entro il 2025 e praticamente conclusi entro il 2050, porterebbero a un innalzamento della temperatura del Pianeta oltre 2.7°C a fine secolo.
L’analisi del Pnas fornisce una stima dettagliata delle emissioni di CO2 incorporate, che potrebbero derivare dalla mitigazione e dall’adattamento durante la transizione climatica per gli anni dal 2020 al 2100. Per farlo vengono quantificate primariamente e come riferimento le emissioni incorporate nella transizione in un percorso energetico e climatico futuro graduale e coerente con una ipotesi di aumento della temperatura di +2 °C. Quindi, si confrontano queste emissioni incorporate in uno scenario rapido (1,5 °C) e in uno ritardato (2,7 °C).
Per quanto riguarda i risultati a fine secolo, la rapidità di sostituzione delle fonti fossili risulta rilevantissima. Avendo preso a riferimento un percorso di decarbonizzazione graduale che limiti il riscaldamento a 2 °C (limite che molto probabilmente rischieremo di superare), gli interventi selezionati relativi all’adattamento (coibentazioni degli edifici, dighe sui litorali, arretramenti di insediamenti etc.) emetteranno ~1,3 GtCO2 fino al 2100, mentre le emissioni derivanti dall’energia utilizzata per distribuire la nuova capacità rinnovabile sono assai rilevanti: ~95 GtCO2. Insieme, queste emissioni equivalgono a oltre 2 anni delle attuali emissioni globali e all’8,3% del restante budget di carbonio per non superare i 2 °C.
Le emissioni di transizione incorporate totali vengono invece ridotte di circa l’80% (a 21,2 GtCO2) con un percorso rapido che limita il riscaldamento a 1,5 °C, con un picco nel 2025 a 3,8 GtCO2/anno prima di diminuire drasticamente, mentre raddoppiano (all’incirca a 185 GtCO2) in un percorso ritardato, purtroppo coerente con le politiche attuali e corrispondente a 2,7 °C di riscaldamento entro il 2100.
Ne segue che, in risposta alle guerre già intrinsecamente climalteranti, sia un pessimo annuncio quello di reiterare con nuovi approvvigionamenti l’impiego del gas e del carbone nelle centrali (rigassificatori e revamping di centrali fossili) e l’utilizzo del petrolio nella motorizzazione, come traspare anche dalle mosse del nostro governo.
Nonostante la crescente minaccia dell’effetto serra è in atto un consolidamento dei centri di potere legati ai fossili: colossi “pubblici” che, sulla base dei loro profitti, suggeriscono al governo del proprio Paese come operare e quali alleanze stipulare. Anche in Europa il ruolo delle lobby sta avversando una svolta ancora timida verso l’autoproduzione da fonti naturali, il decentramento territoriale, il risparmio, le forme di consumo comunitarie al punto che a inizio 2023 i governi dei 27 Paesi si sono fatti riluttanti a impegnarsi per un obiettivo di rinnovabili al di sopra del 40% per il 2030.
In conclusione: nell’ambito del percorso di decarbonizzazione rapida, il tasso di installazione della capacità rinnovabile è in media di 5,9 TWp/anno dal 2020 al 2050, il 30% in più rispetto al tasso per il percorso graduale, con picchi forti negli anni 2020 a oltre 10 TWp/anno. I combustibili fossili sono virtualmente eliminati dal mix energetico entro il 2030 e la diffusione delle energie rinnovabili è successivamente alimentata dal reinvestimento (prometeico) di energia rinnovabile, mentre il livello del mare aumenta del 14% in meno rispetto alla graduale decarbonizzazione verso i +2°C (43 cm entro il 2100).
Purtroppo, il confronto tra i tre scenari riflette accuratamente l’attuale divario globale tra impegni e azioni per il clima. Mentre gli accordi internazionali affermano obiettivi di riscaldamento massimo ben al di sotto di 2 °C e idealmente di 1,5 °C, le politiche nazionali sono complessivamente più coerenti con lo scenario di transizione ritardata di ~2,7 °C, con impatti inimmaginabili per la geopolitica, l’economia e il clima.
L’articolo Anche la decarbonizzazione produrrà CO2. Il fattore decisivo? I tempi proviene da Il Fatto Quotidiano.