24 maggio: Giorno del Sovrasfruttamento ecologico dell’Italia

Il 24 maggio è il Giorno del Sovrasfruttamento ecologico dell’Italia: la data in cui le risorse naturali del nostro pianeta si esaurirebbero se tutti vivessero come gli italiani

Il Global Footprint Network e la Fondazione Monte dei Paschi di Siena lanciano il Footprint Calculator italiano.

Secondo i dati del Global Footprint Network, un’organizzazione internazionale di ricerca ambientale se tutta la popolazione mondiale avesse lo stesso stile di vita e gli stessi consumi degli italiani, il Giorno del Sovrasfruttamento della Terra cadrebbe il 24 maggio.

Il “Giorno del Sovrasfruttamento della Terra” indica per ogni anno la data in cui l’umanità ha finito di consumare tutte le risorse che il nostro pianeta è in grado di produrre in quell’anno: questi calcoli sono basati sull’indicatore ambientale detto “Impronta ecologica”.
L’Impronta ecologica misura la domanda annuale dell’umanità di risorse naturali e può essere confrontata con la biocapacità, che misura la capacità della Terra di rigenerare tali risorse in un anno.
Il Giorno del Sovrasfruttamento della Terra per l’Italia è calcolato attribuendo l’Impronta ecologica di un Italiano medio a tutta la popolazione mondiale e quindi confrontandola con la biocapacità globale.

“Se tutti gli abitanti della Terra consumassero le risorse come fanno gli Italiani, avremmo bisogno di 2,6 pianeti Terra”, ha dichiarato Mathis Wackernagel, Ph.D., CEO e co-fondatore del Global Footprint Network. “Ma chiaramente abbiamo solo una Terra a disposizione, e non adattarsi ai suoi limiti diventa un rischio per tutti noi. Se il nostro pianeta ha dei limiti, l’ingegno dell’uomo sembra non averne. Vivere secondo le capacita del nostro pianeta di sostenerci è tecnologicamente possibile, economicamente vantaggioso ed è la nostra unica possibilità per un futuro più florido. Costruire un futuro sostenibile per tutti deve essere la nostra priorità “.

Quasi ogni anno, il Giorno del Sovrasfruttamento cade sempre prima nel calendario e questo succede a partire dai primi anni ’70, quando l’umanità ha iniziato a vivere in deficit ecologico.  Gli effetti del deficit ecologico globale stanno diventando sempre più evidenti in forma di deforestazione, erosione del suolo, perdita degli habitat naturali e della biodiversità, accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera e cambiamento climatico.

Con un valore pro capite di 4,3 ettari globali (o gha), noi Italiani abbiamo un impronta ecologica decisamente superiore alla media Mediterranea (3.2 gha pro capite), sebbene inferiore a quella dei Francesi (4,7 gha pro capite), e maggiore di quella degli Spagnoli (3,8 gha pro capite). Tutto ciò è dovuto principalmente al settore dei trasporti e al consumo di cibo. Agire su queste due sfere di attività quotidiane darebbe quindi le più alte possibilità di invertire la tendenza e ridurre l’impronta degli italiani.

L’odierno lancio della versione italiana del Footprint calculator consente agli italiani di scoprire come le proprie attività quotidiane influenzino la loro impronta ecologica, ovvero il consumo di risorse naturali. Il Global Footprint Network ha lanciato il nuovo Footprint Calculator su www.footprintcalculator.org/it in collaborazione con la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, fondazione toscana di origine bancaria che svolge attività filantropica a servizio della propria comunità di riferimento.

“Speriamo che il nuovo Footprint Calculator italiano diventi uno strumento utile per aumentare la consapevolezza sulla sostenibilità tra studenti, genitori e insegnanti coinvolti nei nostri programmi
educativi, come sCOOL FOOD e il progetto di cittadinanza globale FMPS”, ha dichiarato Davide Usai, CEO di FMPS. “Crediamo fermamente che il Calculator sia un potente strumento per consentire a sempre più persone in Italia di cercare soluzioni per la sostenibilità.”

L’Impronta ecologica di una persona rappresenta la misura di superficie di pianeta produttiva necessaria a fornire tutto ciò che la persona stessa richiede alla natura, compresi la produzione di cibo, fibre e legno, le aree per le infrastrutture urbane e l’assorbimento delle emissioni di anidride carbonica dovute all’utilizzo di combustibili fossili.

Oltre a misurare l’impronta ecologica di un individuo, lo strumento presentato oggi consente agli utenti di determinare il proprio Giorno del Sovrasfruttamento della Terra, ovvero la data in cui le risorse che il pianeta produce in un intero anno verrebbero esaurite se tutta la popolazione mondiale vivesse secondo il suo stile di vita. Nel 2017, il Giorno del Sovrasfruttamento della Terra è stato il 2 agosto, quindi se il Giorno del Sovrasfruttamento di un utente cade prima del 2 agosto significa che la sua impronta personale sulla natura è superiore alla media globale. Se invece cade prima del 24 maggio significa che l’impronta di quell’utente è superiore a quella di un italiano medio.

Divertente e dinamico, il Footprint Calculator esorta inoltre gli utenti a posticipare il loro personale Giorno del Sovrasfruttamento nel calendario, facendo comprendere la responsabilità che essi hanno rispetto alla loro personale impronta ecologica, suggerendo soluzioni di sostenibilità e incitandoli a condividere questi risultati sui social media con l’hashtag #MoveTheDate.

Oltre 1 milione di persone in tutto il mondo, tra cui un grande numero di studenti ed insegnanti, hanno utilizzato il Footprint Calculator del Global Footprint Network da quando è stato lanciato il 2 agosto dello scorso anno nella nuova versione ottimizzata per dispositivi mobili.

Il Calculator si basa sulla metodologia e sui dati più aggiornati del Global Footprint Network, che si occupa di misurare l’impronta ecologica e la biocapacità di oltre 200 nazioni e regioni dal 1961 ad oggi. I risultati di questi calcoli, basati sui dati delle Nazioni Unite, sono disponibili gratuitamente sulla piattaforma online disponibile all’indirizzo data.footprintnetwork.org.

Il contratto Salvini-Di Maio ignora il clima e i target di Parigi

di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

Con una lettera aperta pubblicata dal Financial Times perfino le società petrolifere riconoscono che devono fare di più per combattere il cambiamento climatico. Arrivando ad «assumere la responsabilità di tutte le emissioni» di gas serra, comprese quelle prodotte dall’impiego di combustibili fossili, come la benzina per le auto o il gas con cui scaldiamo le nostre case. A chiederlo è un gruppo di 60 grandi investitori- fondi, banche e assicurazioni, che insieme gestiscono più di 10.400 miliardi di dollari e che alzano la pressione sulle major a livelli senza precedenti proprio a pochi giorni dalle assemblee degli azionisti, in cui l’ambiente promette di essere un tema centrale.

La Royal Dutch Shell voterà una mozione che chiede un taglio più aggressivo delle emissioni di CO2 rispetto al dimezzamento a cui il management «ambisce» entro il 2050. Nonostante le riserve, si sono schierati a favore anche la Church of England e il fondo pensioni dell’Agenzia per l’ambiente britannica. Il testo afferma che «a prescindere dal risultato all’assemblea di Shell» tutte le compagnie del settore dovrebbero «chiarire come vedono il loro futuro in un mondo low-carbon». La richiesta in particolar e è che le Major assumano «impegni concreti» per ridurre in modo significativo la CO2, per stimare l’impatto delle emissioni legate all’impiego dei combustibili che producono e per «spiegare come i loro investimenti siano compatibili con il percorso verso gli obiettivi di Parigi», che impegnano a contenere il riscaldamento globale almeno entro 2° C. Sono ormai diversi anni che il mondo della finanza ha preso coscienza dei rischi legati al cambiamento climatico: rischi non solo per l’ambiente, ma anche per gli investimenti stessi

Il 2018 è l’anno in cui dovrebbero essere realizzate le prime bozze dei Piani Energia e Clima, gli strumenti con cui i Paesi Membri dell’Unione Europea dovranno mostrare le politiche e le strategie per raggiungere gli obiettivi fossati per il 2030 e che, per l’Italia, rappresentano l’occasione per dare concretezza a quanto scritto nella Strategia Energetica Nazionale (SEN), predisposta oramai da quasi un anno.

Della SEN in verità, al di fuori degli addetti ai lavori e della stampa specializzata, se ne è parlato poco. Probabilmente non a torto perché si tratta di un documento che ha solo valore di indirizzo, approvato da un governo in scadenza, quasi un lascito a quello successivo per la sua messa in pratica. È comprensibile quindi che dopo la sua approvazione, l’ad di Enel Starace, rispondendo ai giornalisti abbia detto che “abbiamo la direzione ma non ci sono stati dati strumenti per arrivare agli obiettivi indicati”. (Vedi “Stop al carbone al 2025, Starace: vanno indicati gli strumenti”, Staffetta quotidiana del 22 novembre 2017).

Il tema di cui si era dibattuto era soprattutto quello della chiusura delle centrali a carbone entro il 2025, decisione che porrebbe qualche problema all’impianto di Torrevaldaliga nord, avviato nel 2009 e che quindi avrebbe bisogno di qualche anno ancora dopo il 2025 per ammortizzare l’investimento. La realtà però è che la politica si muove più lenta delle imprese perché il ministero ancora non ha dato l’ok a dismettere la centrale di umbra di Bastardo, che Enel ha deciso da tempo di non utilizzare più.

La SEN, ricordiamolo, prevede una decarbonizzazione completa (ossia chiusura di tutte le centrali a carbone) entro il 2025, produzione con fonti rinnovali del 55% dei consumi elettrici (quindi significa arrivare a generare 184 miliardi di chilowattora l’anno con le FER) e riduzione dei consumi finali di energia dell’1,5% annuo fra il 2021 e il 2030.

Qual è la realtà?

La realtà è che i consumi non scendono, nel 2017 i consumi di energia primaria sono aumentati dello 0,8% rispetto al 2016. Di positivo è da segnalare che sono aumentati della metà rispetto all’aumento del PIL, che nel 2017 è cresciuto dell’1,5%. I consumi finali di energia sono invece aumentati dell’1,3% circa, dunque in misura di poco inferiore all’aumento del PIL, per citare ENEA: “un segnale che nella forte contrazione dei consumi di energia dell’ultimo decennio l’auspicato disaccoppiamento tra crescita economica e consumi energetici ha avuto un ruolo meno rilevante di quello avuto dalla crisi economica”.

Nel 2017 si è consolidato il ruolo del gas naturale come prima fonte primaria del sistema energetico italiano, coprendo il 36,5% del totale. Per il terzo anno consecutivo i consumi sono aumentati in modo significativo (+6%, dopo il +5% del 2016. I consumi di petrolio sono invece diminuiti di un punto percentuale, il carbone presenta per il secondo anno consecutivo un calo in doppia cifra (-12% dopo il -10% del 2016) e si riduce al 6% del mix.

E le fonti rinnovabili? Per il terzo anno consecutivo sono in calo! L’aumento del solare e dell’eolico non hanno compensato la perdita dell’idroelettrico. Più volte abbiamo sostenuto che un sistema basato su queste fonti deve prevedere un mix dimensionato in modo da rendere complementari le fonti, e in Italia solare ed eolico sono fortemente sottodimensionate se si vuole che siano in grado di supplire all’acqua negli anni di siccità. Il risultato è stato l’aumento della generazione termoelettrica: +4,6% (dopo il +4,3% del 2016 e il +9,4% del 2015), che ha raggiunto i massimi degli ultimi cinque anni.

Le FER hanno generato 103 TWh di elettricità (107 TWh del 2016, -3,4). È dunque scesa anche la quota di fonti rinnovabili sulla domanda, che ha perso due punti percentuali (dal 34,1% del 2016 al 32,3% del 2017). Anche la massima produzione da fonti rinnovabili su base mensile è rimasta lontana sia dal valore massimo raggiunto nel 2016 sia dai storici: nel 2017 il valore più elevato è stato raggiunto a maggio, con una quota pari al 39%, la più bassa degli ultimi cinque anni.

Questi pochi numeri mostrano come la rivoluzione energetica sia ferma, mostrano che gli obiettivi della SEN al momento sono delle chimere: dal 2015 al 2030 per raggiungerli la generazione da FER dovrebbe aumentare del 70% , dovremmo cioè raddoppiare la potenza fotovoltaica installata oggi, mettendo in opera 2,3 GW l’anno, ma nel 2017 (nonostante sia stato un anno di crescita) ne abbiamo installati solo 0,4 GW, come colmare il gap?

Fonte: www.energystrategy.it

I dati delle istallazioni dei primi tre mesi 2018 sono impietosi: fotovoltaico, eolico e idro non hanno superato i 138 MW, con un calo del 5% rispetto al primo trimestre 2017. Nessuna accelerazione all’orizzonte quindi.

Fonte: Anie Rinnovabili

Cosa scoveremo dal cilindro per implementare la SEN? Cosa scriverà il nuovo governo nel Piano per l’Energia e il clima? Il contratto di governo Di Maio – Salvini appare estremamente deludente, clima ed energia emergono (o meglio scompaiono) come problemi molto secondari.

La parola clima non è mai citata, compare il termine “cambiamento climatico” solo nella parte finale della sezione intitolata “Ambiente, green economy e rifiuti zero” (il che già stupisce), “In tema di contrasto al cambiamento climatico sono necessari interventi per accelerare la transizione alla produzione energetica rinnovabile e spingere sul risparmio e l’efficienza energetica in tutti i settori”; una frase così generica da essere perfetta forse per un programma elettorale non di certo per un programma di governo. E la parola “fonti rinnovabili” compare una sola volta in tutto il testo, sempre nelle righe finali di questa sezione: “È necessario avviare azioni mirate per aumentare l’efficienza energetica in tutti i settori e tornare ad incrementare la produzione da fonti rinnovabili, prevedendo una pianificazione nazionale che rafforzi le misure per il risparmio e l’efficienza energetica e che riduca i consumi attuali”. Impossibile commentare, manca qualsiasi elemento di concretezza.

Nessuna citazione sul decreto per le rinnovabili abbozzato dal ministero, nessun chiarimento se davvero per effetto della flex tax scompariranno tutte le detrazioni in vigore (senza le quali le installazioni casalinghe di pannelli fotovoltaici sparirebbero perché i tempi di payback praticamente raddoppierebbero), niente su come rinnovare il parco eolico, sul tema batterie, sulle comunità energetiche, sulla questione che si trascina da anni dello sblocco dei sistemi di distribuzione chiusa per dare la possibilità di fornire elettricità generata da un impianto rinnovabile, al altre utenze contigue. Niente su questa benedetta SEN o sul piano per il clima, quasi fossero affari che riguardano solo la povera e misera Europa.

Insomma al momento il piatto è davvero vuoto. Il clima invece non sta fermo, le centrali termoelettriche continuano a bruciare, così come i motori endotermici. Viviamo tempi esigenti, non frustriamo la nostra intelligenza: clima e ambiente sono uno dei nostri maggiori problemi, insieme alle diseguaglianze sociali. Come scrisse papa Francesco nella Laudato sì. L’avranno letta?

Dichiarazione del Movimento europeo per l’acqua dopo il FAMA di Brasilia

Dal 17 al 22 marzo 2018, una delegazione di circa 20 membri del Movimento Europeo dell’Acqua, ha partecipato al Forum Mondiale Alternativo sull’Acqua (FAMA, Foro Alternativo Mundial da Agua) a Brasilia: l’alternativa concreta al World Water Forum, organizzato dal World Water Council, che rappresenta la voce delle multinazionali e della Banca Mondiale.

Movimenti sociali, sindacati, comunità locali, gruppi femministi e popoli indigeni si sono riuniti per combattere le multinazionali che vogliono trasformare l’acqua in una merce e promuovere la finanziarizzazione dei sistemi idrici e degli ecosistemi, privatizzando le risorse e mercificando un diritto umano.

Il FAMA è stato un evento caldo e pieno di speranza, che ha riunito 7000 attivisti provenienti da diversi luoghi e facilitato lo scambio di sfide, esperienze e soluzioni. Ancora una volta è stata confermata l’importanza di approfondire e rafforzare le posizioni e le connessioni tra movimenti sociali, sindacati, popolazioni indigene e comunità locali. È emerso inoltre quanto sia cruciale concentrarsi sulle lotte delle donne contro la privatizzazione della natura e il patriarcato.

Nel frattempo, le multinazionali e gli Stati riuniti nel “forum delle multinazionali ” hanno affermato che stanno cercando azioni positive sull’acqua, come affermato nella Dichiarazione ministeriale. Tuttavia, la loro azione non va decisamente nella direzione di una sincera promozione del riconoscimento e dell’attuazione del diritto umano all’acqua.

La deforestazione, l’agroindustria e il progetto idroelettrico non sono nemmeno menzionati nella Dichiarazione ministeriale, ma l’impatto dell’agroindustria e dell’ accaparramento delle fonti idriche sono una delle preoccupazioni fondamentali per le popolazioni indigene, i piccoli agricoltori e i movimenti di base. In effetti, le conseguenze dell’agroindustria, come ampiamente discusso durante la FAMA, sono catastrofiche: fiumi inquinati, livelli di acquiferi in declino, scomparsa di sorgenti, minaccia al regime idrico, siccità legate alla deforestazione. L’agricoltura familiare e la pesca sono messe in discussione, hanno luogo sempre piu’ sfratti forzati, la terra è monopolizzata, i biotopi sono in pericolo.

Tutto ciò a vantaggio di grandi banche o fondi pensione in Olanda, Svezia o Germania i cui beneficiari spesso non sono consapevoli che la loro pensione causa la violazione dei diritti umani delle popolazioni indigene e la distruzione dell’ambiente.

I partecipanti al forum delle imprese hanno insistito sulla necessità di “rispettare il diritto di ogni essere umano, indipendentemente dalla condizione e luogo di vita, alla sicurezza dell’acqua potabile ed ai servizi igienico-sanitari come diritti umani fondamentali”, ma mirano a farlo attraverso una cooperazione impossibile tra settore pubblico e quelli interessati dalla privatizzazione. Tale “cooperazione” non esisterà mai!

In effetti, la Dichiarazione ministeriale menziona a malapena il riconoscimento del diritto umano all’acqua di cui alla risoluzione ONU 64/292. Non a caso, infatti, tale diritto non è ancora goduto in nessuna parte nel mondo e l’accesso all’acqua è ancora subordinato alla logica di trasformare un diritto umano in una questione di accessibilità economica, fondata sul ruolo del settore privato nella presunta applicazione di un tale diritto.

Certamente, la parola privatizzazione non è nemmeno menzionata nella Dichiarazione ministeriale, mentre tutti quelli che si sono riuniti al FAMA ripetutamente e chiaramente hanno affermato che questo è il problema cruciale che colpisce le persone in tutto il mondo.

Denunciando la privatizzazione e finanziarizzazione della natura da parte delle società e delle istituzioni finanziarie multilaterali, la dichiarazione finale della FAMA ha descritto l’impatto di queste politiche sulla natura (e più in generale sulle disuguaglianze sociali) e le loro responsabilità in materia di criminalizzazione, minacce e uccisioni di difensori dei diritti ambientali.

Il FAMA ha denunciato le violazioni dei diritti umani all’acqua, ma ha anche promosso alternative efficaci, dall’agroecologia su piccola scala alle partnership pubblico-pubblico e pubblico-comunitario.

L’EWM ha contribuito all’ampio dibattito facendo conoscere le esperienze di lotta europee ed ha sottolineato come l’impatto negativo della mercificazione dell’acqua e della privatizzazione sia una preoccupazione condivisa.

Come EWM ci ispiriamo alla lotta del movimento dell’acqua in America Latina ed in Brasile e torniamo nei nostri territori convinti che rafforzare la cooperazione sia fondamentale per combattere la privatizzazione e ottenere giustizia idrica. Le nostre lotte sono intrecciate. Non solo perché, come tutti sappiamo, la maggior parte delle maggiori multinazionali responsabili della privatizzazione e l’accaparramento d’acqua hanno il loro quartier generale in Europa, ma ancor più per l’importanza cruciale che le risorse idriche, ad esempio l’acquifero Guarani, hanno a livello globale.

Combattiamo lo stesso nemico, che implementa politiche simili con diverse “facce” sia nel Nord Globale che nel Sud Globale. Quindi, dobbiamo condurre queste lotte sia a livello locale, nelle nostre comunità in una prospettiva globale. Le politiche di privatizzazione dell’acqua e di accaparramento dell’acqua sono elementi insiti nel capitalismo neoliberista, basato sullo sfruttamento della natura, delle persone e dei corpi (e ancora di più delle donne!). Dobbiamo rispondere insieme, costruendo alleanze e strategie.

Come ribadito al FAMA l’acqua è un bene comune e garantisce la vita dei popoli e degli ecosistemi. Deve essere protetto dallo sfruttamento, dall’accaparramento e garantito come diritto umano nelle leggi e nelle pratiche (anche attraverso politiche di non discriminazione, trasparenza, solidarietà e sostenibilità).

Così come si riconosce la sacralità dell’acqua nelle sue diverse forme e l’importanza della saggezza e delle pratiche tradizionali che devono essere difese come parte di questa lotta, radicata nella vita dei territori e dei popoli.

Come EWM ci uniamo alla lotta di tutti coloro che denunciano le politiche neo-liberiste e la complicità tra le élite politiche ed economiche che agiscono a favore della mercificazione e della privatizzazione dell’acqua. La partecipazione dei cittadini, delle comunità e dei popoli è una componente cruciale per una gestione democratica delle risorse idriche. Questa si basa sull’uguaglianza e sulla cooperazione, ma anche sull’accesso alle informazioni e agli strumenti di partecipazione. Se fossero sinceri nello loro sforzo per trovare azioni positive sull’acqua, i governi dovrebbero sostenere una gestione del bene comune acqua veramente democratica e pubblica ed agire nel rispetto delle disposizioni internazionali sui diritti umani che garantiscono il godimento del diritto umano all’acqua, proteggendo le popolazioni (in particolare le comunità indigene) dalla pressione commerciale e dall’accaparramento rispettando i diritti dei lavoratori.

La mercificazione dell’acqua è una parte delle strategie neoliberiste predatorie, è ingiusta e insostenibile, ed è anche illegale:

Água é direito, não mercadoria!

Trump, i dazi imposti alla Cina hanno a che fare con la vendita di Shale gas

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Donald Trump ci sta abituando a isolare singoli prodotti dell’ampio spettro commerciale per giustificare ritorsioni laddove i prodotti fatti in casa subiscono una più aspra concorrenza. Da questo punto di vista i pericoli non vanno sottovalutati, perché tra sanzioni, ritorsioni, dazi, il mondo si prepara a conflitti via via più insanabili e tutti a spese dei Paesi più indigenti.

Nell’ultimo post ho voluto ricondurre l’attenzione al gas e al petrolio, tradizionali “dominus” di tutte le guerre virtuali, commerciali e – soprattutto – autentiche dei secoli industriali. Ora vorrei mettere in luce come tutti gli scambi energetici smussati sotto Barack Obama siano diventati fonte di grande tensione sotto Trump.

Secondo il segretario al Commercio degli Stati Uniti Wilbur Ross, il gas naturale liquefatto (Lng o Gnl) sarebbe una delle soluzioni per ridurre il deficit commerciale della Cina con gli Stati Uniti. Infatti, in un’intervista con Bloomberg TV, Ross ha suggerito che la Cina potrebbe deviare i suoi acquisti di Gnl verso gli Stati Uniti al fine di non solo diversificare le sue fonti di Lng ma anche ridurre il deficit, che ha raggiunto 375 miliardi di dollari l’anno scorso.

Quanto Lng potrebbe davvero e in effetti contribuire a risolvere il problema e quanto non entrerà nella trattativa sulla riduzione dei dazi e dell’acciaio asiatico? Facciamo qualche conto.

Quest’anno la Cina consumerà 44 milioni di tonnellate (MMt) di Gnl, il doppio della capacità di esportazione degli Usa verso tutti i Paesi (che è di 22 MMt). Se la Cina acquistasse per intero il gas americano, ciò rappresenterebbe 6,7 miliardi di dollari di entrate (ipotizzando un prezzo Lng di 3$ + 115% di Henry Hub, che è il prezzo attualmente utilizzato dagli Lng degli Stati Uniti). In base a questa quantità proposta il deficit si ridurrebbe al 2%.

Si noti che Henry Hub è un hub di distribuzione sul sistema di gasdotti a Erath, in Louisiana, di proprietà di Sabine Pipe Line Llc, una controllata di En Link Midstream Partners Lp che ha acquistato il bene da Chevron Corporation nel 2014. A dimostrazione del ruolo principale di esportatore di gas degli Stati Uniti, per la sua importanza Henry Hub presta il suo nome al punto di prezzo per i contratti future sul gas naturale.

Bloomberg New Energy Finance prevede che le importazioni di Gnl della Cina cresceranno fino a 82 milioni di tonnellate entro il 2030. Se tutto questo venisse acquistato dagli Stati Uniti, potrebbe contribuire con 27,7 miliardi di dollari al risanamento della bilancia commerciale degli Stati Uniti.

Naturalmente, questo ignora che la Cina (e gli Stati Uniti) hanno impegni che sarebbero difficili da rompere con la maggior parte del loro partner. Gli Stati Uniti hanno già venduto 13 milioni di tonnellate delle esportazioni del 2018 e la Cina ha contratto 42 milioni di tonnellate di importazioni da diversi produttori. Ciò lascia 2MM di volume di esportazione di riserva, all’incirca uguale alla quantità che gli Stati Uniti hanno esportato in Cina nel 2017 e che vale 613 milioni di dollari.

Allo stesso modo, solo il 40% delle importazioni cinesi del 2030 non è sotto contratto. Se la Cina avesse acquistato tale volume da una produzione degli Stati Uniti a prezzo ribassato, ciò comporterebbe un ricavo di $ 13,5 miliardi. Le cose, come si vede, sono assai complicate e sono regolate da rapporti di potere, di dipendenza, di facilities sul mercato.

Quindi le spedizioni di Gnl possono risolvere il deficit commerciale tra Cina e Stati Uniti? No. Potrebbero aiutare? Sì. Aumenteranno? Probabilmente. Gli esportatori statunitensi stanno già sollecitando gli acquirenti cinesi e la Cina sta cercando di diversificare le importazioni dall’Australia e dal Qatar, i suoi attuali fornitori primari. Proprio il mese scorso, PetroChina ha firmato il primo contratto di Lng a lungo termine della Cina per il gas degli Stati Uniti con Cheniere Energy. Questa tendenza continuerà probabilmente con l’espandersi del mercato degli Gnl negli Stati Uniti.

Importazioni di GNL della Cina, per fornitore

Fonte: Bloomberg New Energy Finance. Ufficio nazionale di statistica, dogana cinese. Queste sono le previsioni, che influenzeranno anche i dazi sul metallo che viaggia all’inverso dai mari della Cina

Cercasi petrolio e gas da bruciare

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Nel suo recente ed esauriente report sul futuro del petrolio e del gas la International Energy Agency (IEA: Oil 2018, analysis and forecasts to 2023) induce a riflessioni tutt’altro che scontate sul raggiungimento del picco delle fonti fossili. Anzi, caparbiamente le grandi corporation e i gruppi finanziari più esposti esplorano ogni possibilità di rilancio. Perfino, come descriverò, le più assurde dal punto di vista climatico ambientale e le più rischiose sul terreno finanziario e delle bolle ad esso associate. Tutto, pur di contrastare il cambio di modello energetico e di trasferire solo sul piano contabile di governi e multinazionali gli effetti di una combustione dichiarata incompatibile ad ogni impotente e quindi riunione delle Cop (ormai, con quella dopo Parigi e Bonn, arrivate al numero 23).

Lo stesso direttore esecutivo della IEA, Fatih Birol, sostiene che dalla Cop 21 ad oggi si deve registrare una differenza notevole dovuta soprattutto all’impressionante ripresa della produzione di petrolio e gas da scisti negli Stati Uniti. L’impatto globale dell’aumento dello shale oil (LTO) comporta un cambiamento fondamentale nella natura dei mercati petroliferi globali.

US LTO scenari

Previsioni di produzione di LTO a seconda della velocità di esaurimento dei pozzi (http://peakoilbarrel.com/the-future-of-us-light-tight-oil-lto/)

La spina nel fianco di questa tecnologia di perforazione consiste nel più rapido esaurimento dei giacimenti (le varie curve indicano diverse velocità di estrazione – in barili al giorno – e quindi diverse previsioni più o meno pessimistiche di svuotamento dei pozzi). Si deve notare che la tecnologia, estremamente dannosa sul piano ambientale, va comunque ad esaurirsi entro la metà del secolo, ma che tutte le curve (tranne la più bassa) sono in crescita fino al 2023 e, quindi, l’inevitabile picco ancora non è raggiunto, consentendo agli Usa di solidificarsi come il principale produttore di petrolio al mondo mentre la Cina e l’India li sostituiscono come principali importatori di petrolio.

Il Fondo Monetario Internazionale vede una crescita economica globale del 3,9% all’anno fino al 2023 e le economie forti utilizzeranno più petrolio con una crescita della domanda a un tasso medio annuo di 1,2 milioni di barili/giorno. Dove sta la decarbonizzazione, parola d’ordine della Cop di Parigi e della Sen di Calenda?

Spesso si trascura che i prodotti petrolchimici sono un fattore chiave per la crescita della domanda di petrolio e che la corsa al riarmo concentra ancora di più il ricorso ad esso. Man mano che le spedizioni canadesi di shale oil e shale gas verso gli Stati Uniti crescono, questo libera il greggio statunitense più leggero per l’esportazione, in particolare per soddisfare la domanda asiatica di materie prime petrolchimiche. Ogni anno il mondo ha bisogno di rimpiazzare l’offerta persa dai campi maturi e questo è l’equivalente di sostituire un Mare del Nord ogni anno. Le scoperte di nuove risorse petrolifere sono scese ad un altro minimo storico nel 2017. Spinta dall’Lto, nel 2023 la produzione degli Stati Uniti crescerà di 3,7 milioni di barili al giorno, più della metà della crescita totale della capacità produttiva globale, di 6.4 mb/d prevista per allora. Gli Stati Uniti sono in una posizione favorevole per aumentare il proprio ruolo nei mercati globali. Per di più con Trump riprende nettamente la capacità e il ruolo della logistica e dei grandi impianti. Questo include importanti progetti canadesi come Trans Mountain e Keystone XL, e il gasdotto EPIC 550 kb/d di TexStar Logistics, che sarà operativo nel 2019 in Texas.

La domanda petrolifera europea, nel frattempo, dovrebbe tornare alla sua tendenza al declino a lungo termine. La maggior parte della crescita verrà dal Gpl e dall’etano. Buoni guadagni si vedranno anche nel consumo di kerosene dato che i viaggi aerei diventano più accessibili nei paesi non Ocse. La crescita della domanda di benzina rallenta nel periodo con standard più rigidi in materia di risparmio di carburante, mentre la crescita del gasolio rallenta in media dello 0,7% all’anno fino al 2023.

Segnalo alcuni temi chiave destinati a essere considerati nei prossimi 12-24 mesi per il settore globale del Gnl (gas naturale liquefatto), che prendono in considerazione prevalentemente i vantaggi di mercato, lasciando ricadere all’esterno sia i danni ambientali, che quelli sociali e i rischi finanziari (le fonti sono elaborate da informazioni della Banca Mondiale.

L’accumulo nell’approvvigionamento di GNL (Gas naturale liquefatto) a livello globale è significativamente ritardato dalla capacità di liquefazione. Ciò è dovuto a numerosi fattori, tra cui ritardi di messa in servizio e interruzioni di fornitura non pianificate, spesso dipendenti da conflitti locali o dall’onerosità delle infrastrutture di trasporto e trasformazione. Nel 2018 è prevista la maggiore crescita in volume di qualsiasi anno passato, superando sostanzialmente la crescita della domanda globale. Tuttavia, dopo il 2019, la ristrutturazione della pipeline dei progetti di liquefazione si esaurirà e la crescita dell’offerta inizierà nuovamente a decadere. Ciò inciderà sul prezzo al mercato e sui rischi di investimento attuali.

L‘Europa punta ad adottare il ruolo del rigassificatore globale. Ciò vale anche per il carbone, il petrolio, o le biomasse, ma fa gola specialmente per l’esportazione di gas americano. La regione è unica nella sua capacità di assorbire l’avanzo globale, grazie ai suoi mercati del gas ampi, integrati e liberalizzati e ai significativi volumi di offerta flessibile. L’Europa deve però adottare il ruolo di consumatore di gas a livello globale: a questo puntano gli Stati Uniti (con l’esportazione di shale gas) e la Russia (con la costruzione di gasdotti). Nella competizione russo-statiuniti- canadese l’UE favorisce le iniziative di immissione in rete gassosa del Gnl da scisto nordamricano ai nodi degli attracchi europei (dalla Lituania, Estonia e Inghilterra per limitare il gas russo, alla Toscana, per favorire la metanizzazione della Sardegna messa sul piatto dal governo italiano). Nasceranno così nuovi problemi per il mercato del gas, dato che il fattore determinante dei flussi complessivi in ​​Europa sarà il prezzo, con i carichi di Gnl in competizione sugli hub dei porti per eliminare le forniture da gasdotti.

Gli Stati Uniti, nel breve periodo e in funzione del surplus di shale gas, sono probabilmente l’unica fonte di offerta di Gnl a livello globale, nonostante i suoi costi di produzione-liquefazione-trasporto-rigassificazione relativamente elevati. L’espansione del gas è quindi fonte di incertezze e di gravi disagi ambientali, oltre che di rischi finanziari notevoli. Ma tant’è: nonostante tutte le Cop organizzate con grande pompa, la decarbonizzazione paradossalmente rilancia il gas, sotto traccia nella percezione dell’opinione pubblica, abbagliata dalla narrazione sulle rinnovabili nei paesi di industrializzazione matura. Perché mai, visto lo scoraggiamento che dovrebbe provenire dagli appuntamenti sul clima? La verità è che le sanzioni finanziarie sui progetti saranno sostenute dall’aumento dei prezzi delle materie prime, dall’attenuazione dei vincoli di capitale sulle principali compagnie petrolifere e del gas, nonché da una forte deflazione dei costi dei servizi a sostegno dell’economia dei progetti di liquefazione. Ancora una volta il modello di sviluppo finisce sulle spalle del pubblico e dei consumatori, con la complicità dei governanti.