Tap, per dire no bastava scegliere di ridurre i consumi

di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

Ci sono elementi che da sempre sono stati considerati alla base di una buona politica energetica: la diversificazione delle fonti, la riduzione della dipendenza dalle forniture estere e, nell’ambito della fornitura di fonti fossili, la diversificazione dei fornitori per non essere ostaggio di nessuno. Elementi fondamentali per un Paese come l’Italia, affamato di energia, ricca di fonti naturali, ma senza grandi giacimenti di petrolio e gas fossili. La progressiva incidenza delle Fer e la riduzione dell’intensità energetica hanno contribuito, negli ultimi anni, alla riduzione della dipendenza del nostro Paese dalle fonti di approvvigionamento estere. La quota di fabbisogno energetico nazionale soddisfatta da importazioni nette rimane elevata (pari al 76,5%) ma più bassa di circa sei punti percentuali rispetto al 2010. Quindi, generazione da Fer ed efficienza energetica sono le migliori armi per ridurre la dipendenza dall’estero e aumentare la propria indipendenza. Una considerazione banale ma troppo spesso trascurata.

Dopo un decennio di riduzione dei consumi energetici però, lo scorso anno, la domanda di energia primaria è tornata a crescere (+1,5% rispetto al 2016); e l’energia in più di cui abbiamo avuto bisogno è venuta soprattutto dal gas, il cui contributo al bilancio energetico nazionale è salito al 36,2%. 

Le rinnovabili, come segnalato in precedenti post, continuano a essere stazionarie, nel 2017 segnano un lievissimo aumento passando dal 19,1% al 19,2% del bilancio energetico nazionale, il resto è fossile. Di conseguenza, aumentando la domanda e non aumentando proporzionatamente le fonti Fer, il nostro grado di dipendenza dall’estero, è peggiorato.

Ma torniamo al gas. Nel 2017 la domanda di gas naturale è stata pari a 75,2 miliardi di metri cubi, con una crescita di circa 4,3 miliardi (+6,0%) rispetto ai 70,9 miliardi del 2016. Tale domanda è stata coperta per il 7% dalla produzione nazionale e per il 93% attraverso l’importazione. In particolare, la produzione nazionale di gas naturale è stata pari a 5,5 miliardi di metri cubi in riduzione del 4,3% rispetto al 2016, l’importazione è stata pari a 69,7 miliardi di metri cubi con un incremento del 6,7% rispetto al 2016. L’unico dato positivo da segnalare è che circa 9 milioni di metri cubi di gas sono stati prodotti dall’impianto di biometano di Montello (Bg).

Le importazioni via gasdotto sono state pari a 61 miliardi di metri cubi, ma dai nostri “tubi” con l’estero abbiamo una capacità di import pari a circa 114 miliardi di mc l’anno (Fonte Mise). Quindi molto più che sufficienti. Da dove è venuto l’aumento dei consumi? Soprattutto dalle centrali termoelettriche (2,5 miliardi di metri cubi in più (+10,5%). Quindi in sintesi la nostra scelta è di bruciare più gas per fare elettricità, piuttosto che installare più pannelli solari o pale eoliche. Questo dicono i numeri. Da quattro anni il numero dei nuovi pannelli installati è sufficiente solo a compensare il degrado di quelli installati dieci anni fa, mentre per centrare i target Ue al 2030 si dovrebbero installare in media 4 Gw di nuovi impianti all’anno, contro i 0,4 (400 Mw) che installiamo.

La scelta fossile è esplicitata dalle politiche: l’ok al Tap, anche da parte di chi lo ha sempre contestato a fronte di nessuna misura di incentivazione alle fonti rinnovabili è un messaggio chiaro. Dall’inizio di questa legislatura energia e clima sono sparite dal dibattito politico, azzerate. Eppure, per dire no al Tap non serviva alcuna analisi, bastava scegliere di ridurre i consumi decidendo di fare elettricità con sole, vento e terra. Se oggi abbiamo capacità di import pari quasi al doppio dei consumi basta decidere di non farli aumentare di più scegliendo di portare avanti quella rivoluzione energetica che il nostro Paese aveva iniziato anni fa, lasciandola poi languire negli ultimi anni. Ma, soprattutto, serviva scegliere di proteggere il clima, di far qualcosa non solo propagandistico di fronte alle coste devastate della Liguria o ai milioni di alberi morti nel bellunese o ai morti in Sicilia nell’ondata di maltempo che ha violentato alcune nostre terre.

Anche perché il metano è una delle molecole più climalteranti, molto peggio della CO2; l’Ipcc stima che sia responsabile del 20% del riscaldamento climatico e studi pubblicati anche sul prestigioso Nature hanno rivelato che il 2,3% del metano estratto riesce a “scappare” in atmosfera. Investire nel clima sarebbe stata l’occasione anche per investire soldi generando lavoro (in un anno “scarso” come il 2017 si stima comunque che alle attività legate alla realizzazione e gestione di nuovi impianti alimentati da Fer siano corrisposte circa 70mila unità di lavoro permanenti e 44mila temporanee), riducendo l’inquinamento dell’aria, avviando finalmente anche nel nostro Paese lo sviluppo della mobilità elettrica che deve andare di pari passo con l’aumento della generazione da fonti rinnovabili perché ne è complementare.

Il nostro è uno dei Paesi col più alto tasso di motorizzazione, cioè col rapporto più alto fra cittadini e numero di automobili: 62,4 auto ogni 100 abitanti, dato che ci pone al sesto posto della classifica mondiale. Quindi tanto lavoro da fare. Nei primi 10 mesi dell’anno sono state immatricolate 1.649.678 automobili, di cui elettriche pure solo 4.167, +150% rispetto al corrispondente periodo dello scorso anno ma comunque pari allo 0,3% del totale. Il precedente ministro delle attività produttive aveva annunciato un milione di auto elettriche entro il 2022. Ma rimane un annuncio, che nemmeno l’attuale ministro ha in qualche modo ripreso, mentre resta al palo la creazione di una rete nazionale di colonnine di ricarica, nelle mani al più delle iniziative delle singole imprese elettriche, che guardano al di là del naso del trio di governanti intenti a litigare e riappacificarsi subito dopo con grande dispendio di energia.

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Verso la COP24: scienziati e governi su strade diverse

di Roberto Meregalli

Non ha trovato molto spazio sui mass media la notiziadella pubblicazione (l’8 ottobre corso) della Sintesi per DecisoriPolitici dello “SpecialReport on Global Warming of 1,5 °C”, che costituirà, ovviamente,il riferimento scientifico per la Conferenza delle Parti (COP24) dellaConvenzione quadro dell’ONU sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) che avrà luogoin Polonia a fine anno (Katowice, 2-13 dicembre 2018).

Agli scienziati che per conto della Nazioni Unite seguono le vicende dei cambiamenti climatici, era stata chiesta un’analisi sulle reali possibilità di contenere l’innalzamento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi (rispetto ai livelli preindustriali), limitando l’aumento a 1,5 °C.

E la loro risposta è che limitare l’aumento a mezzo grado in più (siamo già ora a un grado in più), si può ancora fare ci eviterebbe un sacco di problemi.

Ad esempio, entro il 2100 l’innalzamento del livello del mare su scala globale sarebbe più basso di 10 cm con un riscaldamento globale di 1,5 °C rispetto a 2 °C. La probabilità che il Mar Glaciale Artico rimanga in estate senza ghiaccio marino sarebbe una in un secolo, mentre sarebbe di almeno una ogni decennio con un riscaldamento globale di 2 °C. Le barriere coralline diminuirebbero del 70-90% con un riscaldamento globale di 1,5 °C, mentre con 2 °C se ne perderebbe praticamente la totalità (oltre il 99%).

Agire dunque per evitare il peggio, questo è il messaggio. Messaggio terribile da recepire in un mondo di irresponsabili e dilettanti al potere. Purtroppo non si raccolgono voti praticando responsabilità e visione del futuro, si raccolgono esattamente seguendo la strada contraria.

Esemplare il fatto che il Consiglio Ambiente dell’UE, svoltosi all’indomani della diffusione del Rapporto speciale dell’IPCC, nonostante il Parlamento europeo avesse chiesto la riduzione delle emissioni auto del 40% al 2030, abbia faticosamente stabilito di ridurre le emissioni delle auto del 15% al 2025 e del 35% entro il 2030.

La verità è che dal 2030 non dovremmo più avere incommercio auto diesel o benzina! Tornando a casa nostra la situazione è di stasi totale.

Tutto fermo nella decarbonizzazione del sistema energetico. Viviamo della rendita del boom del solare del 2011 (governo Berlusconi IV) e su quella scia abbiamo raggiunto con cinque anni di anticipo i target europei del 2020. Ma quelli stabiliti per il 2030 al momento rimangono una chimera. Lo continuano a ricordare i rapporti trimestrali dell’Enea, il terzo del 2018 ribadisce che per il quarto anno consecutivo, la quota di FER sui consumi finali potrebbe perfino ridursi, continuando ad oscillare intorno al 17,5% raggiunto nel 2015. Rimaniamo inchiodati a quell’anno.

La prima metà del 2018 ha confermato la tendenza registrata negli ultimi tre anni riguardo all’evoluzione della produzione da fonti rinnovabili. Secondo le elaborazioni dell’osservatorio FER (su dati Terna) la nuova potenza eolica, fotovoltaica e idroelettrica connessa nei primi sei mesi del 2018 è stata pari a 334 MW, una variazione inferiore del 39% rispetto ai 551 MW installati nella prima metà del 2017. Viaggiamo ad un ritmo di incremento di installazioni di fotovoltaico ed eolico, le tecnologie da cui sono attesi i maggiori contributi per il raggiungimento degli obiettivi 2030, pari allo 0,5% – 2%. Una inezia rispetto ai target della Strategia Energetica Nazionale (SEN) al 2030, considerata pessima dall’opposizione ora al governo, ma i cui obiettivi green appaiono ora un miraggio nel deserto delle proposte legislative concrete.

Quello che si registra di nuovo è solo l’ok al gasdotto TAP, quindi un atto perfettamente in linea con le linee pro-gas di tutti i precedenti esecutivi; e che si sarebbe finiti per approvarlo nonostante le tonnellate di dichiarazioni contrarie lo si era capito quando Tony Blair (consulente della società partecipata da British Petroleum, dalla norvegese Statoil e dal gruppo pubblico dell’Azerbaigian Soca), ai primi di settembre era sceso in Italia ad incontrare Matteo Salvini (inutile sottolineare che l’incontro non sia avvenuto col ministro della attività produttive sotto la cui competenza ricadrebbe il capitolo energetico). Salvini aveva commentato che col nuovo gasdotto le bollette degli italiani sarebbero state meno care.

In verità il prezzo del gas è aumentato di parecchio quest’anno e di conseguenza anche quello dell’elettricità perché “a fare” il prezzo dell’elettricità è ancora il gas essendo ancora il re della generazione. A settembre il prezzo dell’energia in borsa (il Pun) ha toccato i massimi da ottobre 2012, salendo a 76,32 €/MWh, più che doppio rispetto ad un anno fa (+57,0%). Aumento conseguenza di quello del gas che a settembre 2018 ha aggiornato il record dal 2014 con quasi 30 €/MWh (+11 €/MWh su settembre 2017). Ergo il futuro delle nostre bollette non è per nulla roseo, chiedetelo all’ARERA, l’Autorità competente.

Non è di consolazione constatare che non siamo in controtendenza ma allineati col trend degli altri paesi. Il Rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia sugli investimenti energetici globali ha confermato che tutto il mondo procede ad un passo che non permetterà di raggiungere gli obiettivi energetici e climatici, fissati dall’Agenda ONU 2030 e dall’Accordo di Parigi.

Gli investimenti globali combinati nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono diminuiti del 3% nel 2017, quelli nelle energie rinnovabili, che rappresentano i due terzi delle spese per la produzione di energia elettrica, sono addirittura calati del 7%. Certo è anche conseguenza del calo dei costi ma non è solo questo.

Terribile che gli investimenti delle imprese di proprietà statale siano rimaste più legate a petrolio e gas e alla produzione di energia termica di quanto non lo siano state le imprese private. Come dire che oggi è il “mercato” a guidare la generazione rinnovabile e non le istituzioni pubbliche. E’ la discesa dei costi del fotovoltaico passati dai 72$ per MWh dell’asta 2014 in Brasile ai soli 18$ dell’asta 2017 in Arabia Saudita a rendere il fotovoltaico competitivo e “amato” dalle utility, è il fatto che col vento e col sole il ritorno degli investimenti è semplicemente più rapido rispetto alle fossili.

In questo momento storico in cui sembra mancare la capacità, direi la consapevolezza, che solo decisioni collettive e responsabili possono condurci a soluzione di problemi che sono planetari viene da chiedersi se l’unica speranza sia da riporre nelle mani di un business illuminato.

Cambiamenti climatici: gli scienziati mandano un messaggio terribile, ma i governi non ascoltano

Non ha trovato molto spazio sui mass media la notizia della pubblicazione (l’8 ottobre scorso) della Sintesi per Decisori Politici dello Special Report on Global Warming of 1,5 °C, che costituirà il riferimento scientifico per la Conferenza delle Parti (Cop24) della Convenzione quadro dell’Onu sui Cambiamenti Climatici (Unfccc), che avrà luogo in Polonia il mese prossimo (Katowice, 2-13 dicembre 2018).

L’aumento di temperatura dovuto all’azione antropogena sarà duraturo e non uniforme sulla Terra: in effetti durerà per secoli (per la stabilità della CO2) e continuerà a causare ulteriori cambiamenti nel sistema climatico anche a lungo termine. D’altra parte, un riscaldamento superiore alla media annuale globale viene già ora sperimentato in molte regioni della terra e in diverse stagioni, in particolare nell’Artico. Il riscaldamento è generalmente più alto sui continenti che sui mari e purtroppo si registra con più intensità in regioni terrestri molto abitate e in genere assai povere.

Agli scienziati che per conto della Nazioni Unite seguono le vicende dei cambiamenti climatici, era stata chiesta un’analisi sulle reali possibilità di contenere l’innalzamento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi (rispetto ai livelli preindustriali), limitando l’aumento a 1,5 °C. Le loro conclusioni sono allarmanti. Si stima che le attività umane abbiano già causato circa +1,0 °C di riscaldamento globale. Se la temperatura continuasse ad aumentare al ritmo attuale, con un andamento che dal 2000 non è ormai più lineare, è probabile che si raggiungano +1,5 °C tra il 2030 e il 2052. L’inquietudine degli scienziati si manifesta nel monito che un aumento dagli effetti irrimediabili può essere evitato solo se le emissioni globali di CO2 iniziano a diminuire ben prima del 2030, cosa del tutto improbabile.

Lo studio compara i risultati a +2 °C con quelli auspicati di mezzo grado in meno. Ad esempio, entro il 2100 la crescita media su scala globale del livello del mare sarebbe più bassa di 10 cm. Un ritmo più lento di innalzamento del livello del mare consente maggiori opportunità di adattamento nei sistemi umani ed ecologici nelle piccole isole, nelle zone costiere basse e nei delta (Venezia e Aquileia). Le barriere coralline con un aumento di 1,5, diminuirebbero del 70-90%, mentre con 2 °C se ne perderebbe praticamente la totalità (oltre il 99%) e si registrerebbe la scomparsa di un numero elevato di ecosistemi. I rischi legati al clima per i sistemi naturali e umani diventerebbero più elevati e differenti da luogo a luogo. Con dettagli e grafici, il report dimostra che il problema del cambiamento climatico ha una relazione diretta con migrazioni e povertà, mentre suggerisce vivamente politiche di transizione rapide e di vasta portata nel sistema energetico e nell’agricoltura oltre a una particolare attenzione a città, infrastrutture (incluso trasporti ed edifici) e sistemi industriali (economia ciclica).

Le transizioni di sistema che vengono richieste sono senza precedenti in termini di scala e implicano riduzioni delle emissioni in tutti i settori, un ampio portafoglio di opzioni di mitigazione e un significativo spostamento degli investimenti su opzioni ambientali.

In Italia la situazione è di stasi totale: tutto fermo nella decarbonizzazione del sistema energetico; si vive della rendita del boom del solare del 2011 (governo Berlusconi IV) e su quella scia si sono raggiunti con cinque anni di anticipo i target europei del 2020. Ma quelli stabiliti per il 2030 al momento rimangono una chimera. Lo continuano a ricordare i rapporti trimestrali dell’Enea. Il terzo del 2018 ribadisce che per il quarto anno consecutivo, la quota di Fer sui consumi finali potrebbe perfino ridursi, continuando ad oscillare intorno al 17,5% raggiunto nel 2015. Rimaniamo inchiodati a quell’anno. Secondo le elaborazioni dell’osservatorio Fer (su dati Terna) la nuova potenza eolica, fotovoltaica e idroelettrica connessa nei primi sei mesi del 2018 è stata pari a 334 MW, una variazione inferiore del 39% rispetto ai 551 MW installati nella prima metà del 2017.

Quello che si registra di nuovo è solo l’ok al gasdotto TAP, quindi un atto perfettamente in linea con le linee pro-gas di tutti i precedenti esecutivi (in un nostro precedente post abbiamo parlato della necessità di ribaltare quella decisione nonostante le tonnellate di dichiarazioni contrarie).

Salvini aveva commentato che col nuovo gasdotto le bollette degli italiani sarebbero state meno care. In verità il prezzo del gas è aumentato di parecchio quest’anno e di conseguenza anche quello dell’elettricità perché “a fare” il prezzo dell’elettricità è ancora il gas, essendo oggi in Italia il re della generazione. A settembre il prezzo dell’energia in borsa (il Pun) ha toccato i massimi da ottobre 2012, salendo a 76,32 €/MWh, più che doppio rispetto ad un anno fa (+57,0%.)

Il Rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia sugli investimenti energetici globali ha confermato che tutto il mondo procede a un passo che non permetterà di raggiungere gli obiettivi energetici e climatici, fissati dall’Agenda Onu 2030 e dall’Accordo di Parigi. Gli investimenti globali combinati nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono diminuiti del 3% nel 2017, quelli nelle energie rinnovabili, che rappresentano i due terzi delle spese per la produzione di energia elettrica, sono addirittura calati del 7%.

Terribile che gli investimenti delle imprese di proprietà statale siano rimaste più legate a petrolio e gas e alla produzione di energia termica di quanto non lo siano state le imprese private. È la discesa dei costi del fotovoltaico passati dai 72$ per MWh dell’asta 2014 in Brasile ai soli 18$ dell’asta 2017 in Arabia Saudita a rendere il fotovoltaico competitivo e “amato” dalle utility: è il fatto che col vento e col sole il ritorno degli investimenti è semplicemente più rapido rispetto alle fossili.

Agire dunque per evitare il peggio, questo è il messaggio inascoltato che viene dagli scienziati dell’Unfccc. Messaggio terribile, da recepire in un mondo di irresponsabili e dilettanti al potere, inebriati dal fatto che non si raccolgono voti praticando responsabilità e visione del futuro.

Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

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Tap, quanto conviene costruire un gasdotto che nasce obsoleto?

Se si vuole riconquistare il cuore delle persone e una coscienza collettiva responsabile, non si può nello stesso giorno titolare le prime pagine con il disappunto per le devastazioni climatiche e sferrare attacchi violenti a chi si oppone all’approdo di un ulteriore gasdotto sulla Penisola, oltre i sei già attivi. Bloccare la Tap riguarda una questione non certo locale, ma un passaggio essenziale della strategia energetica futura del Paese. Alle argomentazioni nettamente contrarie alla decisione del governo, che con forza sono state già evidenziate in molti interventi (per tutte si vedano i documenti riportati in questi giorni dal sito www.labottegadelbarbieri.org) e che vengono da tempo articolate in numerosissime prese di posizione di comitati, associazioni e movimenti, voglio aggiungere qui tre ordini di riflessioni che espongono a verifica a tutto campo la marcia indietro dei 5Stelle.

Clima, Tap e transizione energetica

La transizione energetica già in rapido movimento, certamente limiterà i combustibili fossili. L’obiettivo dell’Accordo di Parigi 2015, concordato da oltre 200 nazioni indipendenti sul pianeta, è di mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C. Se la società lo farà, la maggior parte delle riserve di combustibili fossili dovranno rimanere sottoterra, incombuste. In particolare, le raccomandazioni della TCFD (la task force sulle informazioni finanziarie relative al clima, presieduta da Bloomberg, non certo un “sognatore”) mirano a offrire agli investitori, ai finanziatori e agli assicuratori visibilità su come il rischio di cambiamento climatico interesserà le singole imprese e una tabella di marcia alternativa a quella delle lobbies energetiche meno previdenti. Le aziende dovrebbero allineare i loro modelli di business ad un futuro al di sotto di 2°C. Dal momento che le aziende stesse considerano tutte le loro riserve come aventi un valore finanziario, devono contare su riserve che minimizzano l’alterazione del clima e, di conseguenza, non investire denaro in una risorsa che non si può “realizzare” in quanto potenzialmente incombusta. In caso contrario il rischio sarebbe di contribuire a creare una “bolla di carbonio”.

I governi dovrebbero fare ciò che hanno promesso di fare a Parigi anche solo per il buon andamento delle loro imprese e per una sana finanza globale. Gli stessi operatori del settore se ne preoccupano. In merito al futuro a medio termine del gas, Francesco Starace, amministratore delegato di Enel e presidente di Eurelectric, la federazione europea per l’elettricità, intervistato da Euractiv, ha affermato di pensare al gas solo come sostegno residuo alla transizione dei prossimi venti anni e ha aggiunto di essere addirittura perplesso sulla convenienza della costruzione di una nuova centrale a gas dato che “anche molte aziende non lo fanno”. “Penso – ha riflettuto nella conversazione – che l’industria abbia perso un po’ di tempo nel tentativo di resistere a ciò che è successo nella tecnologia e nel negare ciò che è accaduto nell’ambiente. Dobbiamo recuperare il tempo perso, visto che abbiamo finalmente una comprensione piena delle sfide”. Non certo – dico io – importando con la Tap dall’Arzebajan ulteriori 10 miliardi di metri cubi di gas dal 2020 per poi passare a 20, sapendo che quei giacimenti nel 2023 saranno in declino e che le rinnovabili saranno sempre più economiche.

Costi attuali e previsioni per il futuro

L’analisi del costo medio di nuova energia eolica e solare in 58 economie dei mercati emergenti – tra cui Cina, India e Brasile – dimostra che l’energia solare dallo scorso anno, per la prima volta, sta definitivamente e stabilmente diventando la forma più economica di elettricità nuova (v. Bloomberg, 18 dicembre, 2017). Di conseguenza, l’intera categoria di utilizzo del petrolio si sposterà dal mercato globale entro dieci anni. Si sta fuggendo dai combustibili fossili proprio come le industrie dei combustibili fossili manovrano i loro cappi alla Casa Bianca e contano sul gas come mantenimento di un sistema in crisi. Le ragioni si spiegano: non esiste una progettazione di mercato in grado di proteggere un’installazione obsoleta o una tecnologia che incomincia a non funzionare. Pertanto, oltre ai costi di una riconversione di filiera (che andranno indirizzati ad un futuro che garantisce occupazione, decarbonizzazione e riduzione “ vera” delle tariffe e delle bollette) e alle eventuali penali di dismissione (tutte da vedere e in capo ad un procedimento di arbitrato internazionale dove gli interessi sociali e le motivazioni, in particolare quelle climatico-ambientali, dovrebbero confluire) bisognerà considerare che l’Europa ha fissato per il 2050 al massimo la “carbon neutrality”, che comporta che ogni installazione fossile vada commisurata alla vita residua e, possibilmente, sostituita in risparmio o rinnovabili. E’ allora ancora necessario e conveniente un gasdotto nuovo per soddisfare adesso equilibri geopolitici e interessi di nuovi fornitori?

Se la geopolitica sovrasta la biosfera

Le ragioni di natura geopolitica, molto spesso, tendono a cedere il passo ad altri criteri come la posizione geografica dei fornitori, la stabilità politica e le disponibilità degli acquirenti. In Europa il problema più acuto rimane il passaggio o meno dei tubi dall’Ucraina. Politici di grande fama internazionale, a fine carriera hanno fatto da tramite per gli interessi dei due grandi contendenti del gas: Russia (esportatore) e America (ormai produttore). Brezinsky e Kissinger per le condotte dall’Azerbajan, Shröder per il gasdotto del Baltico, Blair per la Tap, hanno assunto responsabilità dirette e ben retribuite ai fini della realizzazione delle condotte fossili. In particolare, Blair, il lobbista ingaggiato dal consorzio che cura l’approdo in Puglia, ha incontrato Salvini il 4 settembre a Roma, sapendo che – a dispetto dei diversi trascorsi politici – incontrava l’interlocutore più forte del governo, che avrebbe fatto capitolare Di Maio come avvenuto. Geopolitica contro biosfera e benessere dei cittadini e al diavolo il sovranismo. Salvini, da par suo, ha dichiarato che “si tratta di spostare quattro piante”. Davvero?

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Cambiamenti climatici, Venezia e i patrimoni Unesco sono in pericolo. Dobbiamo intervenire

Spesso non teniamo conto di come il clima – che è influenzato dal nostro stile di vita – possa essere responsabile di trasformazioni dell’ambiente e di comportamenti umani che riguardano il futuro e di come, sottovalutando tale questione, la società perda un’occasione di prevenire solidaristicamente il rischio di perdite irrecuperabili.

Riprendo quanto già esposto in precedenti post dove si espone una correlazione tra crisi ambientale, immigrazione e cura della “casa comune”, che si deve affrontare a partire da una prospettiva di accoglienza e di investimento nel rigenerare la natura, con prospettive di lavoro e di benessere che lo sviluppo attuale non assicura affatto.

Dovremmo quindi prendere in considerazione alcune ipotesi su cui gli scienziati più seri stanno fornendo prove di tendenza da correggere con estrema urgenza. In particolare, nel giro di poche generazioni il Mediterraneo tende a inaridirsi e siti a noi cari potrebbero essere allagati in seguito all’innalzamento delle acque marine.

Il Mediterraneo nei prossimi 100 anni sarà più arido

Uno studio internazionale di Nature Communications, di cui è stata partner l’Università di Pisa e che ha coinvolto 12 istituzioni, prevede per il clima del Mediterraneo nei prossimi cento anni crescente aridità e minori precipitazioni medie, probabilmente concentrate in tempi brevi. Le conclusioni derivano da una ricerca molto complessa e durata anni sulle analogie fra l’ultimo periodo interglaciale e la situazione attuale. Lo studio dell’ultimo periodo interglaciale è particolarmente rilevante perché è stato caratterizzato da un intenso riscaldamento artico, con temperature più alte di alcuni gradi rispetto a quelle attuali e quindi paragonabili agli scenari di riscaldamento previsti per la fine di questo secolo.

Come conseguenza del riscaldamento, la ricerca ha stimato che il livello globale del mare nell’ultima epoca interglaciale sia stato di circa 6-9 metri superiore al livello attuale, un innalzamento in buona parte dovuto alla fusione della calotta glaciale della Groenlandia e che ”un tale scioglimento dei ghiacci potrebbe aver contribuito a un’instabilità, della circolazione oceanica del Nord Atlantico, con momenti di indebolimento corrispondenti a periodi di scarsità di precipitazioni in Europa” come affermato da Giovanni Zanchetta del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa.

Per definire in dettaglio i cambiamenti oceanici e atmosferici dell’Atlantico settentrionale e dell’Europa meridionale, i ricercatori hanno prodotto una sorta di “stele di rosetta stratigrafica”, analizzando una carota di sedimento marino proveniente dal margine atlantico della penisola iberica e confrontando i pollini e i cambiamenti della vegetazione registrati con l’andamento delle precipitazioni registrato nelle stalagmiti della grotta ”Antro del Corchia”, nel nord Italia.

Il collegamento tra Corchia e il margine atlantico della penisola iberica documenta come una serie di eventi aridi nell’Europa meridionale siano collegati alle espansioni di acqua fredda nell’Atlantico settentrionale. La datazione dei cambiamenti climatici già registrati in epoche passate è stata “sovrapposta” a quanto sta oggi accadendo a causa dell’attività umana e ne è stato così tratto il profilo climatico nella zona mediterranea nei prossimi cento anni. Se ne conclude che il progressivo riscaldamento che stiamo osservando possa generare in futuro un’instabilità del clima associata a fenomeni significativi di siccità.

Rischio prossimo di inondazioni

Quasi tutti i siti patrimonio dell’umanità che si affacciano sul Mediterraneo sono a rischio inondazione, ma a causa dell’innalzamento del mare questo rischio aumenterà del 50% entro la fine del secolo. In Italia sono ben 13 i siti ad alto rischio, a cominciare da Venezia e l’area archeologica di Aquileia.

A livello globale, il livello medio del mare aumenta di poco più di tre millimetri all’anno, mentre i ghiacciai e le calotte di ghiaccio si sciolgono e l’acqua degli oceani si riscalda. Con il progressivo aumento del livello del mare, le inondazioni costiere rischiano di diventare sempre più frequenti e intense. Capire quali saranno le altezze massime che si raggiungeranno durante eventi estremi dovuti al concorso anche di maree e uragani è essenziale per decidere per tempo le misure di difesa necessarie.

Eventi marini estremi possono spingere l’acqua al di là delle barriere costiere, inghiottire le case e inondare infrastrutture cruciali. È già successo e l’elenco riguarda i Paesi costieri, ricchi o poveri che siano. Le previsioni di inondazioni estreme sono rese confuse dall’incertezza sulla velocità con cui aumenteranno le emissioni di gas serra.

Per quanto ci riguarda, sempre Nature Communications segnala che, purtroppo, in cima alla lista delle località a più elevato rischio nel Mediterraneo vi sono gioielli italiani dell’alto Adriatico come Venezia e la sua laguna, l’area archeologica di Aquileia e anche Ferrara e in parte Ravenna. Se i pericoli sono reali – e vanno ben oltre il Mose – nasce l’opportunità, dato il loro valore simbolico, di promuovere campagne che sensibilizzino la popolazione sull’importanza primaria di mitigare i cambiamenti climatici.

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