Cambiamenti climatici: gli scienziati mandano un messaggio terribile, ma i governi non ascoltano

Non ha trovato molto spazio sui mass media la notizia della pubblicazione (l’8 ottobre scorso) della Sintesi per Decisori Politici dello Special Report on Global Warming of 1,5 °C, che costituirà il riferimento scientifico per la Conferenza delle Parti (Cop24) della Convenzione quadro dell’Onu sui Cambiamenti Climatici (Unfccc), che avrà luogo in Polonia il mese prossimo (Katowice, 2-13 dicembre 2018).

L’aumento di temperatura dovuto all’azione antropogena sarà duraturo e non uniforme sulla Terra: in effetti durerà per secoli (per la stabilità della CO2) e continuerà a causare ulteriori cambiamenti nel sistema climatico anche a lungo termine. D’altra parte, un riscaldamento superiore alla media annuale globale viene già ora sperimentato in molte regioni della terra e in diverse stagioni, in particolare nell’Artico. Il riscaldamento è generalmente più alto sui continenti che sui mari e purtroppo si registra con più intensità in regioni terrestri molto abitate e in genere assai povere.

Agli scienziati che per conto della Nazioni Unite seguono le vicende dei cambiamenti climatici, era stata chiesta un’analisi sulle reali possibilità di contenere l’innalzamento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi (rispetto ai livelli preindustriali), limitando l’aumento a 1,5 °C. Le loro conclusioni sono allarmanti. Si stima che le attività umane abbiano già causato circa +1,0 °C di riscaldamento globale. Se la temperatura continuasse ad aumentare al ritmo attuale, con un andamento che dal 2000 non è ormai più lineare, è probabile che si raggiungano +1,5 °C tra il 2030 e il 2052. L’inquietudine degli scienziati si manifesta nel monito che un aumento dagli effetti irrimediabili può essere evitato solo se le emissioni globali di CO2 iniziano a diminuire ben prima del 2030, cosa del tutto improbabile.

Lo studio compara i risultati a +2 °C con quelli auspicati di mezzo grado in meno. Ad esempio, entro il 2100 la crescita media su scala globale del livello del mare sarebbe più bassa di 10 cm. Un ritmo più lento di innalzamento del livello del mare consente maggiori opportunità di adattamento nei sistemi umani ed ecologici nelle piccole isole, nelle zone costiere basse e nei delta (Venezia e Aquileia). Le barriere coralline con un aumento di 1,5, diminuirebbero del 70-90%, mentre con 2 °C se ne perderebbe praticamente la totalità (oltre il 99%) e si registrerebbe la scomparsa di un numero elevato di ecosistemi. I rischi legati al clima per i sistemi naturali e umani diventerebbero più elevati e differenti da luogo a luogo. Con dettagli e grafici, il report dimostra che il problema del cambiamento climatico ha una relazione diretta con migrazioni e povertà, mentre suggerisce vivamente politiche di transizione rapide e di vasta portata nel sistema energetico e nell’agricoltura oltre a una particolare attenzione a città, infrastrutture (incluso trasporti ed edifici) e sistemi industriali (economia ciclica).

Le transizioni di sistema che vengono richieste sono senza precedenti in termini di scala e implicano riduzioni delle emissioni in tutti i settori, un ampio portafoglio di opzioni di mitigazione e un significativo spostamento degli investimenti su opzioni ambientali.

In Italia la situazione è di stasi totale: tutto fermo nella decarbonizzazione del sistema energetico; si vive della rendita del boom del solare del 2011 (governo Berlusconi IV) e su quella scia si sono raggiunti con cinque anni di anticipo i target europei del 2020. Ma quelli stabiliti per il 2030 al momento rimangono una chimera. Lo continuano a ricordare i rapporti trimestrali dell’Enea. Il terzo del 2018 ribadisce che per il quarto anno consecutivo, la quota di Fer sui consumi finali potrebbe perfino ridursi, continuando ad oscillare intorno al 17,5% raggiunto nel 2015. Rimaniamo inchiodati a quell’anno. Secondo le elaborazioni dell’osservatorio Fer (su dati Terna) la nuova potenza eolica, fotovoltaica e idroelettrica connessa nei primi sei mesi del 2018 è stata pari a 334 MW, una variazione inferiore del 39% rispetto ai 551 MW installati nella prima metà del 2017.

Quello che si registra di nuovo è solo l’ok al gasdotto TAP, quindi un atto perfettamente in linea con le linee pro-gas di tutti i precedenti esecutivi (in un nostro precedente post abbiamo parlato della necessità di ribaltare quella decisione nonostante le tonnellate di dichiarazioni contrarie).

Salvini aveva commentato che col nuovo gasdotto le bollette degli italiani sarebbero state meno care. In verità il prezzo del gas è aumentato di parecchio quest’anno e di conseguenza anche quello dell’elettricità perché “a fare” il prezzo dell’elettricità è ancora il gas, essendo oggi in Italia il re della generazione. A settembre il prezzo dell’energia in borsa (il Pun) ha toccato i massimi da ottobre 2012, salendo a 76,32 €/MWh, più che doppio rispetto ad un anno fa (+57,0%.)

Il Rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia sugli investimenti energetici globali ha confermato che tutto il mondo procede a un passo che non permetterà di raggiungere gli obiettivi energetici e climatici, fissati dall’Agenda Onu 2030 e dall’Accordo di Parigi. Gli investimenti globali combinati nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono diminuiti del 3% nel 2017, quelli nelle energie rinnovabili, che rappresentano i due terzi delle spese per la produzione di energia elettrica, sono addirittura calati del 7%.

Terribile che gli investimenti delle imprese di proprietà statale siano rimaste più legate a petrolio e gas e alla produzione di energia termica di quanto non lo siano state le imprese private. È la discesa dei costi del fotovoltaico passati dai 72$ per MWh dell’asta 2014 in Brasile ai soli 18$ dell’asta 2017 in Arabia Saudita a rendere il fotovoltaico competitivo e “amato” dalle utility: è il fatto che col vento e col sole il ritorno degli investimenti è semplicemente più rapido rispetto alle fossili.

Agire dunque per evitare il peggio, questo è il messaggio inascoltato che viene dagli scienziati dell’Unfccc. Messaggio terribile, da recepire in un mondo di irresponsabili e dilettanti al potere, inebriati dal fatto che non si raccolgono voti praticando responsabilità e visione del futuro.

Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

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Tap, quanto conviene costruire un gasdotto che nasce obsoleto?

Se si vuole riconquistare il cuore delle persone e una coscienza collettiva responsabile, non si può nello stesso giorno titolare le prime pagine con il disappunto per le devastazioni climatiche e sferrare attacchi violenti a chi si oppone all’approdo di un ulteriore gasdotto sulla Penisola, oltre i sei già attivi. Bloccare la Tap riguarda una questione non certo locale, ma un passaggio essenziale della strategia energetica futura del Paese. Alle argomentazioni nettamente contrarie alla decisione del governo, che con forza sono state già evidenziate in molti interventi (per tutte si vedano i documenti riportati in questi giorni dal sito www.labottegadelbarbieri.org) e che vengono da tempo articolate in numerosissime prese di posizione di comitati, associazioni e movimenti, voglio aggiungere qui tre ordini di riflessioni che espongono a verifica a tutto campo la marcia indietro dei 5Stelle.

Clima, Tap e transizione energetica

La transizione energetica già in rapido movimento, certamente limiterà i combustibili fossili. L’obiettivo dell’Accordo di Parigi 2015, concordato da oltre 200 nazioni indipendenti sul pianeta, è di mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C. Se la società lo farà, la maggior parte delle riserve di combustibili fossili dovranno rimanere sottoterra, incombuste. In particolare, le raccomandazioni della TCFD (la task force sulle informazioni finanziarie relative al clima, presieduta da Bloomberg, non certo un “sognatore”) mirano a offrire agli investitori, ai finanziatori e agli assicuratori visibilità su come il rischio di cambiamento climatico interesserà le singole imprese e una tabella di marcia alternativa a quella delle lobbies energetiche meno previdenti. Le aziende dovrebbero allineare i loro modelli di business ad un futuro al di sotto di 2°C. Dal momento che le aziende stesse considerano tutte le loro riserve come aventi un valore finanziario, devono contare su riserve che minimizzano l’alterazione del clima e, di conseguenza, non investire denaro in una risorsa che non si può “realizzare” in quanto potenzialmente incombusta. In caso contrario il rischio sarebbe di contribuire a creare una “bolla di carbonio”.

I governi dovrebbero fare ciò che hanno promesso di fare a Parigi anche solo per il buon andamento delle loro imprese e per una sana finanza globale. Gli stessi operatori del settore se ne preoccupano. In merito al futuro a medio termine del gas, Francesco Starace, amministratore delegato di Enel e presidente di Eurelectric, la federazione europea per l’elettricità, intervistato da Euractiv, ha affermato di pensare al gas solo come sostegno residuo alla transizione dei prossimi venti anni e ha aggiunto di essere addirittura perplesso sulla convenienza della costruzione di una nuova centrale a gas dato che “anche molte aziende non lo fanno”. “Penso – ha riflettuto nella conversazione – che l’industria abbia perso un po’ di tempo nel tentativo di resistere a ciò che è successo nella tecnologia e nel negare ciò che è accaduto nell’ambiente. Dobbiamo recuperare il tempo perso, visto che abbiamo finalmente una comprensione piena delle sfide”. Non certo – dico io – importando con la Tap dall’Arzebajan ulteriori 10 miliardi di metri cubi di gas dal 2020 per poi passare a 20, sapendo che quei giacimenti nel 2023 saranno in declino e che le rinnovabili saranno sempre più economiche.

Costi attuali e previsioni per il futuro

L’analisi del costo medio di nuova energia eolica e solare in 58 economie dei mercati emergenti – tra cui Cina, India e Brasile – dimostra che l’energia solare dallo scorso anno, per la prima volta, sta definitivamente e stabilmente diventando la forma più economica di elettricità nuova (v. Bloomberg, 18 dicembre, 2017). Di conseguenza, l’intera categoria di utilizzo del petrolio si sposterà dal mercato globale entro dieci anni. Si sta fuggendo dai combustibili fossili proprio come le industrie dei combustibili fossili manovrano i loro cappi alla Casa Bianca e contano sul gas come mantenimento di un sistema in crisi. Le ragioni si spiegano: non esiste una progettazione di mercato in grado di proteggere un’installazione obsoleta o una tecnologia che incomincia a non funzionare. Pertanto, oltre ai costi di una riconversione di filiera (che andranno indirizzati ad un futuro che garantisce occupazione, decarbonizzazione e riduzione “ vera” delle tariffe e delle bollette) e alle eventuali penali di dismissione (tutte da vedere e in capo ad un procedimento di arbitrato internazionale dove gli interessi sociali e le motivazioni, in particolare quelle climatico-ambientali, dovrebbero confluire) bisognerà considerare che l’Europa ha fissato per il 2050 al massimo la “carbon neutrality”, che comporta che ogni installazione fossile vada commisurata alla vita residua e, possibilmente, sostituita in risparmio o rinnovabili. E’ allora ancora necessario e conveniente un gasdotto nuovo per soddisfare adesso equilibri geopolitici e interessi di nuovi fornitori?

Se la geopolitica sovrasta la biosfera

Le ragioni di natura geopolitica, molto spesso, tendono a cedere il passo ad altri criteri come la posizione geografica dei fornitori, la stabilità politica e le disponibilità degli acquirenti. In Europa il problema più acuto rimane il passaggio o meno dei tubi dall’Ucraina. Politici di grande fama internazionale, a fine carriera hanno fatto da tramite per gli interessi dei due grandi contendenti del gas: Russia (esportatore) e America (ormai produttore). Brezinsky e Kissinger per le condotte dall’Azerbajan, Shröder per il gasdotto del Baltico, Blair per la Tap, hanno assunto responsabilità dirette e ben retribuite ai fini della realizzazione delle condotte fossili. In particolare, Blair, il lobbista ingaggiato dal consorzio che cura l’approdo in Puglia, ha incontrato Salvini il 4 settembre a Roma, sapendo che – a dispetto dei diversi trascorsi politici – incontrava l’interlocutore più forte del governo, che avrebbe fatto capitolare Di Maio come avvenuto. Geopolitica contro biosfera e benessere dei cittadini e al diavolo il sovranismo. Salvini, da par suo, ha dichiarato che “si tratta di spostare quattro piante”. Davvero?

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Cambiamenti climatici, Venezia e i patrimoni Unesco sono in pericolo. Dobbiamo intervenire

Spesso non teniamo conto di come il clima – che è influenzato dal nostro stile di vita – possa essere responsabile di trasformazioni dell’ambiente e di comportamenti umani che riguardano il futuro e di come, sottovalutando tale questione, la società perda un’occasione di prevenire solidaristicamente il rischio di perdite irrecuperabili.

Riprendo quanto già esposto in precedenti post dove si espone una correlazione tra crisi ambientale, immigrazione e cura della “casa comune”, che si deve affrontare a partire da una prospettiva di accoglienza e di investimento nel rigenerare la natura, con prospettive di lavoro e di benessere che lo sviluppo attuale non assicura affatto.

Dovremmo quindi prendere in considerazione alcune ipotesi su cui gli scienziati più seri stanno fornendo prove di tendenza da correggere con estrema urgenza. In particolare, nel giro di poche generazioni il Mediterraneo tende a inaridirsi e siti a noi cari potrebbero essere allagati in seguito all’innalzamento delle acque marine.

Il Mediterraneo nei prossimi 100 anni sarà più arido

Uno studio internazionale di Nature Communications, di cui è stata partner l’Università di Pisa e che ha coinvolto 12 istituzioni, prevede per il clima del Mediterraneo nei prossimi cento anni crescente aridità e minori precipitazioni medie, probabilmente concentrate in tempi brevi. Le conclusioni derivano da una ricerca molto complessa e durata anni sulle analogie fra l’ultimo periodo interglaciale e la situazione attuale. Lo studio dell’ultimo periodo interglaciale è particolarmente rilevante perché è stato caratterizzato da un intenso riscaldamento artico, con temperature più alte di alcuni gradi rispetto a quelle attuali e quindi paragonabili agli scenari di riscaldamento previsti per la fine di questo secolo.

Come conseguenza del riscaldamento, la ricerca ha stimato che il livello globale del mare nell’ultima epoca interglaciale sia stato di circa 6-9 metri superiore al livello attuale, un innalzamento in buona parte dovuto alla fusione della calotta glaciale della Groenlandia e che ”un tale scioglimento dei ghiacci potrebbe aver contribuito a un’instabilità, della circolazione oceanica del Nord Atlantico, con momenti di indebolimento corrispondenti a periodi di scarsità di precipitazioni in Europa” come affermato da Giovanni Zanchetta del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa.

Per definire in dettaglio i cambiamenti oceanici e atmosferici dell’Atlantico settentrionale e dell’Europa meridionale, i ricercatori hanno prodotto una sorta di “stele di rosetta stratigrafica”, analizzando una carota di sedimento marino proveniente dal margine atlantico della penisola iberica e confrontando i pollini e i cambiamenti della vegetazione registrati con l’andamento delle precipitazioni registrato nelle stalagmiti della grotta ”Antro del Corchia”, nel nord Italia.

Il collegamento tra Corchia e il margine atlantico della penisola iberica documenta come una serie di eventi aridi nell’Europa meridionale siano collegati alle espansioni di acqua fredda nell’Atlantico settentrionale. La datazione dei cambiamenti climatici già registrati in epoche passate è stata “sovrapposta” a quanto sta oggi accadendo a causa dell’attività umana e ne è stato così tratto il profilo climatico nella zona mediterranea nei prossimi cento anni. Se ne conclude che il progressivo riscaldamento che stiamo osservando possa generare in futuro un’instabilità del clima associata a fenomeni significativi di siccità.

Rischio prossimo di inondazioni

Quasi tutti i siti patrimonio dell’umanità che si affacciano sul Mediterraneo sono a rischio inondazione, ma a causa dell’innalzamento del mare questo rischio aumenterà del 50% entro la fine del secolo. In Italia sono ben 13 i siti ad alto rischio, a cominciare da Venezia e l’area archeologica di Aquileia.

A livello globale, il livello medio del mare aumenta di poco più di tre millimetri all’anno, mentre i ghiacciai e le calotte di ghiaccio si sciolgono e l’acqua degli oceani si riscalda. Con il progressivo aumento del livello del mare, le inondazioni costiere rischiano di diventare sempre più frequenti e intense. Capire quali saranno le altezze massime che si raggiungeranno durante eventi estremi dovuti al concorso anche di maree e uragani è essenziale per decidere per tempo le misure di difesa necessarie.

Eventi marini estremi possono spingere l’acqua al di là delle barriere costiere, inghiottire le case e inondare infrastrutture cruciali. È già successo e l’elenco riguarda i Paesi costieri, ricchi o poveri che siano. Le previsioni di inondazioni estreme sono rese confuse dall’incertezza sulla velocità con cui aumenteranno le emissioni di gas serra.

Per quanto ci riguarda, sempre Nature Communications segnala che, purtroppo, in cima alla lista delle località a più elevato rischio nel Mediterraneo vi sono gioielli italiani dell’alto Adriatico come Venezia e la sua laguna, l’area archeologica di Aquileia e anche Ferrara e in parte Ravenna. Se i pericoli sono reali – e vanno ben oltre il Mose – nasce l’opportunità, dato il loro valore simbolico, di promuovere campagne che sensibilizzino la popolazione sull’importanza primaria di mitigare i cambiamenti climatici.

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Cambiamenti climatici, le foglie diventano più spesse. E non è una buona notizia

Ha creato molto scalpore nel mondo scientifico e tra gli esperti di clima la notizia che nel pianeta le foglie diventano più spesse a causa dell’aumento di concentrazione di CO2, aggravando di conseguenza i cambiamenti climatici. Nonostante siamo a conoscenza degli effetti deleteri del nostro agire, continuiamo a immettere nell’atmosfera un’insostenibile quantità di carbonio e la concentrazione di CO2 ha raggiunto livelli mai visti. Lo scorso ottobre l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha certificato che la concentrazione di CO2 in atmosfera ha raggiunto il valore record di 403,3 ppm nel 2016, il 145% in più dei valori preindustriali.

La sottovalutazione e spesso l’ignoranza diffusa dei meccanismi naturali che possono ridurre l’aumento dei gas climalteranti, responsabili della crescita della temperatura nella crosta, nell’atmosfera e nei mari in cui si riproduce la vita, ci fa dimenticare che, prima di arrivare a illuminare il nostro corpo e inondare con la loro energia il mondo vegetale che ha preparato il nostro pianeta ad accoglierci e ad alimentarci, i raggi del sole hanno attraversato l’aria che sta sopra le nostre teste. Lì, nell’atmosfera si è moderato il calore degli astri e il freddo dell’universo, con una funzione determinante della quantità di CO2 in equilibrio come parte di un ciclo naturale in cui emissioni – respirazione, produzione energetica e industriale, rifiuti, agricoltura etc. – e assorbimento – masse arboree, vegetali e alghe marine in particolare – assicurano il mantenimento di un equilibrio energetico il cui indicatore più immediato è la temperatura locale. La vita sarebbe inspiegabile se non ci si rendesse conto della singolarità della Terra, dovuta alla sottile e inconsueta pellicola che la avvolge, al contrario dei miliardi di oggetti “galileiani” inanimati su cui non c’è vita né morte, pur comportandosi dinamicamente ed energeticamente secondo leggi universali “immutabili” che Newton e poi Einstein hanno esteso all’intero Universo.

Ma torniamo allo spessore delle foglie. Tutto ebbe inizio circa cinquecento milioni di anni fa, quando organismi, animali e vegetali iniziarono a differenziarsi; le piante scelsero di non muoversi mentre gli animali optarono per uno stile di vita nomade. Diciamo che noi scegliemmo di fare i migranti, le piante di mettere le radici da qualche parte e non spostarsi da lì. Questa scelta ha implicato per loro la necessità di svilupparsi ed evolversi in maniera insostituibile per il vivente, così da ricavare, dalla terra, dall’aria e dal sole attraverso la fotosintesi (che fornisce energia alimentare e riduce la quantità di CO2 in atmosfera) tutto il necessario perché anche la nostra specie potesse nascere, riprodursi e sopravvivere come parte “omologata” dei cicli naturali alimentandosi entro una finestra energetica stabile e molto limitata, caratterizzata da un intervallo di qualche decina di gradi di temperatura. I nostri principali e indispensabili alleati nella sopravvivenza e nella lotta ai mutamenti del clima sono quindi gli alberi.

Un nuovo studio rivela però che, proprio a causa dell’elevata quantità di CO2 oggi presente, la capacità delle piante di sequestrare carbonio sta diminuendo, diventando le loro appendici più spesse e meno efficienti e ingenerando un cambiamento della temperatura sempre meno adatta alla riproduzione a all’abitabilità degli umani sul pianeta. Lo studio Leaf trait acclimation amplifies simulated climate warming in response to elevated carbon dioxide, condotto da Marlies Kovenock e Abigail Swann ritiene che sia di fondamentale importanza una migliore comprensione di come le risposte della vegetazione ai cambiamenti climatici possano fornire feedback sul clima. Le osservazioni mostrano che le caratteristiche della pianta (forma, spessore e densità delle foglie) sono modificate all’elevarsi della concentrazione di anidride carbonica. Si giunge perfino a suggerire modalità più efficienti di potatura, di osservare la maggior profondità a cui tendono i gambi dei funghi, di notare la maggior difficoltà delle castagne a uscire dal riccio una volta a terra. Infatti, queste “acclimatazioni” delle proprietà vegetali possono alterare l’area fogliare e, quindi, la produttività e i flussi di energia superficiale.

L’adattamento a più elevate temperature di una foglia in risposta all’aumento del biossido di carbonio – nella simulazione si ipotizza un aumento di un terzo della massa fogliare per area – ha un impatto realmente significativo sul ciclo climatico e sul ciclo del carbonio nel sistema terrestre. La produttività primaria netta globale di assorbimento di anidride carbonica diminuisce di una quantità pari alle attuali emissioni annue di combustibili fossili. Si rende pertanto necessario prevedere come gli ammassi vegetali risponderanno alle condizioni ambientali future, così da includerli nelle proiezioni climatiche. Va notato che l’attuale patrimonio arboreo del pianeta, secondo uno studio del 2017, avrebbe la capacità di ridurre l’emissione di sette miliardi di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2030.

C’è anche una componente di risparmio energetico di sicuro peso: gli alberi creano una “bolla di penombra” e le chiome vegetali intercettano la radiazione solare, determinando una temperatura radiante delle superfici ombreggiate inferiore a quella delle superfici esposte alla radiazione diretta. Ogni albero adulto può traspirare fino a 450 litri d’acqua al giorno e per ogni grammo di acqua evaporata sottrae 633 calorie dall’ambiente, producendo un abbassamento di temperatura (locale) equivalente alla capacità di cinque condizionatori d’aria di piccola potenza. Piantare alberi, ampliare boschi e foreste, non cementificare e evitare gli incendi significa mitigare il cambiamento climatico in atto e, quindi, ora lo sappiamo, agire perché le foglie non cambino spessore.

L’Accordo di Parigi ha dato un ruolo centrale alle foreste, alle foglie, alla rete collaborativa con cui le piante si sviluppano e si consolidano (chiedetevi come mai i frutti maturino negli stessi giorni e i funghi spuntino nelle stesse settimane in tutto l’arco alpino). Gli ecosistemi terrestri, ed in particolare le foreste, sono parte della causa e parte della soluzione del problema dei cambiamenti climatici. Causa perché la deforestazione (soprattutto tropicale) è responsabile di circa il 10% delle emissioni antropiche di gas serra a livello globale. Soluzione perché già oggi le foreste assorbono circa un terzo delle emissioni antropiche globali di CO2 .

L’insieme dei Paesi dominati dalle foreste, secondo una contabilizzazione che le giudica “prevalenti” nel territorio – Paesi Lulucf – potrebbe con adeguata manutenzione e realistica implementazione passare da essere una fonte netta di emissioni (come lo è stato nel periodo 1990-2010) a diventare assorbitore netto di CO2 entro il 2030, arrivando a fornire il 25% degli obiettivi di riduzione delle emissioni a livello globale. A due condizioni: che vengano finalmente erogati supporti tecnologico-finanziari ai Paesi in via di sviluppo e che le foglie non si ispessiscano troppo.

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Città a prova di clima: il caso di Roma

a cura di PierLuigi Albini – 1 ottobre 2018

1. Per una diversa “scienza della città”

Nella storia dell’urbanistica e nelle sue teorizzazioni è talvolta emersa l’idea di una scienza della città come paradigma in grado di far convergere diverse discipline verso una pianificazione che governi in modo razionale l’urbanizzazione. Ma di ciò si vedrà più avanti, intanto va ricordato che è a Novecento inoltrato che l’urbanistica ha perso le sue radici di disciplina che comprende il fattore umano come fondamento. Ma quello che interessa prima di tutto sottolineare è che – a parte la necessità di rivedere la legislazione in materia e la critica dell’assoggettamento dell’interesse pubblico a quello privato, avvenuto negli ultimi decenni – nessuna delle precedenti nozioni di scienza della città o di cultura della città – a seconda dei punti di vista – teneva in considerazione l’emergenza climatica come perno necessario di un insieme di competenze progettuali e di decisioni politico-amministrative in grado di pensare delle città a prova di clima, appunto; e quindi di fare fronte ad uno dei più gravi problemi del secolo XXI: forse il più grave.

Secondo il giudizio di Henri Lefebvre – sociologo, filosofo e urbanista – “a parte pochi meritevoli sforzi, l’urbanistica non ha assunto lo statuto di un vero pensiero della città. Anzi, si è man mano rattrappita fino a diventare una sorta di catechismo per tecnocrati”. Va tuttavia detto che – come si vedrà nel paragrafo successivo – oggi il nesso clima-urbanistica è diventato una questione di vita o di morte e da qui la necessità di applicare nella pianificazione (leggasi Piani Regolatori Generali e decisioni urbanistiche) la valutazione dei servizi ecosistemici come parte essenziale di una lotta di contrasto al cambiamento climatico; e quindi di cambiare completamente l’approccio progettuale ed esecutivo a vari livelli: “diritto alla città e diritto alla natura tendenzialmente coincidono”.

Infatti, se la cosiddetta sostenibilità, che vede nelle città un attore essenziale per la sua realizzazione e come conseguenza obbligata al contrasto del cambiamento climatico, non è solo un vacuo slogan, occorre dire ad alta voce che si tratta di una questione di sopravvivenza, di fronte alla quale appare delittuoso e suicida continuare con le vecchie e incontrollate pratiche governate dagli interessi privati. Qui, proprio a proposito di urbanistica, si inserisce una lunga citazione di un saggio del 2005 che conserva tutta la sua attualità.

“Il fatto è che negli ultimi decenni l’urbanistica, da strumento di garanzia dei diritti dei cittadini e di contenimento dello sfruttamento incontrollato del territorio da parte della rendita, è divenuta uno strumento di garanzia della rendita e di esclusione dei cittadini dai processi di governo del territorio. Al disinteresse culturale e politico fa riscontro la debolezza e l’obsolescenza della disciplina: per molte ragioni risulta ormai inadeguata la strumentazione offerta dalla legge fondamentale (n°1150/42), mentre tuttora disattesa è quella riforma dell’urbanistica che si invoca da tempo e che dovrebbe assumere la fattispecie di legge quadro nazionale per aggiornare e mettere ordine nella materia, senza però derogare ai principi costituzionali sull’uso del territorio e sulla tutela dei beni ambientali [e per rispondere all’emergenza climatica, nda]. Rimane quindi tuttora irrisolto l’insieme dei problemi (di ordine istituzionale, fondiario, ambientale, funzionale) accumulatisi nel tempo. […]

Rimangono [quindi] aperte tutte le questioni derivanti dalla crescente complessità dei problemi di governo del territorio, anche perché il dibattito si è molto affievolito, al più limitato agli ambienti specialistici; i cittadini “fruitori” del territorio sono stati del tutto esclusi.

Come è noto, fino dagli anni sessanta e settanta la materia è stata oggetto di un acceso confronto soprattutto ideologico, mentre con la perdita di centralità dello Stato (sul principio del suo ruolo centrale si basava la legge 1150/42) e il progressivo processo di decentramento istituzionale si è sviluppato un crescente conflitto, sia all’interno dei diversi soggetti istituzionali sia tra questi e i soggetti privati (basti pensare alle vicende irrisolte del regime giuridico delle espropriazioni, dei vincoli, della disciplina generale dei suoli edificabili).

Nasce così negli anni ’90 l’urbanistica negoziata in cui al criterio ordinatore basato sulla gerarchia fra i piani si sostituisce quella per campi di interesse di volta in volta emergenti, mentre i nuovi strumenti e i nuovi istituti (Programma di Riqualificazione Urbana, Programma di Recupero Urbano, Programmi Integrati di Intervento, Contratti d’Area, Patti Territoriali, Prusst) vengono utilizzati, talvolta anche con finanziamento pubblico, come variante automatica agli strumenti urbanistici ordinari, fino a che il piano si riduce ad una meccanica e semplicistica sommatoria di progetti.

Con il processo di riforma (o, meglio, controriforma, nda) che ha avuto inizio a partire dal 1990 si è passati così da un sistema nel quale allo Stato era assegnato un ruolo di assoluta centralità a uno nel quale convivono una pluralità di centri decisionali (non solo in materia di diritto urbanistico) titolari di proprie attribuzioni.

Quindi, non solo le competenze urbanistiche dello Stato sono, evidentemente, ormai residuali, ma la stessa materia urbanistica non è più quella totalizzante pensata negli anni Trenta, non riguarda più la universitas dello spazio fisico e umano, ma è subordinata a un complesso di decisioni relative ad altri interessi pubblici specializzati insistenti sul territorio: la difesa del suolo (attraverso i piani di bacino), la protezione della natura (attraverso i piani dei parchi), la tutela dei valori estetici (attraverso i piani paesistici), e, accanto a questi, gli strumenti delle politiche di settore (i piani dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, delle cave, ecc.).”

Ora, la questione centrale è che l’insieme di questi piani non sono messi a sistema e le decisioni e gli atti amministrativi procedono appoggiandosi dunque a questo o a quell’aspetto del territorio e secondo le competenze burocratiche, nella pressoché totale ignoranza dei contesti e in assoluta carenza di coordinamento.

Tutto ciò è accompagnato dal passaggio dall’urbanistica concertata all’urbanistica contrattata, in cui – come detto – il ruolo dell’interesse pubblico è sempre più marginale o viene comunque piegato a quello privato utilizzando una normativa contraddittoria e saltando spesso allegramente le procedure tuttora prescritte dalla regolamentazione.

Mentre a livello nazionale sono sempre attese una legge sull’urbanistica che rimetta ordine nella normativa e una legge ormai urgente sul consumo zero di suolo, a livello regionale talune leggi che, per esempio, sembrano promuovere la cosiddetta rigenerazione urbana sono viziate da meccanismi premiali per l’aumento di cubature, per la concezione di un intervento non di sistema e multilivello (quartieri), nonostante si dichiari che i “programmi di rigenerazione urbana [sono] costituiti da un insieme coordinato di interventi urbanistici, edilizi e socioeconomici volti, nel rispetto dei principi di sostenibilità ambientale, economica e sociale […]” Quel che è infatti accaduto finora Roma è l’abbattimento e la ricostruzione di palazzine del Novecento di pregio. Insomma, si prevede una “offerta” normativa per ampliamento e ricostruzioni accompagnate da indirizzi programmatici riguardanti anche l’ambiente, ma non è stato recepito il concetto di rete ecologica ormai essenziale per ogni intervento multilivello. Nella legge regionale del Lazio 18 luglio 2017, n. 7, per esempio, la parola “clima” appare una sola volta a proposito del Piano agricolo regionale e non riguarda le città. Inoltre, non c’è un collegamento sistematico fra i vari aspetti di una nuova pianificazione (energia, trasporti, dissesto idrogeologico, acqua e così via). Ancora Claudio Canestrari, scriveva nel saggio citato:

“Deregolamentazione urbanistica, concertazione procedurale, delegittimazione della pianificazione di area vasta, marketing urbano spettacolare e privo di contenuti reali, sono i fattori messi in campo senza valutare gli elementi di coerenza territoriale complessiva e gli effetti economici, sociali e ambientali di medio/lungo periodo. Devastanti sono gli effetti della dispersione insediativa associata alle procedure deregolative.

Eppure sulla quantificazione dei costi collettivi e dei costi pubblici derivanti da tali politiche gli studi sono numerosi, sia in Italia sia in taluni contesti europei e perfino nord americani […]”.

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