Lo ha detto anche il Guardian: gli americani sono i prossimi migranti climatici

I dati sulle migrazioni sono impressionanti: il pianeta è sempre più privo di spazi per abitare e sopravvivere decentemente. Nel 2015 In totale, il numero di persone che ha richiesto l’intervento dell’Unhcr ammontava a almeno 35.833.400. A metà 2018 stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati: 65.6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. Normalmente associamo l’immigrato ad una donna o uomo di colore proveniente dall’Africa. Ma il cambiamento di temperatura avvolge l’intero pianeta e riduce gli spazi vitali complessivi.

Chomsky in una recente intervista a “Il manifesto Alias” dell’8 Settembre, fa risalire al negazionismo climatico, sbandierato dalle élite mondiali, il clima di esclusione, respingimento, paura e involuzione democratica che prende corpo negli elettorati. Non sostengo che la questione migranti o l’attacco al lavoro e al welfare dipendono solamente dall’espulsione di un intervento di mitigazione del clima dall’elenco delle emergenze nell’agenda dei governanti. Tuttavia vorrei sostenere il collegamento sempre più vasto eppure sottaciuto tra crisi ambientale, immigrazione e esclusione. In effetti, non avere come sfondo la rigenerazione della Terra intera, serve ad accreditare un sovranismo chiuso a difesa di casa propria, ad espellere disumanamente migranti e rifugiati ambientali e a cercare illusorie soluzioni protezioniste anche quando la vendetta della natura sui nostri comportamenti comincia a colpire anche le nostre terre ricche.

Cominciamo da due notizie rilevanti.

Il gigante delle riassicurazioni Swiss Re (compagnia che vende polizze di assicurazione ad altre compagnie assumendosi una parte dei loro rischi) ha reso noto a Settembre 2017 un nuovo rapporto che fa la graduatoria globale delle città minacciate da disastri naturali e climatici e che quindi registrerà massicci spostamenti di abitanti. La classifica globale, che tiene conto della popolazione potenzialmente colpita espressa in milioni di persone è la seguente: Tokyo-Yokohama (Giappone) 57,1, Manila (Filippine) 34,6, Delta del Fiume delle Perle (Cina) 34,5, Osaka-Kobe (Giappone) 32,1, Giakarta Indonesia) 27,7, Nagoya (Giappone) 22,9, Calcutta (India) 17,9 Shanghai (Cina) 16,7, Teheran (Iran) 15,6. La collocazione prevalente è verso il mare (non nei deserti e nelle steppe già in parte abbandonati) proprio a causa dell’innalzamento delle acque e la violenza degli scambi termici (tifoni e piogge).

Da più di quindici giorni una testata prestigiosa come il Guardian raccoglie e pubblica dati esemplari sull’allontanamento dalle proprie terre e sull’impoverimento dovuto alle crescenti catastrofi climatiche nelle zone ricche del mondo. Partendo dall’America e con un titolo shock, “Americani: i prossimi migranti climatici”, descrive e quantifica sotto il profilo dell’abitare e sopravvivere gli effetti dell’uragano Sandy nel 2012 su differenti quartieri di New York e la distruzione recentissima da parte di “Florence” sulla North Carolina, che tratterò la prossima volta.

Gran parte delle abitazioni pubbliche di New York è circondata dall’acqua, a Red Hook, a Coney Island, a Lower East Side, ai Rockaways. Il quartiere di Brooklyn, una penisola circondata dall’acqua, si è rivelata una pianura alluvionale dopo l’uragano Sandy nel 2012. I valori di mercato delle case sono scesi, ma i più ricchi si sono spostati nella zona centrale dei grattacieli.

Red Hook ha uno dei più antichi e più grandi progetti di edilizia pubblica d’America. Più della metà dei dodicimila residenti di Red Hook sono inquilini della New York City Housing Authority. Nelle strade del quartiere le inondazioni sono state pesanti e secondo le proiezioni degli scienziati, i moli della città svaniranno sotto l’alta marea nel 2020. Entro il 2080, l’alta marea normale invaderà alcune strade. Una parte di Van Brunt Street, l’arteria principale di Red Hook, dovrebbe essere allagata ogni giorno. Qui, dove la gente è più povera, il mercato delle case danneggiato ha attirato compratori di ceto medio e speculatori per affari a breve termine.

Red Hook ha una storia di comunità solida e molti dei suoi abitanti non hanno intenzione di vendere la casa in cui sono cresciuti. Una migrazione verso zone rurali a basso costo potrebbe salvare i residenti sul lungomare di lunga data dall’innalzamento delle acque, ma non li salva dalla perdita delle loro case e dei rapporti cui sono affezionati. Senza investimenti governativi nella protezione dalle inondazioni, sono in imminente pericolo. Le megalopoli di Londra, Tokyo, Rotterdam e Shanghai hanno installato parapetti, barriere anti-tempesta, super-argini e anelli per tenere l’acqua fuori dalle strade. New York no e se lo facesse, li preserverebbe per un po’. Gli speculatori con cinismo assicurano che “si faranno parapetti prima di 30 o 40 anni e solo dopo la terra si allagherà.”

In sostanza, l’effetto dei più frequenti uragani in America si concretizza nel fatto che i ricchi possono permettersi di muoversi, mentre i poveri non ne hanno possibilità. L’effetto vale anche per la siccità e le temperature crescenti. Mentre le persone fuggono il calore intenso in Arizona per climi più miti, i valori di noleggio e proprietà salgono continuamente e le banche non allungano crediti a chi ha patrimoni irrilevanti o case minacciate. Alcuni residenti di una città progressista, Juad Suarez, a 300 miglia a nord del confine messicano hanno adottato lo slogan “costruisci il muro” di fronte a un’ondata di nuovi arrivati. Ma questi interlocutori percepiti sono nettamente diversi dall’immaginazione di Donald Trump. Sono americani, principalmente bianchi e stanno fuggendo dal caldo invivibile.

Lo chiamano un modello di gentrificazione (trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni) dettata dal clima. Fenomeno che si sta diffondendo negli Stati Uniti, poiché coloro che sono in grado di ritirarsi da inondazioni, tempeste, ondate di calore e incendi boschivi si spostano verso aree più sicure, portando con sé proprietà in ascesa e valori locativi. Ma dove andranno a vivere le persone a basso reddito? Basterà odiare, perseguitare e privare di diritti persone di colore diverso?

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Libertà di parola, la solitudine del mondo operaio

Sentenza sui licenziamenti a Pomigliano

Mario Agostinelli ex segretario Gen. CGIL Lombardia

La vicenda del rilicenziamento dei cinque operai di Pomigliano da parte di FCA è noto per l’esposizione, da parte di manifestanti fuori dal loro orario e luogo di lavoro, di un fantoccio di Marchionne, che in effige si impicca da sé, dicendosi pentito per i suicidi che erano seguiti alle angherie sui dipendenti da lui segregati in un reparto confino a Nola. All’immediato licenziamento degli operai aveva fatto seguito una sentenza di reintegro da parte del tribunale di Napoli, contro cui FCA ha fatto ricorso in Cassazione.

La sentenza di questo autorevole organo della Magistratura, che ha articolato senza pretese di equidistanza le motivazioni a sostegno dell’allontanamento dei cinque dal lavoro e dal salario maturato, va considerata come un segno amaro e preoccupante dei tempi. Un segnale che va contrastato nella sostanza, per i valori di cui si fa interprete contro l’autonomia del lavoro e a favore della supremazia dell’impresa. E questa asimmetria avanza giorno dopo giorno nella solitudine del mondo operaio e proprio anche quando i contendenti continuano a confliggere aspramente. Questo avviene nella disattenzione dell’opinione pubblica e, purtroppo, in assenza, dopo l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, di un arbitro che restituisca simmetria al diritto al lavoro rispetto agli interessi dell’impresa. Vengono oggi ridefiniti nella pratica – e anche purtroppo nella più recente giurisprudenza – vincoli non più in sintonia con l’art.1 o l’art. 21 della Costituzione, come nel caso del malinteso “obbligo di fedeltà” da parte della lavoratrice o del lavoratore cui ha fatto riferimento la sentenza della Cassazione.

Diciamolo con nettezza: un obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro che non sia quello della segretezza o del know-how dell’impresa, appare come un “valore apocrifo”, tale per cui l’adesione ad un contratto di lavoro consegnerebbe le convinzioni personali al giudizio dell’impresa. Nel caso in questione si è innalzato il potere dell’azienda al di sopra dello Statuto dei Lavoratori e in contrasto con l’art. 21 della Costituzione, che tutela la libertà di opinione in ogni sua manifestazione, attuando così la rinuncia di condizionare il mercato a tutela dei lavoratori come corpo sociale dotato di diritti inalienabili una volta conquistati.

Vero è che il caso del licenziamento in ultima istanza dei cassintegrati Fiat, colpevoli di aver espresso, anche in modo brusco, dolore e rabbia per il suicidio di tre compagni di lavoro, si presenta a noi tutti come un fatto di straordinaria importanza sul piano della libertà e di quella democrazia “che ha varcato – come ripeteva Vittorio Foa – i cancelli della fabbrica”. Non si tratta, quindi, di uno sgradevole episodio di relazioni industriali o di provvedimenti attinenti ai comportamenti di questa o quella organizzazione sindacale.

 Ormai trova corso anche in settori della magistratura la rimozione dell’intralcio che il cuneo dell’art.18 della legge 300 poneva tra l’impresa e il lavoro, affidando il ruolo di arbitro nei licenziamenti senza giusta causa al potere e al rispetto della Costituzione, assicurato non dall’impresa o dal sindacato, ma dalla garanzia statuale messa in atto dal Giudice. Nella sentenza della Cassazione, che cassa, su ricorso della FCA, le decisioni del tribunale di Napoli sul reintegro dei 5 manifestanti licenziati, rimane in ombra quella responsabilità sociale fatta valere dal “terzo potere” dello stato contro il sistema delle imprese e il dispotismo padronale in fabbrica.

Sanzioni all’Ungheria, uno schiaffo in faccia a Salvini

Ma quanti se lo aspettavano? Il Parlamento europeo ha fatto mercoledì 12 settembre un primo passo per imporre una sanzione storica all’Ungheria, raccomandando di applicare l’articolo 7 dei Trattati, che includerebbe come pena per il governo xenofobo e autoritario di Orban la perdita del diritto di voto al nel Consiglio dell’Unione Europea. Anche se la gran parte dei nostri media nazionali sono concentrati e quasi ammaliati dalle virtù più arroganti di Salvini, dovranno pur accorgersi che si è consumato un fatto politico di enorme portata: con 448 voti a favore e 197 contro, il Parlamento ha approvato una relazione che sostiene che il governo magiaro sta mettendo a rischio i valori fondamentali dell’Europa.

Solo ieri (12 Settembre) Stefano Folli su “Repubblica” affermava che “i leghisti ormai rappresentano lo spirito dei tempi” e che “dalla vicenda europea “Salvini avrebbe ottenuto una più solida egemonia sull’area di centrodestra”. Evidentemente era convinto che il voto in plenaria in Parlamento sarebbe stata una questione tra furbi e smaliziati e chi, secondo la nostra stampa, lo è più di Salvini o più di Orban nell’area di cetrodestra?

Invece, per la prima volta, un Parlamento, rappresentativo dei 27 Paesi membri, ha approvato a stragrande maggioranza un dossier considerato come “un’arma nucleare”, a causa della sua natura dissuasiva di fronte a derive autoritarie e agli evidenti rischi politici coinvolti nel suo utilizzo. L’approvazione del rapporto – che espressamente dice che sono forti le “preoccupazioni europee in merito all’indipendenza del sistema giudiziario, alla libertà d’espressione e ai diritti delle minoranze e dei migranti in Ungheria. Questi ultimi si trovano ad affrontare un regime sempre più repressivo a seguito dell’adozione di leggi che limitano fortemente le possibilità di richiedere asilo nel paese.

Dobbiamo stigmatizzare concetti contrari ai valori europei, quali “nessuna popolazione straniera potrà stabilirsi in Ungheria” o il reato di promozione dell’immigrazione clandestina destinato a colpire a Ong che offrono soccorso ai migranti” – ha già scatenato un’enorme crepa nel Ppe, la famiglia politica del partito di Orbán, ma anche della Merkel.

Il rapporto, redatto dalla parlamentare verde olandese Judith Sargentini, richiedeva il voto favorevole dei due terzi dei voti espressi, con un minimo di 376. Il risultato è sorprendente, perché Orban, Salvini, Kaczynski, gli esponenti di destra austriaci e bavaresi come Seehofer e Kurz ostentavano un patto per assolvere l’Ungheria, contando sull’improbabilità di una spaccatura così netta dei parlamentari del Ppe. Anche a costo della rinuncia ai valori sociali e democratici in un’Europa dove la grancassa dei sovranisti e dei populisti annuncia da tempo la fine di un processo di smarcamento dell’Unione rispetto al neoliberismo più smodato e alle intromissioni di Trump nelle fazioni europee legate dal patto di Visegrad.

Le ramificazioni politiche del caso ungherese sono di ampia portata, perché Orbán appartiene alla più grande famiglia politica in Europa, in cui militano leader nazionali come Angela Merkel, Silvio Berlusconi, Pablo Casado e Sebastian Kurtz, o autorità della comunità come Jean-Claude Juncker (presidente della Commissione), Donald Tusk (presidente del Consiglio) o Antonio Tajani (presidente del Parlamento europeo).

La foto di Orban e Salvini sorridenti non ha quindi entusiasmato abbastanza Bruxelles e Strasburgo e lo schiaffo alle aree estremiste è stato tonante, anche in vista delle prossime elezioni nella Comunità. Allora, perché i nostri media hanno quasi glissato sulla notizia e continuano a schiacciare i nostri ascolti e le nostre letture sulla diatriba DiMaio-Salvini con l’incomodo ministro Tria? Credo che si faccia avanti un’area potente, silenziosa e un poco sottotraccia, che cerca consensi lontano dalla democrazia rappresentativa, dall’angoscia per il clima, dalle disuguaglianze che caratterizzano il sistema, dalla politica che costituzionalmente dà potere ai cittadini e che mistifichi questi diritti con un’attenzione spasmodica alle lotte interne, alla banalità, ai personalismi che escludono partecipazione.

Il voto di mercoledì pomeriggio a Strasburgo sullo stato della democrazia in Ungheria e sullo smantellamento dello stato di diritto va realmenteinterpretato come un ricorso al diritto per combatterne il suo rovescio. Se l’esito della vicenda resta ancora tutto da scrivere, – il processo sarà molto complicato. La risoluzione del Parlamento, deve essere approvata da una maggioranza qualificata nel Consiglio dei ministri dell’Ue e Paesi come la Polonia, la Slovacchia, la Romania, Malta, la Repubblica Ceca o anche l’Italia, probabilmente resisteranno alle indagini sul governo di Orbán.

Possiamo tuttavia contare che, con tutte le riserve che abbiamo purtroppo sperimentato da Maastricht in poi, il diritto europeo può restare ancora una difesa della democrazia di fronte all’insorgere dell’autoritarismo. Ossia, la lotta del diritto contro il suo rovescio. Purché i cittadini ritornino ad essere partecipi e protagonisti: In gioco non c’è solo la tenuta dello Stato di diritto in Polonia e Ungheria, c’è la futura direzione dell’Unione e dell’Europa: aperta e democratica, oppure chiusa e autoritaria. In questo senso il pugno in faccia ad Orban è uno schiaffo a Salvini e alle illusioni che lui ama disinvoltamente a coltivare.

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Un ricordo di Luigi Luca Cavalli Sforza

di Telmo Pievani

Un maestro lo vedi dalla libertà e dalla curiosità. Di lui ricordo un insegnamento cruciale: quando intravedi un tema di ricerca promettente in cui ancora nessuno si è cimentato – diceva – quella è la direzione in cui puntare senza remore. Io ci ho provato con la mia filosofia della biologia, e mi è andata bene. Lo devo anche a quel consiglio, benché Luca Cavalli Sforza fosse molto sospettoso sul ruolo e sull’utilità della filosofia. Lo rassicuravo dicendogli che nella mia di filosofia c’era ben poca metafisica, ma non bastava. Provavo a cavarmela dicendogli che nella sua opera di ricercatore c’era un sacco di ottima filosofia della scienza, da lavorarci per anni. Ed ecco che allora tornava per un attimo quel suo sorriso intriso di curiosità e di sempre nuove domande di ricerca.

Oggi tantissimi ricercatori in tutto il mondo lavorano all’ombra delle sue intuizioni. Nessuno meglio di Luigi Luca Cavalli Sforza, il grande genetista spentosi il 31 agosto all’età di 96 anni a Villa Buzzati di Belluno, ha incarnato la figura del pioniere, di colui che inaugura campi di studio prima inesplorati e li lascia in eredità a intere generazioni di continuatori. Forse anche perché era alto, elegante e carismatico, ora che non c’è più vien da pensare ai giganti della scienza e a noi nani che guardiamo lontano arrampicandoci sulle loro spalle.

Dopo gli studi di medicina a Torino con Giuseppe Levi e a Pavia negli anni delle leggi razziali e poi della guerra, Cavalli Sforza dal 1942 fu introdotto allo studio della genetica di drosofila da un maestro del calibro di Adriano Buzzati Traverso, fratello di Dino. Fu Buzzati Traverso, pare, a suggerirgli di aggiungere come secondo nome Luca, con cui tutti lo chiamavamo. Il legame di una vita con la famiglia Buzzati sarà sancito dal suo matrimonio con una nipote dei Buzzati, Alba Ramazzotti, che lo seguirà per tutta la sua carriera e gli darà quattro figli.
Fra il 1948 e il 1950 lavorò a Cambridge, sotto la guida di Ronald A. Fisher, insigne statistico e tra i fondatori della genetica delle popolazioni. Con il microbiologo Joshua Lederberg, poi Nobel nel 1958 a 33 anni, Cavalli Sforza studiò l’allora sconosciuto sesso dei batteri, cioè lo scambio orizzontale di pacchetti di informazione genetica tra un batterio e l’altro, dando contributi fondamentali. Dal 1951 ricoprì uno dei primi insegnamenti di Genetica e Microbiologia in Italia, a Parma, dove cominciò ad appassionarsi alla genetica umana. Qui intuì che i nostri geni recano con sé preziose tracce della storia umana profonda e degli antichi spostamenti di popolazioni.
Fiutò questa pista a modo suo, mescolando come nessuno aveva fatto prima dati provenienti da discipline diverse: analisi dei gruppi sanguigni, ricerca di marcatori genetici, registri parrocchiali, storia demografica, alberi genealogici e indagini sulle distribuzioni dei cognomi (anche dai buoni vecchi elenchi telefonici). Collaborò con l’Istituto Sieroterapico Milanese e dal 1962 fu professore di ruolo all’Università di Pavia. Divenne intanto antropologo anche sul campo, guidando spedizioni di ricerca sui cacciatori raccoglitori khoi-san del Kalahari e prima sui suoi amati popoli pigmei dell’Africa centrale, campioni di sostenibilità e saggezza ambientale. L’incontro con la diversità umana reale lo convinse sempre di più che attraverso la lente delle differenze genetiche umane fosse possibile ricostruire l’albero delle separazioni storiche tra i popoli della Terra e la diffusione dei geni tra le popolazioni tramite mescolanze e migrazioni.

Non sempre in armonia con le logiche accademiche italiane, nel 1971 Luigi Luca Cavalli Sforza lasciò l’Italia per la cattedra di Genetica delle popolazioni e delle migrazioni a Stanford, dove assunse la guida di un programma di ricerca mondiale che mirava a ricostruire per via genetica niente meno che l’albero genealogico dell’umanità. Le analisi sempre più raffinate sulla variabilità umana (sul DNA mitocondriale, sul cromosoma Y e poi sull’intero genoma) lo portarono a scoprire che la specie Homo sapiens ha avuto un’origine unica, africana e recente, confutando il vecchio modello che prevedeva centri multipli di origine graduale in differenti regioni. La sua idea, poi confermata e precisata, fu che una grande diaspora fuori dall’Africa aveva prodotto, circa 60mila anni fa, il meraviglioso ventaglio delle popolazioni umane attuali e passate, diversificando i loro geni, ma anche le culture e le lingue del mondo. Geni, popoli e lingue è uno dei suoi libri di maggior successo.
Se questo è il quadro dell’evoluzione umana recente, significa che siamo tutti figli di stratificazioni migratorie successive, dall’Africa all’Eurasia, e poi da questa all’Australia e alle Americhe. Tutti migranti, insomma, e tutti discendenti da un piccolo gruppo di pionieri africani. Le differenze genetiche tra due esseri umani presi a caso nel mondo sono comunque minime. Ne discende, e Cavalli Sforza lo capì subito, che la separazione dell’umanità in “razze” ben distinte non regge, perché la variabilità genetica umana si distribuisce in modo continuo a partire dall’Africa dove ce n’è di più.
Collaborando con archeologi, antropologi e linguisti, forte della sua preparazione matematica e statistica, cominciò a utilizzare le comparazioni genetiche per ricostruire anche migrazioni più recenti, come quella degli agricoltori mediorientali che arrivarono in Europa portando con sé fisicamente le loro innovazioni, e per definire la struttura genetica di regioni più limitate (Italia compresa, crogiuolo di diversità biologiche e culturali). Nel 1994, insieme a Paolo Menozzi e Alberto Piazza, diede alle stampe un atlante monumentale che ancora oggi è un riferimento: Storia e geografia dei geni umani. Qualche anno prima, con Marcus Feldman a Stanford aveva proposto la prima teoria quantitativa della trasmissione culturale, poi aggiornata nel libro L’evoluzione della cultura.
Cavalli Sforza nella seconda metà del Novecento ha contribuito in modo decisivo alla maturazione professionale e tecnologica della genetica mondiale. Fin dal 1991 fu il primo promotore e direttore dello Human Genome Diversity Project, cioè lo studio comparato delle variazioni del genoma all’interno della nostra specie. Si trattava in sintesi di esplorare non soltanto un singolo genoma “medio”, ma la diversità effettiva dei genomi umani dispersi nel mondo, con importanti implicazioni per il miglioramento delle nostre conoscenze mediche e storiche.
Il ruolo delle migrazioni in archeologia e il parallelismo tra albero genealogico dei geni e albero di diversificazione delle lingue gli furono contestati, ma comunque la si pensi erano idee feconde. Una delle sue ultime intuizioni scientifiche, una decina di anni fa, fu di rara eleganza. Scoprì che la deriva genetica, cioè il campionamento casuale e la riduzione di variabilità genetica dovuti alla separazione di piccole popolazioni, aveva lasciato una traccia limpida in tutti i genomi del pianeta. La variabilità genetica umana infatti decresce progressivamente mano a mano che ci si allontana dall’Africa meridionale, probabile punto di partenza dell’ultima espansione globale che portò alla diffusione delle popolazioni di Homo sapiens attuali. Riduzione di variabilità genetica e distanza geografica dall’Africa, in virtù di un “effetto del fondatore in serie”, correlano fortemente. Gli piaceva particolarmente questo risultato, perché mostrava come fenomeni casuali quali la deriva genetica potessero dare origine a schemi statisticamente molto eleganti e predicibili.

Il valore culturale (e persino filosofico) della scienza di Cavalli Sforza sta tutto in quella domanda, chi siamo, che fa da titolo a un altro suo fortunato libro, scritto con il figlio Francesco (come anche la sua appassionante autobiografia scientifica: Perché la scienza. L’avventura di un ricercatore). La risposta è che siamo una storia di diversità, ancora in corso. Nel 2011 il Palazzo delle Esposizioni di Roma gli dedicò un’importante Mostra, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, inaugurata dal Presidente della Repubblica.
Il contributo eccezionale che Luigi Luca Cavalli Sforza ha dato alla scienza si misura nel mezzo migliaio di pubblicazioni internazionali ai massimi livelli, nelle alte onorificenze accademiche (tra le quali, Accademico dei Lincei e membro straniero della Royal Society), nei tanti premi (Balzan, Nonino, Serono), nelle innumerevoli lauree honoris causa. Per l’ampiezza e la fecondità del suo lavoro, avrebbe senza dubbio meritato il Nobel, ma essere un italiano e un evoluzionista non aiuta nell’impresa. A pensarci bene, per tutta la vita non ha fatto altro che dedicarsi in modo disinteressato alla ricerca pura e di base, nel senso più alto del termine.
Come Darwin, non amava gli steccati disciplinari. Non era mai dogmatico e spaziava da una linea di ricerca all’altra quasi con leggiadria. Gli veniva tutto facile. Da dieci anni era professore emerito a Stanford, ma era tornato in Italia, spendendosi con generosità nella divulgazione e nella lotta ai pregiudizi antiscientifici, primo fra tutti quello di chi per ideologia o ignoranza nega ancora la realtà e la bellezza dell’evoluzione darwiniana. Sull’eterna minaccia del razzismo ha scritto pagine intense (per esempio in Razzismo e noismo, con Daniela Padoan) e tenuto conferenze memorabili. Era un uomo schietto, ironico, profondamente libero, che avresti voluto interrogare su tutto, e invece era sempre lui a fare le domande a te. Da ogni gesto e parola sprigionava quella gioia che nasce da insaziabile desiderio di conoscenza, sulla natura e sull’umano. Certe volte ti proponeva connessioni tra fatti ed evidenze talmente lontani fra loro che stentavi a vederci una logica, e invece poi… aveva ragione lui, una logica c’era. La sua è stata davvero una bellissima avventura di ricerca.

(*) ripreso da “Nazione indiana” con questa nota introduttiva di Antonio Sparzani: «è scomparso il 31 agosto scorso Luigi Luca Cavalli-Sforza, grande scienziato e grande uomo per il quale nutro una grandissima stima, per averlo sentito raccontare le sue idee e per aver letto molti dei suoi scritti. Ho chiesto a Telmo Pievani, ordinario di filosofia della biologia all’Università di Padova e collaboratore e amico suo, di scrivere per Nazione Indiana un post che ricordi un così importante maestro».

Germania: il primo treno passeggeri ad idrogeno del mondo

Approvata la messa in servizio in Germania del treno ad idrogeno Coradia iLint

 

Il Coradia iLint di Alstom, il primo treno passeggeri del mondo a celle a combustibile idrogeno, ha ottenuto approvazione dall’Autorità ferroviaria tedesca (EBA) per l’entrata in servizio in Germania. Oggi, Gerald Hörster, presidente dell’EBA, ha consegnato ad Alstom il certificato di omologazione presso il Ministero federale dei Trasporti e delle Infrastrutture a Berlino, alla presenza di Enak Ferlemann, segretario di Stato parlamentare presso il ministro federale per il traffico e l’infrastruttura digitale e membro del Parlamento tedesco.

Un primato in Germania: con l’approvazione dell’Autorità ferroviaria tedesca (EBA), arriva sui binari il primo treno passeggeri con tecnologia a celle a combustibile. Questo è un forte segnale di mobilità del futuro. L’idrogeno è veramente un’alternativa al diesel, è efficiente e a basse emissioni. Soprattutto sulle linee secondarie, dove le linee aeree di contatto non sono economiche o non ancora disponibili, questi treni sono un’opzione pulita ed ecologica. Ecco perché supportiamo e vogliamo far emergere questa tecnologia” ha dichiarato Enak Ferlemann, il delegato del governo federale tedesco per il trasporto ferroviario.

“Questa approvazione è un momento cruciale per il Coradia iLint e un passo decisivo verso una mobilità pulita e orientata al futuro. Alstom è profondamente orgogliosa di questo treno regionale alimentato a idrogeno, che rappresenta una rivoluzione nella mobilità a emissioni zero e che ora entrerà in servizio regolare” ha affermato Wolfram Schwab, vicepresidente di Alstom per l’R&D e Innovazione.

Nel Novembre 2007, Alstom e l’autorità locale per il trasporto della Bassa Sassonia (LNVG) hanno firmato un contratto per la consegna di 14 treni a celle a combustibile idrogeno, relativa manutenzione per 30 anni e fornitura di energia. I 14 treni trasporteranno i passeggeri tra le località di Cuxhaven, Bremerhaven, Bremervörde e Buxtehude da dicembre 2021.

In seguito all’approvazione da parte di EBA, due prototipi di Coradia iLint entreranno nella fase pilota di operazioni nel network Elbe-Weser. L’inizio del servizio passeggeri è previsto per la tarda estate.

Il Coradia iLint è il primo treno passeggeri alimentato da celle a combustibile idrogeno, che producono energia elettrica per la trazione. Questo treno a zero emissioni ha livelli minori di rumore e l’unico scarico è costituito da vapore acqueo e acqua di condensa. Il Coradia iLint è unico per via della combinazione di diversi elementi innovativi: conversione di energia pulita, possibilità di immagazzinare l’energia nelle batterie, una gestione intelligente dell’energia di trazione e di altra energia a disposizione. Progettato specificamente per le linee non elettrificate, opera a rispetto dell’ambiente, assicurando, allo stesso tempo, un’ottima performance.

Il Coradia iLint è stato progettato dal team Alstom di Salzgitter (Germania), centro di eccellenza per i treni regionali e a Tarbes (Francia), centro di eccellenza per i sistemi di trazione. Il progetto beneficia del supporto del Ministero dell’Economia e di quello dei Trasporti tedeschi. Lo sviluppo del Coradia iLint è stato finanziato con 8 milioni di euro dal Governo tedesco come parte del Programma nazionale per l’innovazione nella tecnologia a idrogeno e celle a combustibile (NIP).