Un ricordo di Luigi Luca Cavalli Sforza

di Telmo Pievani

Un maestro lo vedi dalla libertà e dalla curiosità. Di lui ricordo un insegnamento cruciale: quando intravedi un tema di ricerca promettente in cui ancora nessuno si è cimentato – diceva – quella è la direzione in cui puntare senza remore. Io ci ho provato con la mia filosofia della biologia, e mi è andata bene. Lo devo anche a quel consiglio, benché Luca Cavalli Sforza fosse molto sospettoso sul ruolo e sull’utilità della filosofia. Lo rassicuravo dicendogli che nella mia di filosofia c’era ben poca metafisica, ma non bastava. Provavo a cavarmela dicendogli che nella sua opera di ricercatore c’era un sacco di ottima filosofia della scienza, da lavorarci per anni. Ed ecco che allora tornava per un attimo quel suo sorriso intriso di curiosità e di sempre nuove domande di ricerca.

Oggi tantissimi ricercatori in tutto il mondo lavorano all’ombra delle sue intuizioni. Nessuno meglio di Luigi Luca Cavalli Sforza, il grande genetista spentosi il 31 agosto all’età di 96 anni a Villa Buzzati di Belluno, ha incarnato la figura del pioniere, di colui che inaugura campi di studio prima inesplorati e li lascia in eredità a intere generazioni di continuatori. Forse anche perché era alto, elegante e carismatico, ora che non c’è più vien da pensare ai giganti della scienza e a noi nani che guardiamo lontano arrampicandoci sulle loro spalle.

Dopo gli studi di medicina a Torino con Giuseppe Levi e a Pavia negli anni delle leggi razziali e poi della guerra, Cavalli Sforza dal 1942 fu introdotto allo studio della genetica di drosofila da un maestro del calibro di Adriano Buzzati Traverso, fratello di Dino. Fu Buzzati Traverso, pare, a suggerirgli di aggiungere come secondo nome Luca, con cui tutti lo chiamavamo. Il legame di una vita con la famiglia Buzzati sarà sancito dal suo matrimonio con una nipote dei Buzzati, Alba Ramazzotti, che lo seguirà per tutta la sua carriera e gli darà quattro figli.
Fra il 1948 e il 1950 lavorò a Cambridge, sotto la guida di Ronald A. Fisher, insigne statistico e tra i fondatori della genetica delle popolazioni. Con il microbiologo Joshua Lederberg, poi Nobel nel 1958 a 33 anni, Cavalli Sforza studiò l’allora sconosciuto sesso dei batteri, cioè lo scambio orizzontale di pacchetti di informazione genetica tra un batterio e l’altro, dando contributi fondamentali. Dal 1951 ricoprì uno dei primi insegnamenti di Genetica e Microbiologia in Italia, a Parma, dove cominciò ad appassionarsi alla genetica umana. Qui intuì che i nostri geni recano con sé preziose tracce della storia umana profonda e degli antichi spostamenti di popolazioni.
Fiutò questa pista a modo suo, mescolando come nessuno aveva fatto prima dati provenienti da discipline diverse: analisi dei gruppi sanguigni, ricerca di marcatori genetici, registri parrocchiali, storia demografica, alberi genealogici e indagini sulle distribuzioni dei cognomi (anche dai buoni vecchi elenchi telefonici). Collaborò con l’Istituto Sieroterapico Milanese e dal 1962 fu professore di ruolo all’Università di Pavia. Divenne intanto antropologo anche sul campo, guidando spedizioni di ricerca sui cacciatori raccoglitori khoi-san del Kalahari e prima sui suoi amati popoli pigmei dell’Africa centrale, campioni di sostenibilità e saggezza ambientale. L’incontro con la diversità umana reale lo convinse sempre di più che attraverso la lente delle differenze genetiche umane fosse possibile ricostruire l’albero delle separazioni storiche tra i popoli della Terra e la diffusione dei geni tra le popolazioni tramite mescolanze e migrazioni.

Non sempre in armonia con le logiche accademiche italiane, nel 1971 Luigi Luca Cavalli Sforza lasciò l’Italia per la cattedra di Genetica delle popolazioni e delle migrazioni a Stanford, dove assunse la guida di un programma di ricerca mondiale che mirava a ricostruire per via genetica niente meno che l’albero genealogico dell’umanità. Le analisi sempre più raffinate sulla variabilità umana (sul DNA mitocondriale, sul cromosoma Y e poi sull’intero genoma) lo portarono a scoprire che la specie Homo sapiens ha avuto un’origine unica, africana e recente, confutando il vecchio modello che prevedeva centri multipli di origine graduale in differenti regioni. La sua idea, poi confermata e precisata, fu che una grande diaspora fuori dall’Africa aveva prodotto, circa 60mila anni fa, il meraviglioso ventaglio delle popolazioni umane attuali e passate, diversificando i loro geni, ma anche le culture e le lingue del mondo. Geni, popoli e lingue è uno dei suoi libri di maggior successo.
Se questo è il quadro dell’evoluzione umana recente, significa che siamo tutti figli di stratificazioni migratorie successive, dall’Africa all’Eurasia, e poi da questa all’Australia e alle Americhe. Tutti migranti, insomma, e tutti discendenti da un piccolo gruppo di pionieri africani. Le differenze genetiche tra due esseri umani presi a caso nel mondo sono comunque minime. Ne discende, e Cavalli Sforza lo capì subito, che la separazione dell’umanità in “razze” ben distinte non regge, perché la variabilità genetica umana si distribuisce in modo continuo a partire dall’Africa dove ce n’è di più.
Collaborando con archeologi, antropologi e linguisti, forte della sua preparazione matematica e statistica, cominciò a utilizzare le comparazioni genetiche per ricostruire anche migrazioni più recenti, come quella degli agricoltori mediorientali che arrivarono in Europa portando con sé fisicamente le loro innovazioni, e per definire la struttura genetica di regioni più limitate (Italia compresa, crogiuolo di diversità biologiche e culturali). Nel 1994, insieme a Paolo Menozzi e Alberto Piazza, diede alle stampe un atlante monumentale che ancora oggi è un riferimento: Storia e geografia dei geni umani. Qualche anno prima, con Marcus Feldman a Stanford aveva proposto la prima teoria quantitativa della trasmissione culturale, poi aggiornata nel libro L’evoluzione della cultura.
Cavalli Sforza nella seconda metà del Novecento ha contribuito in modo decisivo alla maturazione professionale e tecnologica della genetica mondiale. Fin dal 1991 fu il primo promotore e direttore dello Human Genome Diversity Project, cioè lo studio comparato delle variazioni del genoma all’interno della nostra specie. Si trattava in sintesi di esplorare non soltanto un singolo genoma “medio”, ma la diversità effettiva dei genomi umani dispersi nel mondo, con importanti implicazioni per il miglioramento delle nostre conoscenze mediche e storiche.
Il ruolo delle migrazioni in archeologia e il parallelismo tra albero genealogico dei geni e albero di diversificazione delle lingue gli furono contestati, ma comunque la si pensi erano idee feconde. Una delle sue ultime intuizioni scientifiche, una decina di anni fa, fu di rara eleganza. Scoprì che la deriva genetica, cioè il campionamento casuale e la riduzione di variabilità genetica dovuti alla separazione di piccole popolazioni, aveva lasciato una traccia limpida in tutti i genomi del pianeta. La variabilità genetica umana infatti decresce progressivamente mano a mano che ci si allontana dall’Africa meridionale, probabile punto di partenza dell’ultima espansione globale che portò alla diffusione delle popolazioni di Homo sapiens attuali. Riduzione di variabilità genetica e distanza geografica dall’Africa, in virtù di un “effetto del fondatore in serie”, correlano fortemente. Gli piaceva particolarmente questo risultato, perché mostrava come fenomeni casuali quali la deriva genetica potessero dare origine a schemi statisticamente molto eleganti e predicibili.

Il valore culturale (e persino filosofico) della scienza di Cavalli Sforza sta tutto in quella domanda, chi siamo, che fa da titolo a un altro suo fortunato libro, scritto con il figlio Francesco (come anche la sua appassionante autobiografia scientifica: Perché la scienza. L’avventura di un ricercatore). La risposta è che siamo una storia di diversità, ancora in corso. Nel 2011 il Palazzo delle Esposizioni di Roma gli dedicò un’importante Mostra, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, inaugurata dal Presidente della Repubblica.
Il contributo eccezionale che Luigi Luca Cavalli Sforza ha dato alla scienza si misura nel mezzo migliaio di pubblicazioni internazionali ai massimi livelli, nelle alte onorificenze accademiche (tra le quali, Accademico dei Lincei e membro straniero della Royal Society), nei tanti premi (Balzan, Nonino, Serono), nelle innumerevoli lauree honoris causa. Per l’ampiezza e la fecondità del suo lavoro, avrebbe senza dubbio meritato il Nobel, ma essere un italiano e un evoluzionista non aiuta nell’impresa. A pensarci bene, per tutta la vita non ha fatto altro che dedicarsi in modo disinteressato alla ricerca pura e di base, nel senso più alto del termine.
Come Darwin, non amava gli steccati disciplinari. Non era mai dogmatico e spaziava da una linea di ricerca all’altra quasi con leggiadria. Gli veniva tutto facile. Da dieci anni era professore emerito a Stanford, ma era tornato in Italia, spendendosi con generosità nella divulgazione e nella lotta ai pregiudizi antiscientifici, primo fra tutti quello di chi per ideologia o ignoranza nega ancora la realtà e la bellezza dell’evoluzione darwiniana. Sull’eterna minaccia del razzismo ha scritto pagine intense (per esempio in Razzismo e noismo, con Daniela Padoan) e tenuto conferenze memorabili. Era un uomo schietto, ironico, profondamente libero, che avresti voluto interrogare su tutto, e invece era sempre lui a fare le domande a te. Da ogni gesto e parola sprigionava quella gioia che nasce da insaziabile desiderio di conoscenza, sulla natura e sull’umano. Certe volte ti proponeva connessioni tra fatti ed evidenze talmente lontani fra loro che stentavi a vederci una logica, e invece poi… aveva ragione lui, una logica c’era. La sua è stata davvero una bellissima avventura di ricerca.

(*) ripreso da “Nazione indiana” con questa nota introduttiva di Antonio Sparzani: «è scomparso il 31 agosto scorso Luigi Luca Cavalli-Sforza, grande scienziato e grande uomo per il quale nutro una grandissima stima, per averlo sentito raccontare le sue idee e per aver letto molti dei suoi scritti. Ho chiesto a Telmo Pievani, ordinario di filosofia della biologia all’Università di Padova e collaboratore e amico suo, di scrivere per Nazione Indiana un post che ricordi un così importante maestro».

Germania: il primo treno passeggeri ad idrogeno del mondo

Approvata la messa in servizio in Germania del treno ad idrogeno Coradia iLint

 

Il Coradia iLint di Alstom, il primo treno passeggeri del mondo a celle a combustibile idrogeno, ha ottenuto approvazione dall’Autorità ferroviaria tedesca (EBA) per l’entrata in servizio in Germania. Oggi, Gerald Hörster, presidente dell’EBA, ha consegnato ad Alstom il certificato di omologazione presso il Ministero federale dei Trasporti e delle Infrastrutture a Berlino, alla presenza di Enak Ferlemann, segretario di Stato parlamentare presso il ministro federale per il traffico e l’infrastruttura digitale e membro del Parlamento tedesco.

Un primato in Germania: con l’approvazione dell’Autorità ferroviaria tedesca (EBA), arriva sui binari il primo treno passeggeri con tecnologia a celle a combustibile. Questo è un forte segnale di mobilità del futuro. L’idrogeno è veramente un’alternativa al diesel, è efficiente e a basse emissioni. Soprattutto sulle linee secondarie, dove le linee aeree di contatto non sono economiche o non ancora disponibili, questi treni sono un’opzione pulita ed ecologica. Ecco perché supportiamo e vogliamo far emergere questa tecnologia” ha dichiarato Enak Ferlemann, il delegato del governo federale tedesco per il trasporto ferroviario.

“Questa approvazione è un momento cruciale per il Coradia iLint e un passo decisivo verso una mobilità pulita e orientata al futuro. Alstom è profondamente orgogliosa di questo treno regionale alimentato a idrogeno, che rappresenta una rivoluzione nella mobilità a emissioni zero e che ora entrerà in servizio regolare” ha affermato Wolfram Schwab, vicepresidente di Alstom per l’R&D e Innovazione.

Nel Novembre 2007, Alstom e l’autorità locale per il trasporto della Bassa Sassonia (LNVG) hanno firmato un contratto per la consegna di 14 treni a celle a combustibile idrogeno, relativa manutenzione per 30 anni e fornitura di energia. I 14 treni trasporteranno i passeggeri tra le località di Cuxhaven, Bremerhaven, Bremervörde e Buxtehude da dicembre 2021.

In seguito all’approvazione da parte di EBA, due prototipi di Coradia iLint entreranno nella fase pilota di operazioni nel network Elbe-Weser. L’inizio del servizio passeggeri è previsto per la tarda estate.

Il Coradia iLint è il primo treno passeggeri alimentato da celle a combustibile idrogeno, che producono energia elettrica per la trazione. Questo treno a zero emissioni ha livelli minori di rumore e l’unico scarico è costituito da vapore acqueo e acqua di condensa. Il Coradia iLint è unico per via della combinazione di diversi elementi innovativi: conversione di energia pulita, possibilità di immagazzinare l’energia nelle batterie, una gestione intelligente dell’energia di trazione e di altra energia a disposizione. Progettato specificamente per le linee non elettrificate, opera a rispetto dell’ambiente, assicurando, allo stesso tempo, un’ottima performance.

Il Coradia iLint è stato progettato dal team Alstom di Salzgitter (Germania), centro di eccellenza per i treni regionali e a Tarbes (Francia), centro di eccellenza per i sistemi di trazione. Il progetto beneficia del supporto del Ministero dell’Economia e di quello dei Trasporti tedeschi. Lo sviluppo del Coradia iLint è stato finanziato con 8 milioni di euro dal Governo tedesco come parte del Programma nazionale per l’innovazione nella tecnologia a idrogeno e celle a combustibile (NIP).

Contributo sull’avvio del congresso della Cgil

Come iscritti e militanti della Cgil, di diverse categorie* avanziamo le riflessioni che seguono, prendendo spunto dall’avvio del congresso della Cgil, ed in relazione alle attività di associazioni, nelle quali siamo impegnati, che si occupano della transizione/decarbonizzazione del modello energetico e di sviluppo (come l’approfondimento riportato in appendice); temi sui quali già abbiamo avuto e abbiamo occasioni di collaborazione con la Cgil e le sue categorie.

Il congresso dovrebbe essere…

Il metodo nuovo, deciso dalla Cgil per avviare il 18° congresso, con la “Traccia di discussione per Assemblee Generali” sulla quale raccogliere suggerimenti e indicazioni per poi arrivare al documento congressuale vero è proprio, è molto utile.

E’ certamente giusto sottolineare come in questi anni la Cgil, nonostante la situazione e il clima sfavorevole, abbia retto bene. Ma l’affermazione “Non ci siamo limitati al conflitto e alla difesa, abbiamo scelto la strada della creazione di un’altra proposta di sistema come il piano del lavoro, elaborando la nostra proposta di legge di iniziativa popolare: la carta dei diritti universali del lavoro”, è troppo ottimistica. Ci siamo difesi abbastanza bene, ma di qui in avanti questo non basta.

“Un’altra proposta di sistema” è una indicazione strategica assolutamente condivisibile e necessaria, ma non possiamo dire di averla già creata. “Il piano del lavoro” è stata una buona intuizione, anche simbolica, importante, ma non è sufficiente; come non lo è ripetere semplicemente che siamo per “un modello alternativo, sostenibile, di crescita, sviluppo e giustizia sociale”. La stessa confusione tra i termini di crescita e sviluppo, che non sono – a proposito di “sostenibilità ambientale, economica, sociale e territoriale” – la stessa cosa, dimostra che nonostante l’avvio di alcune importanti elaborazioni (come “la piattaforma integrata per lo sviluppo sostenibile”) tutta l’organizzazione non ha ancora assimilato, soprattutto nella sua pratica contrattuale, la consapevolezza delle grandi emergenze globali, ambientali , energetiche, climatiche che abbiamo di fronte e, di conseguenza, le grandi trasformazioni sull’idea di sviluppo, che sarebbero necessarie.

A questo proposito, sono molto più precise le affermazioni contenute nel contributo dello Spi “Verso il congresso nazionale Spi 2018”: “Di fronte a questo scenario, obiettivo dello Spi Cgil, in coerenza con le priorità dell’Onu e per l’Italia dell’Asvis, è quello di battersi insieme alla comunità scientifica e ai movimenti ambientalisti affinché si avvii un ambizioso processo di transizione che dall’economia globale conduca verso un’economia ecologica e circolare. È sempre più necessario, infatti, limitare i cambiamenti climatici, liberarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili, affermare nuovi modelli di consumo, raggiungere l’obiettivo dei rifiuti zero, e garantire a tutti, oltre che la sicurezza alimentare, anche l’accesso a uno dei beni più preziosi: l’acqua potabile. Ma la diffusione di una cultura della sostenibilità deve anche partire dall’assunzione di responsabilità dei singoli individui. Basare i nostri comportamenti quotidiani sul consumo consapevole delle risorse naturali, sul risparmio energetico, sul rispetto dell’ambiente rappresenta il primo passo verso un mondo più giusto ed equo”.

Sono affermazioni importanti che non hanno implicazioni solo per le scelte individuali, o per i “consumatori consapevoli”, ma pongono, soprattutto, la necessità della transizione del modello produttivo, e quindi di come conquistare un modello di sviluppo alternativo.

Nel secolo scorso, i movimenti sociali, ed in particolare quello sindacale, potevano svolgere il loro ruolo di mobilitazione e rivendicazione per la tutela dei diritti, delle condizioni di lavoro e di vita, per obiettivi di giustizia sociale e poi trovare una “sponda politica”, tra forze politiche che avevano una “idea complessiva di società”, a cui delegare la necessaria mediazione e realizzazione di questi obiettivi.

Oggi, per il movimento sindacale, ed in particolare per la Cgil, è molto più problematico trovare “una sponda” nell’attuale quadro politico; infatti si sostiene di avere “letto prima…il prepararsi della rottura tra il mondo del lavoro e la rappresentanza politica”. A maggior ragione, questa realtà, dovrebbe implicare la necessità di un cambio nel ruolo e nelle responsabilità del sindacato.

Certamente il sindacato deve fondare in primo luogo la sua rappresentatività partendo dalle condizioni concrete di tutto il mondo del lavoro, anche nei settori più marginali ed esclusi (spesso anche per noi ai margini), ma deve allargare il concetto di coalizione a tutti quei settori sociali che possono oggettivamente convergere su obiettivi coerenti. Per questo il sindacato deve avanzare in proprio una sua idea di società e di modello di sviluppo, cercando di farlo vivere e avanzare, non solo nelle elaborazioni generali, ma anche, e soprattutto, nella propria iniziativa corrente e nella pratica contrattuale a tutti i livelli.

Come si legge nel contributo della Fiom “Il congresso dell’uguaglianza”: “consolidare la strada intrapresa… di autonomia e indipendenza dal sistema dei partiti e dalle logiche che oggi dominano la politica”. E, conclude: “Non si può quindi prescindere dalla necessità di stringere i legami della coalizione delle lavoratrici e dei lavoratori e allargare le alleanze oltre il lavoro dipendente”.

Per il sindacato, porre la necessità di “un nuovo modello di sviluppo” e operare direttamente per essere protagonista di questa progressiva transizione, significa saper intrecciare l’attenzione all’occupazione, alla riduzione degli orari, ai diritti, alle condizioni, alla retribuzione, con una riflessione sulle finalità del lavoro stesso (“cosa, come, per chi produrre”, si sosteneva una volta) e della sua redistribuzione.

La transizione nei settori energetici, dell’economia circolare, della mobilità, dell’organizzazione delle città, dell’edilizia, dei servizi, ecc. – con l’accelerazione indotta dalla digitalizzazione – è già in atto, magari a volte in modo distorto e contradditorio, ma proseguirà. L’unico modo perché “non sia pagata dai lavoratori” è che il sindacato, e i lavoratori, svolgano un ruolo attivo, ponendo le proprie priorità, con una “contrattazione d’anticipo”. Disinteressarsene, pensando solo ad un ruolo sindacale “tradizionale”, o tentare semplicemente di frenare questo processo (come a volte è successo e succede) produrrebbe danni ben peggiori.

Per andare in questa direzione servono strategie e normative precise, politiche industriali e investimenti pubblici e privati adeguati (vale per le grandi scelte nazionali, ma anche per quelle locali e territoriali) che devono essere rivendicati con forza, ma non possiamo semplicemente delegare, o fare lobby, verso i decisori politici.

Una transizione “giusta” non si può realizzare senza un coinvolgimento attivo dei soggetti sociali interessati a questi cambiamenti (i lavoratori, i consumatori, i cittadini, ecc.) o addirittura contro di loro. Per questo, superando tendenze alla frammentazione e al settorialismo, è necessario aggregare un “fronte sociale più ampio” (che coinvolga oltre al sindacato, associazioni sociali, ambientali, dei consumatori, comitati dei cittadini, competenze scientifiche e tecniche) per intervenire e contrattare questi cambiamenti, a partire dalle aziende più innovative, dagli amministratori locali più sensibili, ecc., per investire poi il sistema delle imprese di tutti i settori.

Si parla tanto di Industria 4.0, ma in genere si affrontano solo aspetti tecnologici, digitalizzazione (internet delle cose, additive manufacturing…). “Affermiamo di voler contrattare la digitalizzazione”, che è un ottimo proponimento, ma “l’algoritmo” non controlla solo le condizioni di lavoro, ma l’intero ciclo della produzione, dei servizi, dei consumi. L’innovazione che dovremmo contrattare non interessa solo le tecnologie, ma anche gli aspetti organizzativi, ambientali, sociali e le stesse finalità del lavoro e delle produzioni. Per svolgere questo ruolo, il sindacato, ha la necessità di costruire un punto di vista autonomo, proprio e dei lavoratori che rappresenta, anche in relazione a soggetti esterni, oltre il lavoro dipendente.

Le trasformazioni in atto necessitano di più sapere e di più intelligenza nell’uso di tutte le risorse, servirebbe uno straordinario sforzo di educazione e di formazione a tutti i livelli, non solo nei luoghi tradizionali della ricerca e della formazione, ma anche nei luoghi di lavoro e nella società.

In queste trasformazioni vi saranno settori che andranno a ridursi e altri invece che dovrebbero crescere, e il sindacato ne dovrebbe essere protagonista attivo, facciamo sommariamente solo alcuni esempi:

– Per i settori dell’automotive e della mobilità, pensiamo all’enorme impatto che avrà la progressiva sostituzione di mezzi a combustione interna con quella elettrica o ad altre propulsioni; o la progressiva riduzione dell’uso dei combustibili fossili, con la fine dell’uso del carbone, il restringimento dei settori delle estrazioni e della raffinazione e quindi le ricadute in quelli dell’oil & gas.

– Viceversa, pensiamo al possibile grande sviluppo di tutte le fonti rinnovabili, la stessa Strategia Energetica Nazionale (che può essere criticabile per taluni aspetti) ne prevede un aumento tale che non sarebbe raggiungibile con i trend attuali, a partire dal solare e dall’eolico (per il quale sarebbe necessario puntare su quello offshore); oppure le grandi opportunità per l’autoproduzione, e soprattutto per l’efficienza energetica in tutti i settori, a partire da Interventi radicali di efficientamento energetico per la riqualificazione spinta di interi edifici e quartieri (deep renovation).

Ma in modo più trasversale, anche solamente partire da iniziative diffuse per generalizzare le diagnosi energetiche e poi l’efficientamento dei cicli produttivi (es. l’Avviso comune Cgil Cisl Uil Confindustria del 2011, sull’efficienza energetica) oltre a dare vantaggi immediati, può fornire indicazioni per intervenire, non solo sui cicli attuali, ma anche sulle materie prime, sulla logistica, sugli scarti, sui rifiuti, ecc., ripensando cicli di vita e tipologia dei prodotti e dei servizi. Tematiche queste, applicabili non solo ai settori produttivi e industriali, ma in modo trasversale in ogni comparto. Incluso anche il ruolo che può svolgere una categoria come lo SPI, nella contrattazione sociale e nel promuovere comportamenti e stili di vita e di consumo più sostenibili.

A proposito di un ruolo più determinato del sindacato nella realizzazione di queste trasformazioni, pur non essendo citato nei documenti preparatori, si torna a parlare di “codeterminazione”. Certo, l’esperienza tedesca, fatte le dovute differenze, può avere un qualche interesse anche in Italia, che non ha mai avuto procedure di questo tipo, se si esclude Il caso del “protocollo IRI” (che risale agli anni ’80) o, da ultimo, il “timido” capitolo sulla “Partecipazione” del recente accordo con Confindustria sulle “relazioni industriali e la contrattazione“, ma essenziale in tutto questo è appunto avere punto di vista autonomo del sindacato.

*Mario Agostinelli
Vittorio Bardi
Paolo Bartolomei
Oscar Mancini
Gianni Naggi
Ettore Torregiani

APPROFONDIMENTO DI SCALIA E MATTIOLI (PDF 984 Kb) >>>

La malattia del clima e la non cura della politica

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Questa volta voglio prenderla alla larga visto che la crisi del rapporto tra politica e società viene sempre svelata ex-post; come una sorpresa superiore alle previsioni dei politici!

La dodicesima notizia più censurata negli Stati Uniti riguarda il problema della fine dei combustibili fossili. “Vivremo se l’80% dei combustibili fossili rimarrà sottoterra”, dice l’Ipcc report, ma gli americani e il resto del mondo non lo devono sapere. E, d’altro canto, di cosa discutono Matteo Salvini e Luigi Di Maio nelle loro apparizioni televisive? Hanno forse rimesso in discussione che l’Italia debba mirare ad essere l’hub del gas d’Europa e che la Sardegna debba essere metanizzata a suon di navi metaniere e rigassificatori?

Ma, davvero, se si escludono eccezioni, la questione del clima può essere sempre più impunemente travolta dalle corporation dei tubi e delle trivelle, dagli interessi finanziari delle multinazionali, da politiche neocolonialiste e dalle manovre di guerra? Sulla rivista After oil, Bill McKibben ha scritto che, per quanto riguarda il cambiamento climatico, il problema essenziale non è “industria contro ambientalisti o repubblicani contro democratici. Sono le persone contro la fisica“. Per questo motivo, i tipici compromessi e compensazioni offerti nella maggior parte dei dibattiti pubblici non funzioneranno abbastanza, perché “è inutile fare pressioni con la fisica”. E, al riguardo, la critica di Bill alla concorrenza, che il gas porta all’espansione delle rinnovabili è molto dura. La parola d’ordine del movimento dello scienziato statunitense “lasciamo sotto terra l’80% delle riserve di carbone, petrolio e gas” è stata censurata e fatta sparire da tutti i media internazionali, escluso il Guardian che l’ha invece ripresa con risalto.

L’invito di McKibben quindi, pur ragionevole ed essenziale, non muove fremiti quanto gli scandali della nomenclatura romana. Dice con naturalezza che “con alternative a combustibili fossili ormai sempre meno costose, per vincere non abbiamo bisogno di questa ostinata lotta per sempre tra climalteranti e sopravvivenza. D’altra parte, se possiamo tenere a bada lo sviluppo dei combustibili fossili (gas compreso!) “per qualche altro anno (…) avremo reso irreversibile la transizione verso l’energia pulita, il 100% di rinnovabili”.

A sostegno di questa scelta e di un percorso realizzabile entro il 2050, in La festa è finitaRichard Heinberg esamina tre livelli ragionevoli e praticabili di intervento anche in una fase di crisi. Interventi che non agiscono tanto sulla domanda, quanto sulle scelte politiche e di comportamento. In primo luogo, la transizione diventa un segnale di partenza vera quando si modificherà in modo sostitutivo la produzione di elettricità dalle fonti a contenuto di carbonio alle fonti di energia eolica e solare. Una volta che l’energia solare ed eolica generano elettricità, “ha senso elettrificare gran parte del nostro consumo energetico il più possibile” Oltre ad adattare gli edifici all’efficienza energetica e ad aumentare la quota di mercato degli alimenti biologici locali, il livello di cambiamento “potrebbe raggiungere almeno il 40% di riduzione delle emissioni di carbonio in 10-20 anni “. Occorre, ovviamente, praticare una politica industriale nella direzione delle fonti sole e vento, sostenuta da una forte spesa in ricerca.

Infine, poiché la produzione di cemento è necessaria e richiede alte temperature, queste potrebbero essere fornite dalla luce del sole, elettricità o idrogeno, ben sapendo che un simile cambiamento significherebbe “una ridefinizione quasi completa del processo di produzione non solo del calcestruzzo, ma anche della pianta urbana, della mobilità, delle modalità di relazioni e convivenza. A ciò andrebbe aggiunta la riprogettazione del sistema alimentare “per ridurre al minimo la lavorazione, l’imballaggio e il trasporto”. Naturalmente, investimenti, programmazione, formazione e lavoro dignitoso per accompagnarne una estesa diffusione.

Aggiungo che senza maggiori sforzi dei governi per promuovere la crescita dello stoccaggio delle batterie e delle interconnessioni energetiche tra paesi diversi, e senza finanziamenti verdi per favorire le utilities elettriche a migliorare i servizi energetici e della mobilità elettrica, il 2018 sarebbe un altro anno perso. Se avanzassero, come dovrebbero, la generazione distribuita, lo stoccaggio di energia e le abitazioni passive, i consumatori necessiterebbero di una tecnologia che consenta loro di gestire la produzione e il consumo di energia domestica con la massima efficienza e di vendere di nuovo alla rete. È il caso, ormai realizzabile, di veicoli elettrici messi in rete: Enel sta collaborando con il produttore di automobili Nissan per creare un sistema grazie al quale i proprietari di Nissan EV possono vendere energia immagazzinata nei loro veicoli alla rete per ottenere un guadagno.

Nulla di quanto qui riportato è assunto come asse strategico nel “contratto” del governo del cambiamento che sì è appena costituito. Mentre la scienza del clima ha fatto quanto poteva, rilevando i sintomi, individuando la patologia e formulando la prognosi, ora tutto è nelle mani del paziente: che sembra non voler guarire, abbandonando la politica ad esercizi di fiacco potere.

Governo, il clima è una malattia. E la politica non la cura

Questa volta voglio prenderla alla larga visto che la crisi del rapporto tra politica e società viene sempre svelata ex-post; come una sorpresa superiore alle previsioni dei politici!

La dodicesima notizia più censurata negli Stati Uniti riguarda il problema della fine dei combustibili fossili. “Vivremo se l’80% dei combustibili fossili rimarrà sottoterra”, dice l’Ipcc report, ma gli americani e il resto del mondo non lo devono sapere. E, d’altro canto, di cosa discutono Matteo Salvini e Luigi Di Maio nelle loro apparizioni televisive? Hanno forse rimesso in discussione che l’Italia debba mirare ad essere l’hub del gas d’Europa e che la Sardegna debba essere metanizzata a suon di navi metaniere e rigassificatori?

Ma, davvero, se si escludono eccezioni, la questione del clima può essere sempre più impunemente travolta dalle corporation dei tubi e delle trivelle, dagli interessi finanziari delle multinazionali, da politiche neocolonialiste e dalle manovre di guerra? Sulla rivista After oil, Bill McKibben ha scritto che, per quanto riguarda il cambiamento climatico, il problema essenziale non è “industria contro ambientalisti o repubblicani contro democratici. Sono le persone contro la fisica“. Per questo motivo, i tipici compromessi e compensazioni offerti nella maggior parte dei dibattiti pubblici non funzioneranno abbastanza, perché “è inutile fare pressioni con la fisica”. E, al riguardo, la critica di Bill alla concorrenza, che il gas porta all’espansione delle rinnovabili è molto dura. La parola d’ordine del movimento dello scienziato statunitense “lasciamo sotto terra l’80% delle riserve di carbone, petrolio e gas” è stata censurata e fatta sparire da tutti i media internazionali, escluso il Guardian che l’ha invece ripresa con risalto.

L’invito di McKibben quindi, pur ragionevole ed essenziale, non muove fremiti quanto gli scandali della nomenclatura romana. Dice con naturalezza che “con alternative a combustibili fossili ormai sempre meno costose, per vincere non abbiamo bisogno di questa ostinata lotta per sempre tra climalteranti e sopravvivenza. D’altra parte, se possiamo tenere a bada lo sviluppo dei combustibili fossili (gas compreso!) “per qualche altro anno (…) avremo reso irreversibile la transizione verso l’energia pulita, il 100% di rinnovabili”.

A sostegno di questa scelta e di un percorso realizzabile entro il 2050, in La festa è finitaRichard Heinberg esamina tre livelli ragionevoli e praticabili di intervento anche in una fase di crisi. Interventi che non agiscono tanto sulla domanda, quanto sulle scelte politiche e di comportamento. In primo luogo, la transizione diventa un segnale di partenza vera quando si modificherà in modo sostitutivo la produzione di elettricità dalle fonti a contenuto di carbonio alle fonti di energia eolica e solare. Una volta che l’energia solare ed eolica generano elettricità, “ha senso elettrificare gran parte del nostro consumo energetico il più possibile” Oltre ad adattare gli edifici all’efficienza energetica e ad aumentare la quota di mercato degli alimenti biologici locali, il livello di cambiamento “potrebbe raggiungere almeno il 40% di riduzione delle emissioni di carbonio in 10-20 anni “. Occorre, ovviamente, praticare una politica industriale nella direzione delle fonti sole e vento, sostenuta da una forte spesa in ricerca.

Infine, poiché la produzione di cemento è necessaria e richiede alte temperature, queste potrebbero essere fornite dalla luce del sole, elettricità o idrogeno, ben sapendo che un simile cambiamento significherebbe “una ridefinizione quasi completa del processo di produzione non solo del calcestruzzo, ma anche della pianta urbana, della mobilità, delle modalità di relazioni e convivenza. A ciò andrebbe aggiunta la riprogettazione del sistema alimentare “per ridurre al minimo la lavorazione, l’imballaggio e il trasporto”. Naturalmente, investimenti, programmazione, formazione e lavoro dignitoso per accompagnarne una estesa diffusione.

Aggiungo che senza maggiori sforzi dei governi per promuovere la crescita dello stoccaggio delle batterie e delle interconnessioni energetiche tra paesi diversi, e senza finanziamenti verdi per favorire le utilities elettriche a migliorare i servizi energetici e della mobilità elettrica, il 2018 sarebbe un altro anno perso. Se avanzassero, come dovrebbero, la generazione distribuita, lo stoccaggio di energia e le abitazioni passive, i consumatori necessiterebbero di una tecnologia che consenta loro di gestire la produzione e il consumo di energia domestica con la massima efficienza e di vendere di nuovo alla rete. È il caso, ormai realizzabile, di veicoli elettrici messi in rete: Enel sta collaborando con il produttore di automobili Nissan per creare un sistema grazie al quale i proprietari di Nissan EV possono vendere energia immagazzinata nei loro veicoli alla rete per ottenere un guadagno.

Nulla di quanto qui riportato è assunto come asse strategico nel “contratto” del governo del cambiamento che sì è appena costituito. Mentre la scienza del clima ha fatto quanto poteva, rilevando i sintomi, individuando la patologia e formulando la prognosi, ora tutto è nelle mani del paziente: che sembra non voler guarire, abbandonando la politica ad esercizi di fiacco potere.

L’articolo Governo, il clima è una malattia. E la politica non la cura proviene da Il Fatto Quotidiano.