I RISULTATI (POCHI) DELLA COP 24 A KATOWICE

di Roberto Meregalli  

I leader mondiali erano arrivati ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi e rispondere all’emergenza climatica. Ci sono volute due settimane, un paio di notti in bianco e un tempo supplementare di 24 ore, per trovare un compromesso fra le 198 nazioni riunite in Polonia per la 24esima Conferenza dell’Onu sul clima. La COP24 non è dunque fallita, perché il documento finale di Katowice, benché generico, consente al processo avviato con l’Accordo di Parigi nel 2015 di andare avanti e diventare esecutivo fra due anni. Questo era l’obbiettivo dichiarato di questa Conferenza, stabilito nel 2015 a Parigi: definire un insieme di linee guida (il “rulebook”), per permettere di rendere pienamente operativo l’Accordo e valutare i progressi svolti in questa direzione dai diversi paesi.

Le premesse quindi erano per una COP tecnica, senza capi di stato a fare roboanti annunci. (v. I progressi del Katowice Climate Package

Un risultato quindi soddisfacente? Mah! Commentando il risultato del Vertice di Parigi del 2015 il noto giornalista del Guardian, George Monbiot, scrisse che «Rispetto a quello che avrebbe potuto essere, è un miracolo. Rispetto a quello che avrebbe dovuto essere, è un disastro». E come giudizio potrebbe valere anche per Katowice, perché guardando a come le negoziazioni si sono svolte nelle ultime due settimane: lo stallo politico e tecnico che si è presentato su varie tematiche, in certi momenti pareva impossibile raggiungere un accordo. Invece alla fine questo Rulebook ossia il set di norme tecniche che stabilisce come misurare le emissioni di gas serra di ciascun Paese e come monitorare e comunicare le riduzioni, è stato approvato; un set che varrà indistintamente per tutti, ricchi e poveri, ma con una certa flessibilità: se un paese in via di sviluppo non pensa di riuscire a raggiungere gli standard richiesti lo potrà dichiarare e chiedere un sostegno per aumentare le sue capacità tecniche in quella direzione.

Per quanto concerne la dibattuta inclusione del Rapporto dell’IPCC sulle conseguenze di un innalzamento della temperatura sopra l’1.5°C,  è stato raggiunto un compromesso: se durante i lavori dell’Organo Sussisidiario di Consulenza Scientifica e Tecnologica (SBSTA) i negoziatori avevano incluso un semplice richiamo a considerare i risultati del rapporto, ora il testo del Rulebook richiede agli specialisti del SBSTA di riconsiderare il rapporto durante la loro prossima sessione negoziale prevista per giugno 2019.

Ma le note positive si chiudono qui e proprio di fronte al monito posto dal Rapporto IPPC è impossibile non scrivere che Katowice è stato un fallimento poiché non si è concordato di apportare alcun miglioramento agli impegni sinora presi da ciascun Paese, i Contributi Nazionali Volontari (NDCs). Quelli finora presentati, non riusciranno a soddisfare l’obiettivo generale dell’Accordo di Parigi, e anche se raggiunti (cosa per nulla scontata) porteranno ad un aumento del riscaldamento globale al di sopra dei 3° C.

Insomma questa COP è stato un test sul multilateralismo climatico, che i paesi hanno superato per il rotto della cuffia: non sono stato bocciati ma più che una promozione è un rinvio a settembre. E questo è un elemento costante di tutte le COP che con enorme fatica ogni anno fanno passi in avanti sì, ma a una velocità inadeguata alle necessità di un clima che cambia senza aspettare i tempi della politica.

Analizzando le posizioni dei Paesi presenti va notato che una quarantina di Paesi avevano puntato ad un risultato più ambizioso: l’Unione Europea con Canada e molti paesi in va di sviluppo hanno sostenuto i risultati dell’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc).  Sul fronte opposto i cosiddetti “fossili”, una coalizione formata da Usa, Arabia Saudita, Russia e Kuwait. Maglia nera al Brasile, che ha rinunciato ad ospitare la prossima COP25 – che si farà in Cile – e ha bloccato la chiusura dei negoziati all’ultimo minuto rivendicando i vecchi (e poco trasparenti) «crediti in CO2» ereditati dal precedente protocollo di Kyoto per la presenza della foresta amazzonica sul suo territorio.

E il nostro Paese come si è comportato? L’Italia si è schierata con l’UE nel gruppo dei paesi ambiziosi e il ministro dell’ambiente Sergio Costa ha annunciato l’impegno italiano di chiudere tutte le centrali elettriche a carbone entro sette anni. Ma Occorrerà passare dalle parole ai fatti perché nei primi nove mesi di attività il nuovo governo non ha attuato alcuna riforma per decarbonizzare il sistema energetico. L’attuale strategia energetica nazionale (Sen) pone come obiettivo di lungo periodo una riduzione di solo il 63 per cento delle emissioni entro il 2050, a fronte dell’impegno del ministro Costa di arrivare a zero emissioni nette entro quella data. La Sen continua a far affidamento all’utilizzo e all’espansione delle infrastrutture a gas per raggiungere tale l’obiettivo, mentre la generazione da carbone può invece essere sostituita interamente da rinnovabili e da un ruolo maggiore delle interconnessioni elettriche. Le quali, insieme alle risorse di flessibilità, garantirebbero la stessa sicurezza a costi inferiori del gas.

In sintesi, di fronte al risultato della COP24 non si può che prendere atto per l’ennesima volta che i ritmi del multilateralismo sono totalmente inadeguati all’emergenza climatica. E non potrebbe essere diversamente perché il vero problema è che a livello sociale manca un vero supporto ad attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Purtroppo, e lo dimostra anche il recente dibattito italiano sulla possibile tassazione delle auto inquinanti per sostenere incentivi per auto a basse emissioni, le misure ambientali sono considerate penalizzanti per l’economia e per le fasce meno abbienti. Manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella “Laudato sì” che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”. La sfida per la sopravvivenza umana su un questo pianeta passa per un’equazione che tenga insieme ambiente, diseguaglianze ed economia, comprendendo che il problema è unico e comprende anche quello dell’emigrazione.

Per questo il vero testo faro per disegnare il nostro futuro non è l’Accordo di Parigi ma l’enciclica di papa Francesco.

Auto ed ecotasse /2 – Imporre balzelli non serve a ‘fare cassa’ ma a educare alla sostenibilità

Nel post precedente si è accennato all’evoluzione futura dei veicoli a ruota motorizzati. Si tratta di un’evoluzione imposta dall’impatto climatico, che può essere accompagnata da provvedimenti fiscali congruenti. Il regime fiscale che si applica alle motorizzazioni che inquinano e emettono climalteranti non ha il compito di “fare cassa”, ma di accelerare una strategia di rapida decarbonizzazione a favore della salute e del clima, anche contro l’inerzia e le convenienze immediate delle industrie dell’auto. La funzione fiscale rappresenta il più vecchio e il più importante compito delle tasse, giacché concentra fondi in bilanci pubblici per finanziare beni comuni (salute e clima in questo caso) e tutelare le fasce dei cittadini più indifesi. Nel nostro caso, infatti, occorre impedire che i meno abbienti e gli occupati nel settore della mobilità vengano puniti da cambiamenti di rotta indispensabili, ma, essendone spesso vittime, ne traggano benefici in salute e utilità sociali.

Già fino alla crisi attuale ci sono stati – e se ne sa poco perché sono occultati dai grandi interessi monopolisti – vincitori indiscussi nel sistema fiscale applicato ai carburanti e agli operatori della mobilità. Basterebbero per tutti i favori pluridecennali elargiti alla Fiat nel nostro Paese o quelli ancor oggi dovuti nell’Ue al mantenimento del tasso minimo di tassazione del gasolio (dal momento che i camion nel traffico internazionale effettuano sistematicamente deviazioni per riempire i serbatoi nei Paesi in cui l’imposta sul carburante è più bassa) o, ancora, alla completa detassazione del carburante utilizzato nell’aviazione internazionale (32 miliardi di esenzioni!) e nella navigazione.

La tassa ambientale all’acquisto (malus) è concepita per svolgere una funzione di “riparazione a priori”, con un effetto educativo perché induce una percezione di nocività e uno correttivo al fine di limitare la diffusione di mezzi più inquinanti. Nella sua versione incentivante (bonus) il fisco dovrebbe svolgere invece una funzione di stabilizzazione della sostenibilità all’interno della società. Ma, una volta definiti sommariamente gli scopi, bisogna entrare nella complessità del problema per dare una risposta esauriente al problema del trasporto, estendendo il bilancio all’intero ciclo e passando per l’alimentazione dei veicoli e le infrastrutture su cui viaggiano.

Nel 2012, quando la media delle emissioni della CO2/km delle nuove auto era 135 g, la Ue aveva fissato limiti per le auto nuove entro 120 g per il 2015 e 95 g entro il 2020. Nel frattempo, le emissioni medie di CO2 delle autovetture nuove sono diminuite costantemente, passando da 170 g di CO2/km nel 2001 a 118 g di CO2/km nel 2016, con un tasso annuo di riduzione del 2%. Sarà necessaria un’ulteriore riduzione del 19,5% delle emissioni medie di CO2 per rispettare l’obiettivo 2021 di 95 g CO2/km (27% al di sotto dell’obiettivo del 2015). Tutto bene? No, poiché il trend di riduzione risulta troppo lento, oltre a essere aggravato dal maggior peso medio delle vetture prodotte, quasi sempre riempite dal solo guidatore che si muove nel traffico urbano a non più di 19km/h.

Penso che si debba allargare il campo di valutazione. Le domande cui rispondere sono tutte collegate e da prendere nella loro complessa coerenza: quali soluzioni contribuiscono a rendere effettivamente “sostenibile” il sistema della mobilità; quali fonti energetiche, quali tecnologie di trasformazione, quali vettori energetici o combustibili, quali sistemi di trazione sono più promettenti; quali iniziative, coerenti con le strategie definite in tema di energia e mobilità, vanno intraprese per concorrere al mantenimento dell’occupazione in attività industriali, servizi, ricerca e infrastrutture; come governare pubblicamente e non solo dal mercato lo sviluppo del progetto.

Le risposte non sono affatto usuali e provo ad avanzarne alcune in veste discriminante: assumere la sostenibilità della mobilità come “prodotto” per un mercato reale, non indotto, tenuto a misurarsi con il carattere sistemico delle molteplici implicazioni – ambientali, territoriali, politiche – di un prodotto socialmente desiderabile; stabilire nell’elettricità e nell’idrogeno da rinnovabili gli elementi risolutivi delle politiche energetiche e per la mobilità; privilegiare, soprattutto sul versante produttivo, le iniziative che consentano di ottenere risultati a breve e, nel contempo, favorire la transizione verso i traguardi strategici individuati (ibridi in particolare); fare leva sulle sinergie tra attività di ricerca e industria per sostenere la competitività del sistema industriale nel suo complesso e determinare le condizioni per la creazione di attività manifatturiere innovative; “aprire” il progetto, coinvolgendo fattivamente tutti gli attori che a esso possono contribuire e istituendo ambiti e procedure di governance adeguati alla complessità dei processi innescati e delle reti di relazioni attivate.

Dall’inizio è bene centrare gli incentivi sulle emissioni, introducendo un criterio sociale per cui si fa pagare meno a chi ha un reddito più basso e prevedendo un bonus rottamazione che premi chi rottama le vecchie auto inquinanti. Ma non basterà l’obbligo di investire in trasporto pubblico come asse indispensabile di una mobilità sostenibile che non è più centrata sul veicolo a proprietà individuale.

A questo punto, ci si potrebbe chiedere se esiste uno scenario in cui inquadrare l’intera questione energia-clima, trasporti compresi. Esiste in effetti una forma di tassa molto più efficiente di quelle qui contemplate e non riferita al consumatore finale. Per mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei due gradi, come indicato dal rapporto Ipcc a Katowice, va presa in considerazione la proposta avanzata nel gennaio 2013 da Hansen, per cui alle compagnie che operano nel campo dei combustibili fossili verrebbe addebitata una tassa sul carbonio imposta alla sorgente, al pozzo minerario o al punto d’ingresso, distribuendo mensilmente il 100% delle entrate riscosse, a titolo di dividendo, alla popolazione, su una base pro capite.

Ciò sarebbe accompagnato dall’eliminazione delle attuali sovvenzioni all’industria dei combustibili fossili. Se si vuole, un autentico reddito di cittadinanza finalizzato al lavoro, alla riduzione dell’orario, alla salvaguardia del clima, alla sopravvivenza nel pianeta. E, questione importante, rivolto a fini distributivi verso la popolazione indigente, che ha un’impronta ecologica minore rispetto alla popolazione più ricca.

Sull’insieme di queste riflessioni è bene riflettere e non raffazzonare e portare all’approvazione di un Parlamento esautorato articoli di legge sillabati all’ultimo minuto: non si può – come ha detto la Fiom – “imboccare la strada sbagliata, investendo milioni di euro della collettività per pochi privati a cui scontare con un bonus l’acquisto dell’auto elettrica e invece scaricare sui cittadini che, non potendo acquistare l’elettrico, sono condannati a pagare un’imposta aggiuntiva che farebbe lievitare il costo del veicolo”.

L’articolo Auto ed ecotasse /2 – Imporre balzelli non serve a ‘fare cassa’ ma a educare alla sostenibilità proviene da Il Fatto Quotidiano.

ECOTASSE, CLIMA, PETROLIO E TRASPORTI

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

Adesso che alla Cop 24 di Katowice tutto è andato come purtroppo si temeva, gli abitanti del pianeta delusi – a partire dagli europei – devono abbandonare quell’apatia nei confronti del cambiamento climatico che permette ai governanti di essere sconsideratamente negazionisti e di accreditare la frottola che le misure ambientali penalizzerebbero l’economia e le fasce meno abbienti. Il governo italiano non fa che accreditare di fatto un’impostazione tanto spudorata: Matteo Salvini e Luigi Di Maio, all’ombra del loro stravagante “contratto” e di baratti rabberciati all’ultimo minuto, sviano continuamente l’attenzione dai problemi reali e dalla possibilità di far crescere una coscienza matura. È quel che sta avvenendo sul nodo della necessaria decarbonizzazione dell’economia, mentre i vicepremier duellano il mattino per rappacificarsi la sera. Come è successo per la Tap, anche sulle ecotasse sembra proibito poter discutere e confrontarsi e i problemi vengono accantonati in cambio di un disorientamento generale, che consente alla Lega di rinforzare gli steccati di un sovranismo tanto impotente quanto discriminatorio.

Senza tener conto che occorre una programmazione politica dal lungo respiro per affrontare la sfida europea e mondiale della decarbonizzazione dei trasporti, con le schermaglie su improvvisati provvedimenti fiscali per l’auto – chiamati “ecotasse” per scandalizzare Fca e allarmare qualche benpensante – si è cercato di far credere che la difesa dell’ambiente sia un lusso che devono pagare i lavoratori e i meno ricchi. Al contrario, le questioni dell’impatto sulla mobilità, sull’occupazione, sul reddito, sulla salute e sul clima del superamento del motore a scoppio (che è la vera ragione per una politica fiscale sulle motorizzazioni) merita ben altra informazione e ben altro dibattito rispetto a quello che ci viene propinato.

In questa prima nota affronto il problema della rivoluzione nel sistema dei trasporti, già in atto, per poi discutere nel prossimo post la questione della carbon tax entro cui collocare la cosiddetta ecotassa, e prendere in considerazione le ricadute sociali a essa collegate.

Che il motore a scoppio – a benzina o gasolio – non faccia bene lo sa chiunque si sia avvicinato a un tubo di scappamento. La sua massiccia diffusione nell’ambiente in cui viviamo produce sia effetti cancerogeni, dovuti principalmente a polveri sottili, sia un contributo all’aumento di temperatura dovuto alle simultanee emissioni di CO2. Dato che la mobilità, anche se porta inconvenienti alla salute, è un diritto cui difficilmente si rinuncia, programmarne il futuro è questione di natura ancor più sociale che puramente economica. Siamo di fronte a sfide inedite su cui vengono giudicati i governi, come è il caso di tutti i Paesi sviluppati e come testimonia la vicenda dei gilet gialli francesi, che ha messo in luce tutti i rischi di un intervento autoritario in materia di tasse, mobilità e tutela ambientale.

Se partiamo da considerazioni su inquinamento e clima, dobbiamo avere presente che il diesel è più pericoloso per i suoi effetti cancerogeni (anche se i veicoli a benzina sono tutt’altro che esenti da conseguenze nefaste), mentre per il clima la maggior perniciosità dei due carburanti si viene a invertire. Tutto sommato, non dà granché risultati rimpiazzare un motore a combustione con l’altro (benzina al diesel), tranne che nel traffico cittadino dove si concentrano le polveri sottili. Affidare sostanzialmente all’abbandono del diesel il superamento della crisi del binomio (auto individuale + petrolio) è ingannevole. A cominciare dal fatto che un barile di petrolio (159 litri) finito in raffineria produce vari composti fra cui, per più di metà, benzina e gasolio per autotrazione, l’una e l’altro destinati al trasporto delle persone e delle merci, con quest’ultime che viaggiano su ruote con motorizzazioni esclusivamente diesel.

Allora è il motore a combustione in generale che manifesta il suo limite, dato che per ogni litro di carburante consumato vengono emessi circa 2,5 chilogrammi di CO2 (media sommaria fra i vari tipi di carburante, Gpl e metano compresi). Non c’è dubbio che il motore a scoppio (compreso quello alimentato a metano) andrà progressivamente sostituito con altre tipologie di motorizzazioni e combustibili che non producano effetti climalteranti.

La riconversione verso l’elettrico dei veicoli su gomma è una soluzione di prospettiva. Considerando l’intero ciclo “dal pozzo alla ruota” (well to wheels), il motore elettrico (alimentato a batteria o rifornito a idrogeno con pile a combustibile) non può che essere il terminale di un sistema diffuso di trasformazione e stoccaggio di vettori (elettricità o idrogeno) prodotti da fonti rinnovabili, per non comportare effetti perniciosi sul clima. Verso la definitiva decarbonizzazione, va incentivato lo sviluppo di tecnologie che migliorino il rendimento dei motori e le loro emissioni, con la combinazione di motore a scoppio e generatore di corrente (veicoli ibridi), riorganizzando le stazioni di servizio con la disposizione di colonnine di ricarica.

Qui un’ultima ma decisiva valutazione: la congestione spaziale, lo spreco e l’accumulo di rifiuti provocata dalle auto a proprietà individuale mette un freno all’entusiasmo per la soluzione enfatizzata dell’auto elettrica a guida automatica: forse l’escamotage più accattivante con cui le case automobilistiche possono rilanciare il mercato sotto la forma di status symbol per benestanti. Il motore elettrico è sì uno sconvolgimento del panorama attuale, ma ci si deve assicurare che eventuali benefici siano condivisi da tutti e che nessuno rimanga indietro. Ma se vogliamo letteralmente sopravvivere avendo cura del pianeta, non possiamo che ridurre il consumo di mobilità su mezzi individuali. Di questo e del regime fiscale con cui accelerare la transizione tratteremo nel prossimo post.

Auto ed ecotasse /1 – La rivoluzione nei trasporti è già in atto. E a pagarla non saranno i meno ricchi

Adesso che alla Cop 24 di Katowice tutto è andato come purtroppo si temeva, gli abitanti del pianeta delusi – a partire dagli europei – devono abbandonare quell’apatia nei confronti del cambiamento climatico che permette ai governanti di essere sconsideratamente negazionisti e di accreditare la frottola che le misure ambientali penalizzerebbero l’economia e le fasce meno abbienti. Il governo italiano non fa che accreditare di fatto un’impostazione tanto spudorata: Matteo Salvini e Luigi Di Maio, all’ombra del loro stravagante “contratto” e di baratti rabberciati all’ultimo minuto, sviano continuamente l’attenzione dai problemi reali e dalla possibilità di far crescere una coscienza matura. È quel che sta avvenendo sul nodo della necessaria decarbonizzazione dell’economia, mentre i vicepremier duellano il mattino per rappacificarsi la sera. Come è successo per la Tap, anche sulle ecotasse sembra proibito poter discutere e confrontarsi e i problemi vengono accantonati in cambio di un disorientamento generale, che consente alla Lega di rinforzare gli steccati di un sovranismo tanto impotente quanto discriminatorio.

Senza tener conto che occorre una programmazione politica dal lungo respiro per affrontare la sfida europea e mondiale della decarbonizzazione dei trasporti, con le schermaglie su improvvisati provvedimenti fiscali per l’auto – chiamati “ecotasse” per scandalizzare Fca e allarmare qualche benpensante – si è cercato di far credere che la difesa dell’ambiente sia un lusso che devono pagare i lavoratori e i meno ricchi. Al contrario, le questioni dell’impatto sulla mobilità, sull’occupazione, sul reddito, sulla salute e sul clima del superamento del motore a scoppio (che è la vera ragione per una politica fiscale sulle motorizzazioni) merita ben altra informazione e ben altro dibattito rispetto a quello che ci viene propinato.

In questa prima nota affronto il problema della rivoluzione nel sistema dei trasporti, già in atto, per poi discutere nel prossimo post la questione della carbon tax entro cui collocare la cosiddetta ecotassa, e prendere in considerazione le ricadute sociali a essa collegate.

Che il motore a scoppio – a benzina o gasolio – non faccia bene lo sa chiunque si sia avvicinato a un tubo di scappamento. La sua massiccia diffusione nell’ambiente in cui viviamo produce sia effetti cancerogeni, dovuti principalmente a polveri sottili, sia un contributo all’aumento di temperatura dovuto alle simultanee emissioni di CO2. Dato che la mobilità, anche se porta inconvenienti alla salute, è un diritto cui difficilmente si rinuncia, programmarne il futuro è questione di natura ancor più sociale che puramente economica. Siamo di fronte a sfide inedite su cui vengono giudicati i governi, come è il caso di tutti i Paesi sviluppati e come testimonia la vicenda dei gilet gialli francesi, che ha messo in luce tutti i rischi di un intervento autoritario in materia di tasse, mobilità e tutela ambientale.

Se partiamo da considerazioni su inquinamento e clima, dobbiamo avere presente che il diesel è più pericoloso per i suoi effetti cancerogeni (anche se i veicoli a benzina sono tutt’altro che esenti da conseguenze nefaste), mentre per il clima la maggior perniciosità dei due carburanti si viene a invertire. Tutto sommato, non dà granché risultati rimpiazzare un motore a combustione con l’altro (benzina al diesel), tranne che nel traffico cittadino dove si concentrano le polveri sottili. Affidare sostanzialmente all’abbandono del diesel il superamento della crisi del binomio (auto individuale + petrolio) è ingannevole. A cominciare dal fatto che un barile di petrolio (159 litri) finito in raffineria produce vari composti fra cui, per più di metà, benzina e gasolio per autotrazione, l’una e l’altro destinati al trasporto delle persone e delle merci, con quest’ultime che viaggiano su ruote con motorizzazioni esclusivamente diesel.

Allora è il motore a combustione in generale che manifesta il suo limite, dato che per ogni litro di carburante consumato vengono emessi circa 2,5 chilogrammi di CO2 (media sommaria fra i vari tipi di carburante, Gpl e metano compresi). Non c’è dubbio che il motore a scoppio (compreso quello alimentato a metano) andrà progressivamente sostituito con altre tipologie di motorizzazioni e combustibili che non producano effetti climalteranti.

La riconversione verso l’elettrico dei veicoli su gomma è una soluzione di prospettiva. Considerando l’intero ciclo “dal pozzo alla ruota” (well to wheels), il motore elettrico (alimentato a batteria o rifornito a idrogeno con pile a combustibile) non può che essere il terminale di un sistema diffuso di trasformazione e stoccaggio di vettori (elettricità o idrogeno) prodotti da fonti rinnovabili, per non comportare effetti perniciosi sul clima. Verso la definitiva decarbonizzazione, va incentivato lo sviluppo di tecnologie che migliorino il rendimento dei motori e le loro emissioni, con la combinazione di motore a scoppio e generatore di corrente (veicoli ibridi), riorganizzando le stazioni di servizio con la disposizione di colonnine di ricarica.

Qui un’ultima ma decisiva valutazione: la congestione spaziale, lo spreco e l’accumulo di rifiuti provocata dalle auto a proprietà individuale mette un freno all’entusiasmo per la soluzione enfatizzata dell’auto elettrica a guida automatica: forse l’escamotage più accattivante con cui le case automobilistiche possono rilanciare il mercato sotto la forma di status symbol per benestanti. Il motore elettrico è sì uno sconvolgimento del panorama attuale, ma ci si deve assicurare che eventuali benefici siano condivisi da tutti e che nessuno rimanga indietro. Ma se vogliamo letteralmente sopravvivere avendo cura del pianeta, non possiamo che ridurre il consumo di mobilità su mezzi individuali. Di questo e del regime fiscale con cui accelerare la transizione tratteremo nel prossimo post.

[continua…]

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L’aria che tira sul pianeta

È disponibile nella sezione Shop una nuova pubblicazione di Mario Agostinelli, L’aria che tira sul pianeta.

Dalle avvertenze dell’autore:

“Il testo va letto come la compilazione riordinata di una serie di appunti che non hanno trovato una versione definitiva, perché ho ritenuto che fosse assai più urgente di una pubblicazione organizzata e ben meditata una riflessione di getto su quanto il tema dell’immigrazione richiami ben altre emergenze rispetto cui va riscritta l’agenda politica del nostro tempo. Chi migra e chi accoglie (a questi ultimi sono rivolti gli appunti) sa che le reali emergenze del nostro tempo sono lontane dal falso e volgare racconto dell’invasione, così caro a Salvini.

 La tesi che sostengo è che i cambiamenti climatici vengono prima e impongono di osare di più, con un approccio meno timido di quanto normalmente facciamo, nel pensare che tocca a noi già ora“abitare” il nostro futuro. Il negazionismo con cui veniamo fissati al presente, non è nient’altro che un trucco riuscito di distrazione di massa. La misura delle soluzioni da prendere in considerazione e per cui cominciare a lottare non andrà certo nella direzione voluta dalla globalizzazione univocaliberista.

Con la persecuzione in atto dei migranti, giustizia climatica e sociale continuano ad essere posticipate e tenute fuori gioco e a non procedere di pari passo.

 Gli appunti sono forse disorganici e un po’ripetitivi, ma non mancano di uno sforzo di spiegazione e di una analisi approfondita con – credo – una sua originalità. “