Dal fossile alle rinnovabili /1 – Il governo ha già dato la prima delusione ai giovani per il clima

Siamo ad uno storico distacco, ancora inavvertito eppure definitivo, dai combustibili fossili. Ci si può anche non accorgere e nutrirsi di notizie secondarie da cui fanno capolino felpe, divise, sorrisi improbabili, con sullo sfondo immigrati o striscioni xenofobi. Ma non è facile staccarsi dalle immagini delle ragazze e dei ragazzi che hanno invaso con la loro creatività critica le piazze del mondo civile e nemmeno da quelle più sofferte, ma inesorabili, che ad ogni fine settimana riempiono Parigi di gilet gialli. Le prime avvertono che non abbiamo più tempo e le seconde che è impraticabile la via di far pagare ai più indigenti il necessario cambio di un paradigma che si è fondato sulla rapina della natura e l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro. A distanza di quattro anni, l’Enciclica Laudato Sì ritorna perfino più attuale: ingiustizia climatica e sociale sono il tema e la sfida di quel che rimane del nostro tempo. Sarebbe bene che la politica cominciasse ad occuparsene e a fornire risposte che non si rifugiano in un negazionismo irritante, che perde improvvidi sostenitori ogni giorno, a fronte dell’evidenza. Proviamo a fare i conti con la realtà e le previsioni più accreditate e constatiamo che per tanti governi, come il nostro, tra il dire e il fare c’è ancora di mezzo un mare… attraversato da petrolio e gas fossile.

Secondo la ricerca pubblicata dall’European Heart Journal, l’inquinamento atmosferico sarebbe causa di circa 800.000 morti premature in Europa ogni anno. Un bilancio sinistro, che arriva a circa 9 milioni su scala mondiale. Per gli autori dello studio, il miglioramento della situazione riguarda prima di tutto l’abbandono di un modello di sviluppo basato sui combustibili fossili. Per quanto riguarda il clima, secondo il Global Energy Perspective di McKinsey 2019, il mondo si potrebbe salvare solo se, dopo oltre un secolo di crescita costante, la domanda globale di energia dovesse ottenere il suo picco attorno al 2030, anche nel caso in cui le popolazioni crescano e diventino più benestanti. Per le emissioni di carbonio il primo calo dovrebbe avvenire a metà del 2020 ed un calo di circa il 20% entro il 2050. Ma potrebbe non bastare: in ogni caso risulta determinante il passaggio dai combustibili fossili all’eolico e al solare, con un aumento, dal 2015 al 2050, di almeno un fattore di 13 e 60 rispettivamente, mentre già nel 2035 le due fonti naturali dovranno rappresentare più del 50% della generazione.

Se queste sono le previsioni che provengono da fonti insospettate, dobbiamo sapere che il modo in cui alimentiamo i mezzi di trasporto, riscaldiamo le nostre case, alimentiamo le nostre industrie, rivediamo i nostri stili di vita si trasformerà radicalmente. La crescita della domanda di petrolio e carbone dovrebbe così rallentare, con il picco del petrolio all’inizio degli anni 30. La domanda di gas è prevista in lenta crescita solo fino al 2035 e, successivamente, in calo. Il primo obiettivo che ogni Paese dovrebbe proporsi oggi è quindi una rapida transizione energetica per contenere al massimo gli effetti di un brusco cambiamento climatico.

Il governo gialloverde, così impegnato nel respingimento dei migranti, ha presentato solo a dicembre 2018 il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima. Piano richiesto dalla Ue e che, contrariamente ad ogni ragionevole aspettativa, non prevede e tantomeno propone una forte riduzione dell’uso dei combustibili fossili né una forte espansione delle rinnovabili. Il Piano si spinge al 2040, prevedendo che la fonte prevalente di energia primaria siano ancora i combustibili fossili (circa 65%). L’uscita dal carbone è prolungata di cinque anni rispetto alle indicazioni per una dead line al 2035; il petrolio diminuisce solo da 36% al 31%; il gas rimane addirittura invariato al 37% e le rinnovabili aumentano soltanto dal 18% al 28%. Questi dati sono molto deludenti e sono criticati con decisione da un gruppo di docenti e ricercatori di Università e Centri di ricerca che attacca la decisione di “facilitare e potenziare, anziché di limitare, l’approvvigionamento e l’utilizzo di gas e petrolio”. Non si capisce, quindi, come faremmo a limitare drasticamente, se non eliminare, i combustibili fossili entro il 2050. Risulta così un evidente avallo alla costruzione di infrastrutture (come la Tap) per fare dell’Italia un hub del gas, mentre la vera sicurezza energetica, quella che potrebbero fornirci le energie rinnovabili, non viene perseguita.

Per quanto riguarda la riduzione delle emissioni, il Piano si adagia sulle prescrizioni della Ue (riduzione delle emissioni del 40% al 2030), mentre il Parlamento europeo ha già chiesto che la riduzione sia portata al 55%. La pressione delle lobby ha fatto sparire la carbon tax, mentre rimangono saldamente in piedi le reti di teleriscaldamento alimentate da centrali termoelettriche a cogenerazione, biomasse, o termovalorizzazione dei rifiuti. In un prossimo post esamineremo gli effetti del piano sui trasporti e in uno ancora successivo le soluzioni di politica economica e industriale, nonché gli indirizzi di politiche sociali che possano dar gambe a soluzioni efficaci, anziché ad incauti sberleffi all’audacia degli studenti che il 15 marzo hanno invaso le città italiane.

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Clima, i ragazzi mi hanno fatto capire perché la loro mobilitazione conta tantissimo

Ogni volta mi faccio sorprendere dalla inconsueta freschezza con cui i miei nipoti elaborano una loro immagine del mondo, che acquisiscono attraverso una autentica “compressione” del trascorrere del tempo (sono istantaneamente in relazione con quanto accade ovunque). I battiti del loro orologio non sono identici a quelli del mio e me lo rivelano con le loro scoperte sulla natura, gli animali, le piante con cui convivono. Davvero hanno una percezione della loro presenza al mondo diversa da quella che avevo io alla loro età. So di affermare cose che ciascuno sperimenta, ma non vuole prendere in conto, fino a che si passa dall’osservazione del presente alle previsioni del futuro. Ci casco ogni volta, perché l’immagine che comunicano i miei nipoti ha quel carattere di novità che fa capire che tra la loro e la mia esperienza è passato del tempo: tanto più accelerato, quanto più ci si avvicina alla sensazione cosciente di un pianeta difficile da abitare da grandi.

Ho riprovato la stessa sensazione la mattina del 13 marzo in una affollata assemblea di studenti liceali in una grande sala di Busto Arsizio, in preparazione della mobilitazione di venerdì 15 marzo sul clima. Oltre trecento, attentissimi, nel ruolo di protagonisti, creativi nel loro esprimersi con video, cartelloni – persino una recita teatrale – e ben consci che per loro, al contrario che per me quando ero ragazzo, il tempo non si conta da qui in avanti, ma all’indietro: “Quanto manca a?” (al crescere del livello del mare oltre i frangiflutti che resistono da secoli, all’estendersi di zone aride anche nella fascia prealpina, all’indebolirsi del legame con il territorio già martoriato dall’inquinamento e reso inagibile alla mobilità proprio nelle ore in cui migliaia di auto, sempre più grandi e potenti, trasportano una mamma con un serbatoio di combustibile pieno ma con un solo bambino a bordo, verso i cancelli dell’istituto in cui andrà ad imparare…).

Questa generazione, con cui provo ad interagire parlando del clima e che frequenta la scuola con una facoltà di connessione attraverso la rete con tutte le fonti di informazione mai sperimentata fino ad ora, si sente dire che, se si continuerà a percorrere la strada dello sviluppo così come l’avevamo immaginata, al massimo avrà davanti a sé qualche nipote o pronipote, a meno che… E qui non c’è alcuna alzata di spalle. Anzi! Qualcuno ha detto: “Son passati 4 mesi da quando la totalità dei governi e delle genti del mondo ha saputo… non è cambiato nulla, nulla, ora tutti pensano a comprare il 5G e la crociera scontata del 70%… ma io fatico a dormire”. Riflessioni così autentiche e incontestate scuotono l’indifferenza che i negazionisti climatici cercano di imporci a qualsiasi costo. Anche quello di ritenere che non ci sia spazio per tutti sulla Terra e che rinchiudersi nei “nostri” territori, respingendo gli “invasori”, impedirebbe di diventare anche noi, prima o poi migranti a causa del precipitare del cambiamento climatico.

Ora che il negazionista per eccellenza, Donald Trump, è stato eletto presidente Usa ed è diventato il riferimento dei populisti identitari (alla globalizzazione contrappongono il localismo politico) di tutto il mondo, questi giovani rappresentano oggettivamente una novità. E’ significativo che, secondo un recente sondaggio, il 38% dei giovani Usa ritiene che si debbano considerare le conseguenze del riscaldamento del pianeta prima di decidere di fare figli. Se già oggi la crisi climatica presenta il conto di un modello insostenibile, lo scenario al 2050 si annuncia infatti catastrofico per chi allora sarà nel pieno della vita.

Mi sorprende allora questa lucidità che appartiene ai più giovani e capisco che la tempesta creata dallo scuotere di due treccine svedesi risolute non si placherà presto. La metafora delle conseguenze globali del battito d’ali di una farfalla sembra perfino misurato rispetto al possibile diffondersi del messaggio di Greta. Sul finire di un inverno insolitamente tiepido occorre chiedersi: l’Unione europea sarà in grado di fare la sua parte per contrastare il riscaldamento globale? Questa è la posta, forse la più importante, delle prossime elezioni, celata dalla gran parte dei media dietro l’inganno di regolare i conti ciascuno a casa propria, come se si potesse recintare il clima, che, per definizione, è questione sovranazionale! Stiamo cioè parlando dell’impegno dei governanti, di chi ci dovrebbe rappresentare, a diminuire l’emissione di anidride carbonica e altri gas a effetto serra rilasciati dalle centrali termiche, dai motori, dalle industrie, dai sistemi di trasporti, dai cementifici di tutto il continente. Di noi, della nostra economia e del nostro comportamento quotidiano, non delle paure che sono ad arte manipolate.

La mobilitazione dei giovani per incitare governi, ma anche famiglie ed amici, ad agire contro il cambiamento climatico conta tantissimo. Questo è stato detto e raccontato in una mattinata di riflessione comune in una provincia del Paese che si dà per assegnata ad una parte ben precisa nella stizzosa disputa tra i contraenti di un “contratto” che del clima non parla affatto. Anche per riflettere su questa distonia tra politica raccontata e società vissuta, ho voluto raccontare, quasi in diretta e con una modalità diversa da quella con cui ho sempre predisposto i miei post settimanali, un episodio che non resterà isolato – credo – dopo le manifestazioni del 15 marzo.

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Clima, Greta e i giovani spronano i burocrati Ue ad agire. Ma la guerra al carbone è ancora lunga

Per la settima settimana consecutiva, scolari e studenti belgi scioperano per il clima. Questa settimana sono affiancati da Greta Thunberg, la 16enne svedese dalle lunghe trecce che ha iniziato il movimento nel suo stesso Paese. Greta ha incontrato i suoi colleghi a Bruxelles e ha tenuto un discorso in presenza del presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker. Parafrasando il discorso dei burocrati dell’Europa ha detto: “Stiamo battendo a tappeto le scuole proprio perché noi i nostri compiti li abbiamo fatti!” Greta ha invitato i politici ad ascoltare con urgenza gli esperti del clima e insistito sul fatto che i ragazzi non stavano solo combattendo per il proprio futuro “ma per quello di ogni corpo”.

C’è un’enorme distanza tra l’“esposizione” del proprio corpo, del “vivente”, come ostenta Greta – la stessa incompatibilità dello studiare senza occuparsi dell’emergenza del futuro alle porte – e l’irrilevanza con cui i invece i governi si occupano della cura della Terra, tutti presi da un’improbabile uscita dalla crisi, inseguita con le stesse ricette che l’hanno prodotta. Sembra che il buon Juncker abbia consigliato agli studenti di risparmiare acqua quando fanno il bagno.

Si pensi, ad esempio, allo stridore tra la vivacità di quei ragazzi e la pesantezza ottusa del dibattito in corso per abbandonare la combustione del carbone nelle centrali elettriche in giro per il pianeta. Una ricerca recente della Commissione globale sull’economia e il clima evidenzia come per ottenere riduzioni di emissioni climalteranti occorrerebbe agire subito con interventi specifici su cinque settori:

1. energia
2. città
3. cibo e uso del suolo
4. acqua
5. industria

Limitiamoci in questo post alla produzione di energia. Dato che i combustibili fossili rappresentano, con un costo e un impegno economico enorme, ancora l’80% del consumo energetico globale e il 75% delle emissioni di gas serra, non solo causano grande vulnerabilità economica per i prezzi volatili del carburante o le costose importazioni di carbone, petrolio e gas, ma provocano vulnerabilità umana, con un bilancio, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, di 4,2 milioni di persone morte all’anno. La soluzione sta in una sostituzione con fonti rinnovabili e efficienza nel lasso di una transizione il più rapida possibile. Ma come abbandonare il carbone?

Le sovvenzioni e altri sostegni alla produzione e al consumo di combustibili fossili nel 2015 ammontavano ancora a 373 miliardi di dollari all’anno. La riduzione delle sovvenzioni combinata con la fissazione del prezzo di vendita per tonnellata di Co2 emessa (una vera carbon tax all’origine, estesa in modo uniforme) genererebbe 2.800 miliardi di dollari di entrate o risparmi governativi all’anno. Secondo gli analisti, in Ue il prezzo per tonnellata è più che quadruplicato negli ultimi 16 mesi – da quattro euro nel maggio 2017 agli attuali 18 euro – e dovrebbe raggiungere i 25 euro a tonnellata entro la fine del 2019. A un listino di 40 euro a tonnellata, l’Ue potrebbe risparmiare all’ambiente 400 milioni di tonnellate di Co2 e chiudere rapidamente col carbone.

Un grande peso nei consumi proviene dal settore edilizio e vengono alla luce soluzioni interessanti legate al ruolo del pubblico. In India, una società sostenuta dal governo, Energy Efficiency Services Limited, raggruppa gli appalti per accrescere i mercati dell’illuminazione e degli apparecchi ad alta efficienza con un risparmio di 35 miliardi di kilowattora. Negli Stati Uniti e in Germania, le aziende municipalizzate forniscono finanziamenti a basso costo con risultati impressionanti, anche sotto il profilo dell’occupazione: si calcolano tre volte il numero di posti di lavoro, con lo stesso investimento in combustibili fossili (le imprese di energia rinnovabile impiegano 10,3 milioni di persone in tutto il mondo).

Ma la guerra in corso sul mantenimento del carbone è tutt’altro che vinta. La Germania ritarda la chiusura fino al 2038. mentre la Cina ha ritardato o interrotto il lavoro su 151 centrali a carbone e ha creato un fondo di 15 miliardi di dollari per la riqualificazione, la riallocazione e il pensionamento anticipato di circa 5-6 milioni di persone che verrebbero altrimenti licenziate. In Italia, l’Enel ha un comportamento contraddittorio: dopo avere avviato progetti per passare dal carbone – con la chiusura di 23 centrali – a soluzioni compensative, si è aperto un conflitto interno sui tempi. Mentre il ministero dell’Ambiente prevede il 2025 come deadline, per Brindisi, Civitavecchia e Fiumesanto non sono ancora chiare le misure sostitutive da adottare e viene addossato il ritardo alle incertezze dei programmi governativi.

In una sua analisi, la Banca Mondiale (v. Bmi/Fitch: Infrastructure: Asia Nuclear, CPEC & Italy Coal) ritiene improbabile la fermata prima del 2028, a causa del ritardo nella crescita delle rinnovabili nel Paese, nella capacità di stoccaggio nel Centro-Sud e in Sicilia e nelle infrastrutture di trasmissione per Adriatico e Sardegna. Occorrerebbero 127 miliardi di euro per mantenere i tempi, ma basteranno le trecce di Greta e un risveglio dei giovani italiani a far spostare finanziamenti sul futuro del clima, anziché perforare le Alpi torinesi e portare gasdotti sulle rive pugliesi dell’Adriatico?

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Clima, finalmente la politica si è accorta di dover cambiare rotta

Tra le minacce borbottate da un Matteo Salvini in divisa e i roboanti proclami di un Luigi Di Maio incravattato – che Giuseppe Conte si premura di ridimensionare l’indomani – i Tg nazionali ci nascondono fatti e tendenze che orientano ormai l’immaginario popolare fuori dalla nostra “provincia”. Segnali sempre più percettibili che si oppongono alla distruzione dei diritti, all’esclusione e alla costruzione di muri, dispensati come trucide vie di scampo per una parte della popolazione di un pianeta sempre più inospitale. Vengono fortunatamente a galla le autentiche emergenze che segneranno un futuro assai prossimo e che, tra loro interconnesse in una visione ampia come quella di Bergoglio o incardinate nell’esperienza dei lavoratori e degli studenti tornati in piazza per una buona vita e un lavoro degno, ridicolizzano le prove muscolari e gli abbagli dei “cacicchi” di turno.

È giunto il momento di narrare la realtà per quello che è, non per quello che vogliono che appaia. Qui accenno ad alcuni dei segnali di un promettente cambiamento in corso, che può diventare irreversibile nel mondo se, contemporaneamente, vengono denunciati gli inganni che tendono a sminuirne la portata e sono svelati gli interessi che ne impediscono una piena affermazione.

È vero che Donald Trump non ha nemmeno menzionato il cambiamento climatico nel suo discorso annuale al Congresso, tutto dedicato al muro col Messico, ma, intanto, i democratici Usa stanno varando un Green New Deal, un autentico “piano Roosevelt” di forte impatto climatico e sociale.

È vero che Alessandro Di Battista e l’amico hanno incontrato i gilets jaunes, ma, secondo la Reuters, la Francia ha richiamato il suo ambasciatore non soltanto per un’inusitata ingerenza, ma perché la concorrenza tra la Total francese e l’italiana Eni sul petrolio in Libia è giunta a un punto di rottura.

È vero che il ministro Sergio Costa non sembra preoccupato delle trivelle in mare e nemmeno della mancata decarbonizzazione delle nostre fonti energetiche, ma che dire dello sciopero degli studenti belgi che al grido “Siamo più caldi del clima” per la quarta settimana di fila hanno manifestato in oltre 30mila per sollecitare interventi contro i cambiamenti climatici?

E se è vero che Nicolas Maduro non è Simon BolivarHugo Chavez, vale anche l’affermazione di Ed Crook sul Financial Times del 9 febbraio: “L’unica cosa che il presidente Trump odia più dell’Iran o del Venezuela sono i prezzi alti della pompa. E se è costretto a scegliere tra i due, sceglierà l’abbassamento dei prezzi del petrolio”.

Oltre alla ripetizione delle lotte di potere dei soliti noti, prendono piede in varie parti del pianeta atteggiamenti, azioni e comportamenti, in particolare delle nuove generazioni che sostituiscono la solidarietà all’individualismo della paura. Il clima, come nei due esempi sottostanti, fa da catalizzatore.

Mentre complessivamente nel mondo il consumo di energia è in crescita (una quota inferiore di fossili non significa che queste fonti siano in calo in termini assoluti), un report recente finanziato da grandi patrimoni (Bill Gates, ad esempio) cerca di definire l’apporto praticabile di tecnologie per ridurre le emissioni climalteranti. Si tratta di un approccio prettamente illuministico, fiducioso che, nei prossimi 30 anni, grandi investimenti sul clima anziché in armamenti possano abbattere la soglia di Co2. L’amministrazione Trump renderà certamente difficile pianificare un portafoglio di innovazione energetica efficace, ma occorre segnalare che il tentativo va controcorrente, pur affidandosi forse in maniera fin troppo esclusiva al salvataggio tecnologico della Terra.

In antitesi a questo approccio, ma con un grado di piena convergenza riguardo l’esito di una totale decarbonizzazione del sistema elettrico, sta rapidamente prendendo piede nel partito democratico statunitense un Green New Deal. L’idea è quella di arrivare a un futuro a basse emissioni di carbonio accompagnando il percorso con considerazioni e priorità di equità sociale. Entro dieci anni il 100% dell’elettricità americana proverrebbe da fonti rinnovabili e senza investimenti in nuovi reattori nucleari.

La proposta, accompagnata dall’introduzione di una Carbon tax, è guidata da Alexandria Ocasio-Cortez, la neoeletta al Congresso, una socialista democratica di New York che la definisce “transizione dal nucleare e da tutti i combustibili fossili il prima possibile”.

Interessante nella posizione di Alexandria Ocasio-Cortez è l’ampio profilo di una visione del Green New Deal come un piano per combattere l’ingiustizia economica e razziale e combattere i cambiamenti climatici. Una posizione ormai all’ordine del giorno della strategia delle prossime presidenziali, che spingerà i democratici a gareggiare per la Casa Bianca nel 2020 non solo per aderire all’idea generale, ma per stabilire obiettivi legislativi specifici con cui ottenere la meta passo dopo passo.

Il documento, che è sostenuto anche dal Movimento Sunrise gestito dalla gioventù, appoggia l’assistenza sanitaria universale, la garanzia di posti di lavoro e l’istruzione superiore gratuita, compiendo un enorme cambiamento nella comunicazione di un decennio fa, quando i democratici sostenevano un sistema “cap-and-trade” per limitare i gas serra, assegnando a pagamento i permessi di inquinamento industriale.

C’è sintonia tra l’impianto comunicativo della giovane deputata e le connessioni che compaiono nell’enciclica Laudato Sì. Lo testimoniano le parole da lei pronunciate per combattere il cambio climatico: “promuovere la giustizia e l’equità fermando l’egoismo, prevenendo il futuro e riparando l’oppressione storica delle popolazioni indigene, delle comunità di colore, delle comunità di migranti, delle comunità deindustrializzate, delle comunità rurali spopolate, dei poveri, dei lavoratori a basso reddito, delle donne, degli anziani, delle persone con disabilità e dei giovani “.

Potrebbe essere un programma per l’Europa, se i sovranisti e le regioni più ricche dalle nostre parti non pensassero che è meglio sopravvivere da soli.

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A Davos si preoccupano per l’economia, ma il pianeta ha un problema ben più grave

Il Forum di Davos è da sempre considerato un evento organizzato per migliorare lo stato degli affari mondiali. Quello appena terminato è stato pervaso da scetticismo e ha ricevuto scarsa attenzione anche dai media. Ben ne ha rappresentato la sintesi il murale che campeggiava nell’atrio del Centro Congressi con una ragazza che tiene un pallone, mentre nuvole temporalesche si avvicinano minacciose.

In effetti, le priorità a breve termine dei partecipanti – banchieri, esponenti della finanza, manager, governanti di nuovo conio, come il brasiliano Bolsonaro o lo statunitense Pompeo o il nostro Conte – non sono allineate con le preoccupazioni comuni a lungo termine (cambiamenti climatici, uguaglianza, società inclusive). Se da una parte è vero che le fortune miliardarie sono aumentate del 12% lo scorso anno, dall’altra ci sono gli ultimi report sullo scioglimento dei ghiacci, ad esempio, che vanno ben oltre le preoccupazioni per l’allentamento delle piste da sci della famosa località svizzera…

L’Antartide, a causa della sua natura inospitale, è rimasto intatto da sempre e rimane l’unico continente senza popolazione umana nativa e senza alcuna vita vegetale. Ma anche nei territori meno accessibili la natura risente della maggior concentrazione globale di gas climalteranti e manifesta comportamenti insoliti dei suoi componenti meno conosciuti alle nostre latitudini. Così, succede che le grandi balene blu, sogno e preda dei balenieri del secolo scorso, a seguito della penuria di pesci non figliano più lungo le coste a sud del 60° parallelo, ma per riprodursi si sono spostate verso i tropici e vengono avvistate in branchi addirittura nello Sri Lanka.

Ma è al Polo Nord che continuare a pattinare o slittare sarà sempre più pericoloso. Un rapporto, la Report Card Arctic 2018 compilato in base alla ricerca di oltre 80 scienziati che lavorano per governi e università in 12 Paesi, tiene traccia del ghiaccio marino, del manto nevoso, della temperatura dell’aria, della temperatura dell’oceano, della calotta glaciale della Groenlandia, della vegetazione e dei cambiamenti dell’ecosistema artico. Il volume appena pubblicato mostra che lo scorso anno la regione ha registrato la seconda temperatura più calda mai censita. Oltre a questo, suscita apprensione la constatazione che mai nel Mare di Bering è stato catalogato uno spessore del ghiaccio invernale talmente poco massiccio da permettere il fiorire precoce del plancton marino attorno all’Alaska. I resoconti sulla fauna e la flora sono impietosi: è confermato il declino a lungo termine della popolazione di caribù, mentre le mandrie di renne selvatiche che attraversano la tundra artica sono diminuite di quasi il 50% negli ultimi due decenni. Contemporaneamente, si sta verificando una impressionante espansione verso nord delle alghe tossiche nocive, trasportate da una insolita concentrazione di inquinanti microplastici che provengono dalle correnti oceaniche che si mescolano all’Oceano Artico.

Mare di Bering

La mappa mostra l’età del ghiaccio marino nel braccio di ghiaccio artico nel marzo 1985 (a sinistra) e nel marzo 2018 (a destra). Il ghiaccio che ha meno di un anno è colorato in blu più scuro. Il ghiaccio che è sopravvissuto per almeno quattro anni è bianco.

Le temperature dell’aria superficiale nell’Artico hanno continuato a scaldarsi a velocità doppia rispetto al resto del globo. Il ghiaccio è rimasto più “giovane, più magro” e ha coperto meno area rispetto al passato. Nel sistema artico terrestre il riscaldamento atmosferico ha continuato a generare un declino del manto nevoso, a provocare lo scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia e del ghiaccio del lago interno nonché l’espansione e l’inverdimento della vegetazione della tundra artica.

E se, lasciati sci e pattini ai Poli, volessimo scendere dalle Alpi al mare, avremmo anche qui grandi sorprese. Il Reno, l’asse principale del trasporto fluviale in Europa, sta perdendo molto del suo flusso. Dopo una prolungata siccità nell’estate boreale, il traffico pesante in uno dei punti più profondi del fiume è stato paralizzato per quasi un mese alla fine dell’anno 2018. Il Reno, anche se solo temporaneamente, è stato invalidato nella sua funzione di arteria di trasporto fondamentale. L’impatto sulla crescita economica in Germania nel terzo e nel quarto trimestre è stato significativo, a riprova di come anche le economie industriali avanzate debbano mettere in conto gli effetti del riscaldamento globale. Daimler, Bosch, Bayer e Basf hanno annunciato di essere state costrette ad utilizzar sistemi di trasporto più costosi a causa dell’abbassamento del livello delle acque. I governi federali sono stati sollecitati a investire in infrastrutture – come chiuse e dighe – per rilasciare acqua a richiesta e per garantire che i corsi d’acqua rimangano navigabili.

D’altronde, i ghiacciai alpini si sono ridotti del 28% tra il 1973 e il 2010. “Le Alpi si stanno riscaldando ancora più velocemente proprio perché la neve e il ghiaccio si sciolgono”, ha detto Wilfried Hagg dell’Università di Monaco. “Un clima più caldo rende più probabile la ripetizione di incidenti come i bassi livelli del fiume Reno e Danubio della scorsa estate”. E pensare che il Reno e il Danubio nascono e scorrono a due passi da Davos.

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