Cambiamenti climatici, le foglie diventano più spesse. E non è una buona notizia

Ha creato molto scalpore nel mondo scientifico e tra gli esperti di clima la notizia che nel pianeta le foglie diventano più spesse a causa dell’aumento di concentrazione di CO2, aggravando di conseguenza i cambiamenti climatici. Nonostante siamo a conoscenza degli effetti deleteri del nostro agire, continuiamo a immettere nell’atmosfera un’insostenibile quantità di carbonio e la concentrazione di CO2 ha raggiunto livelli mai visti. Lo scorso ottobre l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha certificato che la concentrazione di CO2 in atmosfera ha raggiunto il valore record di 403,3 ppm nel 2016, il 145% in più dei valori preindustriali.

La sottovalutazione e spesso l’ignoranza diffusa dei meccanismi naturali che possono ridurre l’aumento dei gas climalteranti, responsabili della crescita della temperatura nella crosta, nell’atmosfera e nei mari in cui si riproduce la vita, ci fa dimenticare che, prima di arrivare a illuminare il nostro corpo e inondare con la loro energia il mondo vegetale che ha preparato il nostro pianeta ad accoglierci e ad alimentarci, i raggi del sole hanno attraversato l’aria che sta sopra le nostre teste. Lì, nell’atmosfera si è moderato il calore degli astri e il freddo dell’universo, con una funzione determinante della quantità di CO2 in equilibrio come parte di un ciclo naturale in cui emissioni – respirazione, produzione energetica e industriale, rifiuti, agricoltura etc. – e assorbimento – masse arboree, vegetali e alghe marine in particolare – assicurano il mantenimento di un equilibrio energetico il cui indicatore più immediato è la temperatura locale. La vita sarebbe inspiegabile se non ci si rendesse conto della singolarità della Terra, dovuta alla sottile e inconsueta pellicola che la avvolge, al contrario dei miliardi di oggetti “galileiani” inanimati su cui non c’è vita né morte, pur comportandosi dinamicamente ed energeticamente secondo leggi universali “immutabili” che Newton e poi Einstein hanno esteso all’intero Universo.

Ma torniamo allo spessore delle foglie. Tutto ebbe inizio circa cinquecento milioni di anni fa, quando organismi, animali e vegetali iniziarono a differenziarsi; le piante scelsero di non muoversi mentre gli animali optarono per uno stile di vita nomade. Diciamo che noi scegliemmo di fare i migranti, le piante di mettere le radici da qualche parte e non spostarsi da lì. Questa scelta ha implicato per loro la necessità di svilupparsi ed evolversi in maniera insostituibile per il vivente, così da ricavare, dalla terra, dall’aria e dal sole attraverso la fotosintesi (che fornisce energia alimentare e riduce la quantità di CO2 in atmosfera) tutto il necessario perché anche la nostra specie potesse nascere, riprodursi e sopravvivere come parte “omologata” dei cicli naturali alimentandosi entro una finestra energetica stabile e molto limitata, caratterizzata da un intervallo di qualche decina di gradi di temperatura. I nostri principali e indispensabili alleati nella sopravvivenza e nella lotta ai mutamenti del clima sono quindi gli alberi.

Un nuovo studio rivela però che, proprio a causa dell’elevata quantità di CO2 oggi presente, la capacità delle piante di sequestrare carbonio sta diminuendo, diventando le loro appendici più spesse e meno efficienti e ingenerando un cambiamento della temperatura sempre meno adatta alla riproduzione a all’abitabilità degli umani sul pianeta. Lo studio Leaf trait acclimation amplifies simulated climate warming in response to elevated carbon dioxide, condotto da Marlies Kovenock e Abigail Swann ritiene che sia di fondamentale importanza una migliore comprensione di come le risposte della vegetazione ai cambiamenti climatici possano fornire feedback sul clima. Le osservazioni mostrano che le caratteristiche della pianta (forma, spessore e densità delle foglie) sono modificate all’elevarsi della concentrazione di anidride carbonica. Si giunge perfino a suggerire modalità più efficienti di potatura, di osservare la maggior profondità a cui tendono i gambi dei funghi, di notare la maggior difficoltà delle castagne a uscire dal riccio una volta a terra. Infatti, queste “acclimatazioni” delle proprietà vegetali possono alterare l’area fogliare e, quindi, la produttività e i flussi di energia superficiale.

L’adattamento a più elevate temperature di una foglia in risposta all’aumento del biossido di carbonio – nella simulazione si ipotizza un aumento di un terzo della massa fogliare per area – ha un impatto realmente significativo sul ciclo climatico e sul ciclo del carbonio nel sistema terrestre. La produttività primaria netta globale di assorbimento di anidride carbonica diminuisce di una quantità pari alle attuali emissioni annue di combustibili fossili. Si rende pertanto necessario prevedere come gli ammassi vegetali risponderanno alle condizioni ambientali future, così da includerli nelle proiezioni climatiche. Va notato che l’attuale patrimonio arboreo del pianeta, secondo uno studio del 2017, avrebbe la capacità di ridurre l’emissione di sette miliardi di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2030.

C’è anche una componente di risparmio energetico di sicuro peso: gli alberi creano una “bolla di penombra” e le chiome vegetali intercettano la radiazione solare, determinando una temperatura radiante delle superfici ombreggiate inferiore a quella delle superfici esposte alla radiazione diretta. Ogni albero adulto può traspirare fino a 450 litri d’acqua al giorno e per ogni grammo di acqua evaporata sottrae 633 calorie dall’ambiente, producendo un abbassamento di temperatura (locale) equivalente alla capacità di cinque condizionatori d’aria di piccola potenza. Piantare alberi, ampliare boschi e foreste, non cementificare e evitare gli incendi significa mitigare il cambiamento climatico in atto e, quindi, ora lo sappiamo, agire perché le foglie non cambino spessore.

L’Accordo di Parigi ha dato un ruolo centrale alle foreste, alle foglie, alla rete collaborativa con cui le piante si sviluppano e si consolidano (chiedetevi come mai i frutti maturino negli stessi giorni e i funghi spuntino nelle stesse settimane in tutto l’arco alpino). Gli ecosistemi terrestri, ed in particolare le foreste, sono parte della causa e parte della soluzione del problema dei cambiamenti climatici. Causa perché la deforestazione (soprattutto tropicale) è responsabile di circa il 10% delle emissioni antropiche di gas serra a livello globale. Soluzione perché già oggi le foreste assorbono circa un terzo delle emissioni antropiche globali di CO2 .

L’insieme dei Paesi dominati dalle foreste, secondo una contabilizzazione che le giudica “prevalenti” nel territorio – Paesi Lulucf – potrebbe con adeguata manutenzione e realistica implementazione passare da essere una fonte netta di emissioni (come lo è stato nel periodo 1990-2010) a diventare assorbitore netto di CO2 entro il 2030, arrivando a fornire il 25% degli obiettivi di riduzione delle emissioni a livello globale. A due condizioni: che vengano finalmente erogati supporti tecnologico-finanziari ai Paesi in via di sviluppo e che le foglie non si ispessiscano troppo.

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Città a prova di clima: il caso di Roma

a cura di PierLuigi Albini – 1 ottobre 2018

1. Per una diversa “scienza della città”

Nella storia dell’urbanistica e nelle sue teorizzazioni è talvolta emersa l’idea di una scienza della città come paradigma in grado di far convergere diverse discipline verso una pianificazione che governi in modo razionale l’urbanizzazione. Ma di ciò si vedrà più avanti, intanto va ricordato che è a Novecento inoltrato che l’urbanistica ha perso le sue radici di disciplina che comprende il fattore umano come fondamento. Ma quello che interessa prima di tutto sottolineare è che – a parte la necessità di rivedere la legislazione in materia e la critica dell’assoggettamento dell’interesse pubblico a quello privato, avvenuto negli ultimi decenni – nessuna delle precedenti nozioni di scienza della città o di cultura della città – a seconda dei punti di vista – teneva in considerazione l’emergenza climatica come perno necessario di un insieme di competenze progettuali e di decisioni politico-amministrative in grado di pensare delle città a prova di clima, appunto; e quindi di fare fronte ad uno dei più gravi problemi del secolo XXI: forse il più grave.

Secondo il giudizio di Henri Lefebvre – sociologo, filosofo e urbanista – “a parte pochi meritevoli sforzi, l’urbanistica non ha assunto lo statuto di un vero pensiero della città. Anzi, si è man mano rattrappita fino a diventare una sorta di catechismo per tecnocrati”. Va tuttavia detto che – come si vedrà nel paragrafo successivo – oggi il nesso clima-urbanistica è diventato una questione di vita o di morte e da qui la necessità di applicare nella pianificazione (leggasi Piani Regolatori Generali e decisioni urbanistiche) la valutazione dei servizi ecosistemici come parte essenziale di una lotta di contrasto al cambiamento climatico; e quindi di cambiare completamente l’approccio progettuale ed esecutivo a vari livelli: “diritto alla città e diritto alla natura tendenzialmente coincidono”.

Infatti, se la cosiddetta sostenibilità, che vede nelle città un attore essenziale per la sua realizzazione e come conseguenza obbligata al contrasto del cambiamento climatico, non è solo un vacuo slogan, occorre dire ad alta voce che si tratta di una questione di sopravvivenza, di fronte alla quale appare delittuoso e suicida continuare con le vecchie e incontrollate pratiche governate dagli interessi privati. Qui, proprio a proposito di urbanistica, si inserisce una lunga citazione di un saggio del 2005 che conserva tutta la sua attualità.

“Il fatto è che negli ultimi decenni l’urbanistica, da strumento di garanzia dei diritti dei cittadini e di contenimento dello sfruttamento incontrollato del territorio da parte della rendita, è divenuta uno strumento di garanzia della rendita e di esclusione dei cittadini dai processi di governo del territorio. Al disinteresse culturale e politico fa riscontro la debolezza e l’obsolescenza della disciplina: per molte ragioni risulta ormai inadeguata la strumentazione offerta dalla legge fondamentale (n°1150/42), mentre tuttora disattesa è quella riforma dell’urbanistica che si invoca da tempo e che dovrebbe assumere la fattispecie di legge quadro nazionale per aggiornare e mettere ordine nella materia, senza però derogare ai principi costituzionali sull’uso del territorio e sulla tutela dei beni ambientali [e per rispondere all’emergenza climatica, nda]. Rimane quindi tuttora irrisolto l’insieme dei problemi (di ordine istituzionale, fondiario, ambientale, funzionale) accumulatisi nel tempo. […]

Rimangono [quindi] aperte tutte le questioni derivanti dalla crescente complessità dei problemi di governo del territorio, anche perché il dibattito si è molto affievolito, al più limitato agli ambienti specialistici; i cittadini “fruitori” del territorio sono stati del tutto esclusi.

Come è noto, fino dagli anni sessanta e settanta la materia è stata oggetto di un acceso confronto soprattutto ideologico, mentre con la perdita di centralità dello Stato (sul principio del suo ruolo centrale si basava la legge 1150/42) e il progressivo processo di decentramento istituzionale si è sviluppato un crescente conflitto, sia all’interno dei diversi soggetti istituzionali sia tra questi e i soggetti privati (basti pensare alle vicende irrisolte del regime giuridico delle espropriazioni, dei vincoli, della disciplina generale dei suoli edificabili).

Nasce così negli anni ’90 l’urbanistica negoziata in cui al criterio ordinatore basato sulla gerarchia fra i piani si sostituisce quella per campi di interesse di volta in volta emergenti, mentre i nuovi strumenti e i nuovi istituti (Programma di Riqualificazione Urbana, Programma di Recupero Urbano, Programmi Integrati di Intervento, Contratti d’Area, Patti Territoriali, Prusst) vengono utilizzati, talvolta anche con finanziamento pubblico, come variante automatica agli strumenti urbanistici ordinari, fino a che il piano si riduce ad una meccanica e semplicistica sommatoria di progetti.

Con il processo di riforma (o, meglio, controriforma, nda) che ha avuto inizio a partire dal 1990 si è passati così da un sistema nel quale allo Stato era assegnato un ruolo di assoluta centralità a uno nel quale convivono una pluralità di centri decisionali (non solo in materia di diritto urbanistico) titolari di proprie attribuzioni.

Quindi, non solo le competenze urbanistiche dello Stato sono, evidentemente, ormai residuali, ma la stessa materia urbanistica non è più quella totalizzante pensata negli anni Trenta, non riguarda più la universitas dello spazio fisico e umano, ma è subordinata a un complesso di decisioni relative ad altri interessi pubblici specializzati insistenti sul territorio: la difesa del suolo (attraverso i piani di bacino), la protezione della natura (attraverso i piani dei parchi), la tutela dei valori estetici (attraverso i piani paesistici), e, accanto a questi, gli strumenti delle politiche di settore (i piani dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, delle cave, ecc.).”

Ora, la questione centrale è che l’insieme di questi piani non sono messi a sistema e le decisioni e gli atti amministrativi procedono appoggiandosi dunque a questo o a quell’aspetto del territorio e secondo le competenze burocratiche, nella pressoché totale ignoranza dei contesti e in assoluta carenza di coordinamento.

Tutto ciò è accompagnato dal passaggio dall’urbanistica concertata all’urbanistica contrattata, in cui – come detto – il ruolo dell’interesse pubblico è sempre più marginale o viene comunque piegato a quello privato utilizzando una normativa contraddittoria e saltando spesso allegramente le procedure tuttora prescritte dalla regolamentazione.

Mentre a livello nazionale sono sempre attese una legge sull’urbanistica che rimetta ordine nella normativa e una legge ormai urgente sul consumo zero di suolo, a livello regionale talune leggi che, per esempio, sembrano promuovere la cosiddetta rigenerazione urbana sono viziate da meccanismi premiali per l’aumento di cubature, per la concezione di un intervento non di sistema e multilivello (quartieri), nonostante si dichiari che i “programmi di rigenerazione urbana [sono] costituiti da un insieme coordinato di interventi urbanistici, edilizi e socioeconomici volti, nel rispetto dei principi di sostenibilità ambientale, economica e sociale […]” Quel che è infatti accaduto finora Roma è l’abbattimento e la ricostruzione di palazzine del Novecento di pregio. Insomma, si prevede una “offerta” normativa per ampliamento e ricostruzioni accompagnate da indirizzi programmatici riguardanti anche l’ambiente, ma non è stato recepito il concetto di rete ecologica ormai essenziale per ogni intervento multilivello. Nella legge regionale del Lazio 18 luglio 2017, n. 7, per esempio, la parola “clima” appare una sola volta a proposito del Piano agricolo regionale e non riguarda le città. Inoltre, non c’è un collegamento sistematico fra i vari aspetti di una nuova pianificazione (energia, trasporti, dissesto idrogeologico, acqua e così via). Ancora Claudio Canestrari, scriveva nel saggio citato:

“Deregolamentazione urbanistica, concertazione procedurale, delegittimazione della pianificazione di area vasta, marketing urbano spettacolare e privo di contenuti reali, sono i fattori messi in campo senza valutare gli elementi di coerenza territoriale complessiva e gli effetti economici, sociali e ambientali di medio/lungo periodo. Devastanti sono gli effetti della dispersione insediativa associata alle procedure deregolative.

Eppure sulla quantificazione dei costi collettivi e dei costi pubblici derivanti da tali politiche gli studi sono numerosi, sia in Italia sia in taluni contesti europei e perfino nord americani […]”.

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Lo ha detto anche il Guardian: gli americani sono i prossimi migranti climatici

I dati sulle migrazioni sono impressionanti: il pianeta è sempre più privo di spazi per abitare e sopravvivere decentemente. Nel 2015 In totale, il numero di persone che ha richiesto l’intervento dell’Unhcr ammontava a almeno 35.833.400. A metà 2018 stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati: 65.6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. Normalmente associamo l’immigrato ad una donna o uomo di colore proveniente dall’Africa. Ma il cambiamento di temperatura avvolge l’intero pianeta e riduce gli spazi vitali complessivi.

Chomsky in una recente intervista a “Il manifesto Alias” dell’8 Settembre, fa risalire al negazionismo climatico, sbandierato dalle élite mondiali, il clima di esclusione, respingimento, paura e involuzione democratica che prende corpo negli elettorati. Non sostengo che la questione migranti o l’attacco al lavoro e al welfare dipendono solamente dall’espulsione di un intervento di mitigazione del clima dall’elenco delle emergenze nell’agenda dei governanti. Tuttavia vorrei sostenere il collegamento sempre più vasto eppure sottaciuto tra crisi ambientale, immigrazione e esclusione. In effetti, non avere come sfondo la rigenerazione della Terra intera, serve ad accreditare un sovranismo chiuso a difesa di casa propria, ad espellere disumanamente migranti e rifugiati ambientali e a cercare illusorie soluzioni protezioniste anche quando la vendetta della natura sui nostri comportamenti comincia a colpire anche le nostre terre ricche.

Cominciamo da due notizie rilevanti.

Il gigante delle riassicurazioni Swiss Re (compagnia che vende polizze di assicurazione ad altre compagnie assumendosi una parte dei loro rischi) ha reso noto a Settembre 2017 un nuovo rapporto che fa la graduatoria globale delle città minacciate da disastri naturali e climatici e che quindi registrerà massicci spostamenti di abitanti. La classifica globale, che tiene conto della popolazione potenzialmente colpita espressa in milioni di persone è la seguente: Tokyo-Yokohama (Giappone) 57,1, Manila (Filippine) 34,6, Delta del Fiume delle Perle (Cina) 34,5, Osaka-Kobe (Giappone) 32,1, Giakarta Indonesia) 27,7, Nagoya (Giappone) 22,9, Calcutta (India) 17,9 Shanghai (Cina) 16,7, Teheran (Iran) 15,6. La collocazione prevalente è verso il mare (non nei deserti e nelle steppe già in parte abbandonati) proprio a causa dell’innalzamento delle acque e la violenza degli scambi termici (tifoni e piogge).

Da più di quindici giorni una testata prestigiosa come il Guardian raccoglie e pubblica dati esemplari sull’allontanamento dalle proprie terre e sull’impoverimento dovuto alle crescenti catastrofi climatiche nelle zone ricche del mondo. Partendo dall’America e con un titolo shock, “Americani: i prossimi migranti climatici”, descrive e quantifica sotto il profilo dell’abitare e sopravvivere gli effetti dell’uragano Sandy nel 2012 su differenti quartieri di New York e la distruzione recentissima da parte di “Florence” sulla North Carolina, che tratterò la prossima volta.

Gran parte delle abitazioni pubbliche di New York è circondata dall’acqua, a Red Hook, a Coney Island, a Lower East Side, ai Rockaways. Il quartiere di Brooklyn, una penisola circondata dall’acqua, si è rivelata una pianura alluvionale dopo l’uragano Sandy nel 2012. I valori di mercato delle case sono scesi, ma i più ricchi si sono spostati nella zona centrale dei grattacieli.

Red Hook ha uno dei più antichi e più grandi progetti di edilizia pubblica d’America. Più della metà dei dodicimila residenti di Red Hook sono inquilini della New York City Housing Authority. Nelle strade del quartiere le inondazioni sono state pesanti e secondo le proiezioni degli scienziati, i moli della città svaniranno sotto l’alta marea nel 2020. Entro il 2080, l’alta marea normale invaderà alcune strade. Una parte di Van Brunt Street, l’arteria principale di Red Hook, dovrebbe essere allagata ogni giorno. Qui, dove la gente è più povera, il mercato delle case danneggiato ha attirato compratori di ceto medio e speculatori per affari a breve termine.

Red Hook ha una storia di comunità solida e molti dei suoi abitanti non hanno intenzione di vendere la casa in cui sono cresciuti. Una migrazione verso zone rurali a basso costo potrebbe salvare i residenti sul lungomare di lunga data dall’innalzamento delle acque, ma non li salva dalla perdita delle loro case e dei rapporti cui sono affezionati. Senza investimenti governativi nella protezione dalle inondazioni, sono in imminente pericolo. Le megalopoli di Londra, Tokyo, Rotterdam e Shanghai hanno installato parapetti, barriere anti-tempesta, super-argini e anelli per tenere l’acqua fuori dalle strade. New York no e se lo facesse, li preserverebbe per un po’. Gli speculatori con cinismo assicurano che “si faranno parapetti prima di 30 o 40 anni e solo dopo la terra si allagherà.”

In sostanza, l’effetto dei più frequenti uragani in America si concretizza nel fatto che i ricchi possono permettersi di muoversi, mentre i poveri non ne hanno possibilità. L’effetto vale anche per la siccità e le temperature crescenti. Mentre le persone fuggono il calore intenso in Arizona per climi più miti, i valori di noleggio e proprietà salgono continuamente e le banche non allungano crediti a chi ha patrimoni irrilevanti o case minacciate. Alcuni residenti di una città progressista, Juad Suarez, a 300 miglia a nord del confine messicano hanno adottato lo slogan “costruisci il muro” di fronte a un’ondata di nuovi arrivati. Ma questi interlocutori percepiti sono nettamente diversi dall’immaginazione di Donald Trump. Sono americani, principalmente bianchi e stanno fuggendo dal caldo invivibile.

Lo chiamano un modello di gentrificazione (trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni) dettata dal clima. Fenomeno che si sta diffondendo negli Stati Uniti, poiché coloro che sono in grado di ritirarsi da inondazioni, tempeste, ondate di calore e incendi boschivi si spostano verso aree più sicure, portando con sé proprietà in ascesa e valori locativi. Ma dove andranno a vivere le persone a basso reddito? Basterà odiare, perseguitare e privare di diritti persone di colore diverso?

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Libertà di parola, la solitudine del mondo operaio

Sentenza sui licenziamenti a Pomigliano

Mario Agostinelli ex segretario Gen. CGIL Lombardia

La vicenda del rilicenziamento dei cinque operai di Pomigliano da parte di FCA è noto per l’esposizione, da parte di manifestanti fuori dal loro orario e luogo di lavoro, di un fantoccio di Marchionne, che in effige si impicca da sé, dicendosi pentito per i suicidi che erano seguiti alle angherie sui dipendenti da lui segregati in un reparto confino a Nola. All’immediato licenziamento degli operai aveva fatto seguito una sentenza di reintegro da parte del tribunale di Napoli, contro cui FCA ha fatto ricorso in Cassazione.

La sentenza di questo autorevole organo della Magistratura, che ha articolato senza pretese di equidistanza le motivazioni a sostegno dell’allontanamento dei cinque dal lavoro e dal salario maturato, va considerata come un segno amaro e preoccupante dei tempi. Un segnale che va contrastato nella sostanza, per i valori di cui si fa interprete contro l’autonomia del lavoro e a favore della supremazia dell’impresa. E questa asimmetria avanza giorno dopo giorno nella solitudine del mondo operaio e proprio anche quando i contendenti continuano a confliggere aspramente. Questo avviene nella disattenzione dell’opinione pubblica e, purtroppo, in assenza, dopo l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, di un arbitro che restituisca simmetria al diritto al lavoro rispetto agli interessi dell’impresa. Vengono oggi ridefiniti nella pratica – e anche purtroppo nella più recente giurisprudenza – vincoli non più in sintonia con l’art.1 o l’art. 21 della Costituzione, come nel caso del malinteso “obbligo di fedeltà” da parte della lavoratrice o del lavoratore cui ha fatto riferimento la sentenza della Cassazione.

Diciamolo con nettezza: un obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro che non sia quello della segretezza o del know-how dell’impresa, appare come un “valore apocrifo”, tale per cui l’adesione ad un contratto di lavoro consegnerebbe le convinzioni personali al giudizio dell’impresa. Nel caso in questione si è innalzato il potere dell’azienda al di sopra dello Statuto dei Lavoratori e in contrasto con l’art. 21 della Costituzione, che tutela la libertà di opinione in ogni sua manifestazione, attuando così la rinuncia di condizionare il mercato a tutela dei lavoratori come corpo sociale dotato di diritti inalienabili una volta conquistati.

Vero è che il caso del licenziamento in ultima istanza dei cassintegrati Fiat, colpevoli di aver espresso, anche in modo brusco, dolore e rabbia per il suicidio di tre compagni di lavoro, si presenta a noi tutti come un fatto di straordinaria importanza sul piano della libertà e di quella democrazia “che ha varcato – come ripeteva Vittorio Foa – i cancelli della fabbrica”. Non si tratta, quindi, di uno sgradevole episodio di relazioni industriali o di provvedimenti attinenti ai comportamenti di questa o quella organizzazione sindacale.

 Ormai trova corso anche in settori della magistratura la rimozione dell’intralcio che il cuneo dell’art.18 della legge 300 poneva tra l’impresa e il lavoro, affidando il ruolo di arbitro nei licenziamenti senza giusta causa al potere e al rispetto della Costituzione, assicurato non dall’impresa o dal sindacato, ma dalla garanzia statuale messa in atto dal Giudice. Nella sentenza della Cassazione, che cassa, su ricorso della FCA, le decisioni del tribunale di Napoli sul reintegro dei 5 manifestanti licenziati, rimane in ombra quella responsabilità sociale fatta valere dal “terzo potere” dello stato contro il sistema delle imprese e il dispotismo padronale in fabbrica.

Sanzioni all’Ungheria, uno schiaffo in faccia a Salvini

Ma quanti se lo aspettavano? Il Parlamento europeo ha fatto mercoledì 12 settembre un primo passo per imporre una sanzione storica all’Ungheria, raccomandando di applicare l’articolo 7 dei Trattati, che includerebbe come pena per il governo xenofobo e autoritario di Orban la perdita del diritto di voto al nel Consiglio dell’Unione Europea. Anche se la gran parte dei nostri media nazionali sono concentrati e quasi ammaliati dalle virtù più arroganti di Salvini, dovranno pur accorgersi che si è consumato un fatto politico di enorme portata: con 448 voti a favore e 197 contro, il Parlamento ha approvato una relazione che sostiene che il governo magiaro sta mettendo a rischio i valori fondamentali dell’Europa.

Solo ieri (12 Settembre) Stefano Folli su “Repubblica” affermava che “i leghisti ormai rappresentano lo spirito dei tempi” e che “dalla vicenda europea “Salvini avrebbe ottenuto una più solida egemonia sull’area di centrodestra”. Evidentemente era convinto che il voto in plenaria in Parlamento sarebbe stata una questione tra furbi e smaliziati e chi, secondo la nostra stampa, lo è più di Salvini o più di Orban nell’area di cetrodestra?

Invece, per la prima volta, un Parlamento, rappresentativo dei 27 Paesi membri, ha approvato a stragrande maggioranza un dossier considerato come “un’arma nucleare”, a causa della sua natura dissuasiva di fronte a derive autoritarie e agli evidenti rischi politici coinvolti nel suo utilizzo. L’approvazione del rapporto – che espressamente dice che sono forti le “preoccupazioni europee in merito all’indipendenza del sistema giudiziario, alla libertà d’espressione e ai diritti delle minoranze e dei migranti in Ungheria. Questi ultimi si trovano ad affrontare un regime sempre più repressivo a seguito dell’adozione di leggi che limitano fortemente le possibilità di richiedere asilo nel paese.

Dobbiamo stigmatizzare concetti contrari ai valori europei, quali “nessuna popolazione straniera potrà stabilirsi in Ungheria” o il reato di promozione dell’immigrazione clandestina destinato a colpire a Ong che offrono soccorso ai migranti” – ha già scatenato un’enorme crepa nel Ppe, la famiglia politica del partito di Orbán, ma anche della Merkel.

Il rapporto, redatto dalla parlamentare verde olandese Judith Sargentini, richiedeva il voto favorevole dei due terzi dei voti espressi, con un minimo di 376. Il risultato è sorprendente, perché Orban, Salvini, Kaczynski, gli esponenti di destra austriaci e bavaresi come Seehofer e Kurz ostentavano un patto per assolvere l’Ungheria, contando sull’improbabilità di una spaccatura così netta dei parlamentari del Ppe. Anche a costo della rinuncia ai valori sociali e democratici in un’Europa dove la grancassa dei sovranisti e dei populisti annuncia da tempo la fine di un processo di smarcamento dell’Unione rispetto al neoliberismo più smodato e alle intromissioni di Trump nelle fazioni europee legate dal patto di Visegrad.

Le ramificazioni politiche del caso ungherese sono di ampia portata, perché Orbán appartiene alla più grande famiglia politica in Europa, in cui militano leader nazionali come Angela Merkel, Silvio Berlusconi, Pablo Casado e Sebastian Kurtz, o autorità della comunità come Jean-Claude Juncker (presidente della Commissione), Donald Tusk (presidente del Consiglio) o Antonio Tajani (presidente del Parlamento europeo).

La foto di Orban e Salvini sorridenti non ha quindi entusiasmato abbastanza Bruxelles e Strasburgo e lo schiaffo alle aree estremiste è stato tonante, anche in vista delle prossime elezioni nella Comunità. Allora, perché i nostri media hanno quasi glissato sulla notizia e continuano a schiacciare i nostri ascolti e le nostre letture sulla diatriba DiMaio-Salvini con l’incomodo ministro Tria? Credo che si faccia avanti un’area potente, silenziosa e un poco sottotraccia, che cerca consensi lontano dalla democrazia rappresentativa, dall’angoscia per il clima, dalle disuguaglianze che caratterizzano il sistema, dalla politica che costituzionalmente dà potere ai cittadini e che mistifichi questi diritti con un’attenzione spasmodica alle lotte interne, alla banalità, ai personalismi che escludono partecipazione.

Il voto di mercoledì pomeriggio a Strasburgo sullo stato della democrazia in Ungheria e sullo smantellamento dello stato di diritto va realmenteinterpretato come un ricorso al diritto per combatterne il suo rovescio. Se l’esito della vicenda resta ancora tutto da scrivere, – il processo sarà molto complicato. La risoluzione del Parlamento, deve essere approvata da una maggioranza qualificata nel Consiglio dei ministri dell’Ue e Paesi come la Polonia, la Slovacchia, la Romania, Malta, la Repubblica Ceca o anche l’Italia, probabilmente resisteranno alle indagini sul governo di Orbán.

Possiamo tuttavia contare che, con tutte le riserve che abbiamo purtroppo sperimentato da Maastricht in poi, il diritto europeo può restare ancora una difesa della democrazia di fronte all’insorgere dell’autoritarismo. Ossia, la lotta del diritto contro il suo rovescio. Purché i cittadini ritornino ad essere partecipi e protagonisti: In gioco non c’è solo la tenuta dello Stato di diritto in Polonia e Ungheria, c’è la futura direzione dell’Unione e dell’Europa: aperta e democratica, oppure chiusa e autoritaria. In questo senso il pugno in faccia ad Orban è uno schiaffo a Salvini e alle illusioni che lui ama disinvoltamente a coltivare.

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