#10yearschallenge e clima, cosa è successo al pianeta in dieci anni e quale futuro ci attende

Va per la maggiore postare immagini di come si era nel 2009 rispetto all’anno in corso. Dieci anni fa. Un confronto non certo esaustivo se si parla di clima e dello stato del pianeta. In questo caso, in virtù dell’accelerazione dei cambiamenti in corso, affiora una sensibilità nuova rispetto allo scorrere del tempo: non è significativo solo quanto tempo è passato “da”, ma quanto manca “a”. Ossia, dovremmo chiederci se tra dieci anni saremo in un mondo ancora in continuità con quello di dieci anni fa, oppure osserveremo paesaggi e una biosfera irreversibilmente mutati rispetto alla memoria che ci rimane? Pertanto, per adattare un hashtag diventato virale a immagini realistiche dell’evoluzione dell’ambiente in cui viviamo, proverò a far ponte tra il 2009 e il 2029, gettando, a mo’ di esempio, dapprima uno sguardo in Inghilterra sugli effetti di 10 anni di cambiamenti climatici precedenti a oggi e illustrando in seguito le previsioni sui 10 anni a venire di cui il Pentagono ha informato un Trump tanto allibito quanto ostinatamente negazionista.

10 anni fa in Inghilterra. Un decennio fa il Regno Unito ha compiuto un passo coraggioso adottando una legge sui cambiamenti climatici e impegnandosi a ridurre significativamente le emissioni di gas serra entro il 2050. Dal 2008 al 2018 il Climate Change Act ha fornito compiti, responsabilità e una certa chiarezza sulla direzione di marcia da intraprendere per contrastare l’aumento della temperatura dovuto ai comportamenti della popolazione. A distanza di un decennio, la legge ha ottenuto un calo delle emissioni del 43% rispetto ai livelli del 1990. Lo smog più denso sul Tamigi è quasi scomparso.

Nel 2017 per la prima volta la maggior parte dell’elettricità del Regno Unito proveniva da fonti rinnovabili o a basse emissioni di carbonio, con fumate meno dense all’orizzonte, mentre l’economia, con un mix di sorgenti energetiche più pulite, riusciva a registrare una fase di espansione. Questi segnali positivi non sono bastati: il mutamento climatico si è fatto più rilevante; è andato perso il 26% della fauna selvatica (il 60% rispetto al 1970); il ritardo per limitare l’innalzamento della temperatura ai fatidici 1.5°C risulta sempre più incolmabile e le misure adottate finora hanno colpito di più le persone povere e svantaggiate, dal momento che i costi della transizione energetica (stimati attorno ai 600 miliardi di Euro) senza l’applicazione di una carbon tax, si sono in gran parte scaricati sui consumatori anziché sui grandi produttori di energia. Nel film dei dieci anni si potrebbe constatare anche una sproporzionata e improvvida destinazione di terreni per insediamenti umani, allevamenti e mangimi per bestiame, mentre i rischi di calore estremo e gli eventi meteorologici negativi sono cresciuti di anno in anno, come evidenziato dalla calura dell’ultima estate londinese e dalle inondazioni della primavera che l’ha preceduta.

Le previsioni del Pentagono per il 2030. Giorni fa è uscito un rapporto del Pentagono sui cambiamenti climatici con particolare attenzione alle “foto” prossime future delle basi americane in giro per il mondo. A premessa di provvedimenti operativi che riguarderanno i singoli siti, sono state espresse alcune considerazioni generali assai significative se non intriganti, vista la loro provenienza. Innanzitutto, si afferma che gli effetti del clima che muta rappresentano un problema di sicurezza nazionale, mentre, per la prima volta, viene preso atto che un brusco cambiamento climatico (vale a dire in una scala che cambia drammaticamente in anni, piuttosto che decenni o secoli) sia altrettanto probabile di un mutamento graduale. Se la rapidità prevalesse sulla gradualità cambierebbe lo scenario profilato dieci anni fa, secondo il quale l’agricoltura dell’Europa settentrionale, della Russia e del Nord America sarebbero prosperate, mentre l’Europa meridionale, l’Africa e l’America centrale e meridionale avrebbero sofferto di un aumento della scarsità d’acqua. Non più produzione di champagne nelle isole britanniche né grandi bacini di riserva idrica nelle zone subtropicali. Infine, perfino gli scienziati del Pentagono valutano che il riscaldamento globale sarà nei prossimi decenni un fattore crescente di estinzione delle specie, il cui tasso al momento è più alto che in qualsiasi momento dalla scomparsa dei dinosauri, 65 milioni di anni fa.

Sul piano più strettamente militare, si ritiene che il riscaldamento dell’Artico stia creando maggiori opportunità per un conflitto con la Russia e la Cina. L’indagine più estesa riguarda in dettaglio i modi con cui il cambiamento climatico – tenendo conto di cinque fattori: inondazioni ricorrenti, siccità, desertificazione, incendi boschivi e scongelamento del permafrost – potrebbe colpire migliaia di basi e installazioni militari sparse nel mondo. Circa i due terzi delle 79 installazioni trattate risultano danneggiabili all’innalzamento del mare o a future inondazioni ricorrenti e oltre la metà sono vulnerabili alla siccità attuale o futura. Circa la metà è esposta al crescente pericolo di incendi distruttivi. Ovviamente, gli impatti a causa di inondazioni costiere variano da regione a regione con maggiore impatto sulla costa orientale e le Hawaii rispetto alla costa occidentale. Addirittura, la regione di Hampton Roads in Virginia è citata come esempio di un’area che nei prossimi decenni dovrà affrontare un aumento del livello del mare fino a 45 centimetri.

Per il Pentagono di Trump, la risposta a tutti questi pericoli sembrerebbe essere diretta: armati fino ai denti e costruire un muro inespugnabile intorno agli Stati Uniti, mentre si tengono sotto tiro le altre potenze. Più realisticamente, penso impossibile agire non in pace e da soli.

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L’aria che tira sul pianeta

Un testo di 65 pagine in forma di appunti, per rimarcare quanto la vulgata di una invasione del nostro Paese da parte degli immigrati sia lontana dalla realtà e costituisca in realtà uno strumento di distrazione dalle autentiche emergenze: distruzione del pianeta, guerre, corsa al riarmo, migrazione forzata, sfruttamento del lavoro e della natura a tutte le latitudini, cultura dello scarto, spregio del vivente, primato della finanza e violazione dei diritti civili e sociali.

Fenomeni interconnessi che richiedono una alleanza convinta e vasta per il clima, la Terra e la giustizia sociale. Un discorso che esce dagli specialismi – anche quelli umanitari – partendo da una constatazione: “L’apatia del cambiamento climatico, non la negazione, è la più grande minaccia per il nostro pianeta”.

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L'aria che tira sul pianeta recensione
Fonte foto: La Bottega del Barbieri (da Google)

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“La falsa narrazione delle destre reazionarie, xenofobe e razziste opera quotidianamente con l’indice puntato contro i migranti, agitando i pericoli e le paure derivanti dal rischio presunto dell’invasione di orde di barbari, che minaccerebbero l’ordine e il benessere acquisito di quanti non vorrebbero essere disturbati nel loro orizzonte consumistico e predatorio di quelle risorse del pianeta esclusivamente a loro disposizione…” (di Gian Marco Martignoni)

Sabato 19 gennaio a Milano: Forum dell’ASSOCIAZIONE LAUDATO SI’

Sabato 19 gennaio 2019, dalle ore 9.30 alle ore 17.30, nella Sala delle conferenze di Palazzo Reale a Milano, si terrà il Forum dell’associazione Laudato si’: Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale.

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Nel 2015 papa Francesco pubblicò l’enciclica Laudato si’, prendendo le mosse dal Cantico delle creature di Francesco d’Assisi: un testo rivolto a credenti e non credenti, segnato dall’abbandono della visione antropocentrica che caratterizza la nostra cultura e dal richiamo alla necessità di un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale. Un discorso rivoluzionario, che esce dagli specialismi – anche quelli umanitari – per dirci che distruzione del pianeta, guerre, corsa al riarmo, migrazione forzata, sfruttamento del lavoro e della natura a tutte le latitudini, cultura dello scarto, spregio del vivente, primato della finanza e violazione dei diritti civili e sociali sono fenomeni strettamente interconnessi.

Scopo del forum è aprire un tavolo di lavoro sulle tematiche dell’enciclica, articolate come un orizzonte di impegni da assumere per colmare un vuoto di rappresentanza, e da sottoporre già ai prossimi candidati e candidate alle elezioni europee. Nessun manifesto ecologico e politico è infatti così completo, capace di comprendere la dimensione della giustizia sociale, del rispetto dei diritti, della cura della casa comune e del vivente, nella consapevolezza dell’urgenza di una pratica di resistenza culturale, educativa e comunicativa.

Al forum prenderanno parte intellettuali, sindacalisti, attivisti impegnati nella difesa del clima, dell’ambiente, della pace, del lavoro, dei diritti umani, dell’accoglienza di profughi e migranti che hanno sottoscritto la lettera-appello costitutiva dell’associazione Laudato si’: da Donatella di Cesare e Francesco Remotti ad Aldo Bonomi e Luca Zevi, da Massimo Scalia e Karl Ludwig Schibel a Lisa Clark e Antonio De Lellis, dalla segretaria nazionale della FIOM Francesca Re David a Luigi Manconi, Raniero la Valle, Alessandra Ballerini e Riccardo Gatti.

Saranno presenti esponenti di numerose associazioni provenienti da tutta Italia: Re:Common, NoTap, NoTriv, Rete dei Comuni solidali, Comitato italiano per un Contratto mondiale sull’acqua,  No CPR, Ri-Maflow, Proactiva Open Arms, CIPSI, Comitato per l’annullamento del debito illegittimo, ARCI, Distretto Economia Solidale Rurale – Parco Agricolo Sud Milano, Associazione Italiana Esposti Amianto, Rete italiana per il disarmo, In difesa di, Pax Christi e molte altre.

L’impegno che verrà preso è costituire, sui cardini della Laudato si’ – ambiente, clima, pace, migrazione, accoglienza, lavoro, giustizia sociale, contrasto della povertà, cura della casa comune, tutela del vivente – i rispettivi gruppi tematici che elaboreranno, entro la fine di febbraio, i punti di una carta d’impegni condivisa, nella consapevolezza dell’urgenza di una pratica di resistenza culturale, educativa e comunicativa.

L’intervento conclusivo sarà affidato a don Virginio Colmegna presidente della Casa della Carità e cofondatore dell’associazione Laudato si’

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L’iniziativa è co-promossa dal gruppo consiliare Milano in Comune, con la partecipazione di Casa della carità, Osservatorio Solidarietà, Associazione Diritti e Frontiere (ADIF), CostituzioneBeniComuni, Energia Felice, Ecoistituto della Valle del Ticino.

Petrolio, carbone e gas salveranno il lavoro?

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi 2015. Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni fa, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l’incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo. Vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve che, secondo l’Ipcc, non può andare oltre i prossimi 15 anni.

Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni – senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Donald Trump Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali a essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella Laudato Si’ e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma (mi auguro) già capace di segnali al prossimo congresso Cgil. L’accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare la strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (Tav) o lungo un litorale marino (Tap) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all’eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine “giusta transizione”, che non può che basarsi su un’attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5°C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. È d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati a una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone, petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice un’ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione Ue è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all’Ue. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Val di Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

Petrolio, carbone e gas salveranno il lavoro (forse). Ma per il clima sarà un disastro

I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi 2015. Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni fa, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l’incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo. Vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve che, secondo l’Ipcc, non può andare oltre i prossimi 15 anni.

Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni – senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Donald Trump Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali a essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella Laudato Si’ e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma (mi auguro) già capace di segnali al prossimo congresso Cgil. L’accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare la strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (Tav) o lungo un litorale marino (Tap) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all’eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine “giusta transizione”, che non può che basarsi su un’attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5°C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. È d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati a una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone, petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice un’ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione Ue è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all’Ue. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Val di Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

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