Venezia, anche la finanza è in allarme per il clima. E la partita per la svolta green è ancora aperta

L’allagamento di Venezia apre una fase nuova nella sensibilità della popolazione e allarga un solco più profondo nei confronti di quella politica che ha sempre negato l’emergenza climatica, magari cercando nei migranti o nella difesa dei confini la panacea alla crisi più profonda dal dopoguerra e, forse, della storia dell’umanità. Il futuro batte alla porta dei sordi rinchiusi nelle stanze del potere, ossessionate da un presentismo irresponsabile. E non si tratta di un futuro da 0,2% più o meno del Pil.

In un post di un anno fa avevo ammonito sulla perdita di siti di valore inestimabile come Venezia e Aquileia per l’innalzamento dei mari e avevo ricevuto commenti spesso irridenti. La realtà è stata perfino più crudele dei timori avanzati. Oggi l’urgenza si sta tramutando in un tempo che viene a mancare.

In uno studio pubblicato da Nature Climate Change e riportato in sintesi dal Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, studiosi di grande serietà proiettano i loro modelli su due aspetti fin qui poco analizzati: il decremento di produttività complessiva (lavoro e natura) dovuta al clima e l’effetto importante che ne ricade sulla stabilità del sistema finanziario.

Viene stimato che il Pil nelle regioni italiane da qui alla seconda metà del secolo, differenziato a seconda della latitudine, avrà un rallentamento della crescita di meno 8 punti (sette volte il rallentamento stimato oggi dagli economisti!) mentre si registrerà un incremento ulteriore delle disuguaglianze economiche tra Nord e Sud.

Massimo Tavoni e Francesco Bosello, coautori del rapporto, dimostrano l’affidabilità delle loro previsioni: “Disponiamo di una risoluzione spaziale molto più dettagliata, nell’ordine di 100, 50 o addirittura di 10 chilometri quadrati come in questo studio, anziché riferirsi a medie nazionali. Combinando i dati economici con i dati climatici, entrambi ad alta risoluzione spaziale, possiamo comprendere la relazione storica tra temperatura e crescita economica a livello di cella geografica”. E già adesso sappiamo che è ben diverso abitare a Varese o in Liguria o nella laguna veneta…

In base a un’analisi dettagliata, se ne ricava che la temperatura ottimale per l’economia del Paese, quella che consente di massimizzarne la performance economica, è 11,5°C: già oggi in alcune regioni la temperatura media supera tale valore e lo supererà sempre in misura maggiore, comportando una riduzione della produttività e della crescita economica, come conseguenza degli impatti dei cambiamenti climatici.

Per effetto dei cambiamenti climatici, i fallimenti delle banche diventeranno in futuro sempre più frequenti, mentre la finanza pubblica dovrà sostenere costi sempre più elevati per salvare le banche insolventi, con un’esplosione del debito pubblico. Le crisi finanziarie hanno certamente ripercussioni sull’economia, perché causano una riduzione della produzione e dei consumi, ma anche sulla finanza pubblica, per un aumento dei costi necessari alla ristrutturazione del sistema finanziario da parte dei governi.

Il cambiamento climatico e gli eventi estremi ad esso associati come alluvioni, frane, innalzamento del livello del mare e tempeste possono, per esempio, aumentare le infrastrutture a rischio e ripercuotersi negativamente sulle compagnie assicurative, per effetto dell’innalzamento dei premi. Per le stesse imprese aumenterebbero le insolvenze, che, riverberate su scala globale, come quelle sperimentate nel corso della crisi finanziaria del 2008, costringerebbero i governi a intervenire.

Lo studio di Nature per la prima volta prova a quantificare tale effetto: i fallimenti delle banche in futuro sarebbero, a causa dei cambiamenti climatici, più frequenti (da +26% fino a +248%); salvare le banche insolventi comporterebbe un costo per i governi pari a circa il 5-15% del Pil all’anno, portando a un’esplosione del debito pubblico, che potrebbe arrivare a raddoppiare nel 2100. I due fattori esaminati suggeriscono di concentrare gli sforzi sul raggiungimento delle emissioni zero nette globali il più rapidamente possibile.

Proprio in questo contesto il 14 novembre la Bei ha deciso una nuova politica di prestiti energetici, ponendo fine al sostegno a progetti di combustibili fossili (compreso il gas naturale) alla fine del 2021. La nuova politica energetica non era riuscita a ottenere sostegno in una prima discussione in ottobre, con Paesi come la Germania – divisa tra i vari ministeri – e l’Italia compattamente contro. Per queste contrarietà, la data definitiva è stata spostata dal 2020 al 2021.

Ungheria, Polonia e Romania hanno votato contro la nuova politica. Cipro, Estonia, Lituania e Malta si sono astenute tutte per mancanza di flessibilità sul gas. Austria e Lussemburgo hanno escluso il voto a causa di ciò che hanno percepito come una linea di apertura all’energia nucleare. E’ interessante questa dislocazione, perché dice quanto e perché la partita sia aperta. Ma come farà il governo italiano a sostenere ancora l’utilità del gasdotto Tap e la riconversione a gas della centrale a carbone di Civitavecchia, contro un ordine del giorno votato all’unanimità dal Consiglio Comunale?

L’articolo Venezia, anche la finanza è in allarme per il clima. E la partita per la svolta green è ancora aperta proviene da Il Fatto Quotidiano.

Una mobilitazione della società e del mondo del lavoro per la decarbonizzazione

Bill Mckibben, un ambientalista statunitense attivo anche come scrittore e giornalista, definito nel 2010 dal Boston Globe come “probabilmente l’ambientalista più influente della nazione”, ha lavorato sul cambiamento climatico per trent’anni e dice di aver imparato a liberare la sua angoscia e a tenerla sotto controllo. Ma, negli ultimi mesi, ammette che la sua angoscia vera riguarda i suoi figli. Questa primavera è stato registrato per la concentrazione di l’anidride carbonica nell’atmosfera il livello record di 415 parti per milione, superiore a quanto non sia mai stato in molti milioni di anni. L’estate è iniziata con il mese più caldo mai registrato, quindi Luglio è diventato il mese più caldo dell’era moderna. Il Regno Unito, la Francia e la Germania, hanno tutti raggiunto nuove alte temperature e il calore si è spostato verso nord, fino a quando la maggior parte della Groenlandia si è sciolta e immensi incendi siberiani hanno inviato grandi nuvole di carbonio verso il cielo. All’inizio di settembre, l’uragano Dorian si è fermato sopra le Bahamas, dove ha scatenato quello che un meteorologo ha definito “il più lungo assedio di tempo violento e distruttivo mai osservato” sul nostro pianeta. Gli avvertimenti scientifici di tre decenni fa sono i più micidiali avvisi di calore del presente e, per il futuro, ci impongono scadenze rigide. Lo scorso autunno, gli scienziati climatici di tutto il mondo hanno affermato che, se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati nell’accordo sul clima di Parigi del 2015,

Nel mondo di Trump e Putin e Bolsonaro e delle compagnie di combustibili fossili che li sostengono, sembra impossibile modificare il quadro che si prospetta. Invece non è nemmeno tecnologicamente impossibile: nell’ultimo decennio è stato abbassato il prezzo dell’energia solare ed eolica rispettivamente del novanta e settanta per cento. Ma non basta, se oltre alla tecnologia non muta la direzione dell’economia capitalista e se non entra in campo, assieme ai movimenti planetari degli studenti e delle donne il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori. ****

In effetti la vera buona notizia è che, quando la crisi diventa più evidente, molte più persone si uniscono alla lotta. Nell’anno in cui gli scienziati hanno lanciato il loro allarme di è potuto riscontrare la proposta del Nuovo Green new Deal della Ocasio Cortez, gli exploit di Extinction Rebellion e la diffusione globale degli scioperi degli studenti avviata dall’adolescente svedese Greta Thunberg. E – grande novità per il nostro Paese – Il segretario Generale della CGIL Maurizio Landini afferma da Lilli Gruber e nellaassemblea programmatica riservata ai delegati dei luoghi di lavoro che il problema principale per il suo sindacato è contrastare il brusco cambiamento climatico a partire dai luoghi di lavoro. Sembra che ci siano finalmente che nasca una massa critica per sostenere un conflitto ed un risultato utile.

La domanda tuttavia è pressante: quali sono le forze su cui contare per il cambiamento nel tempo necessario?

Alcuni di noi hanno iniziato a cambiare la propria vita, impegnandosi a volare di meno e a mangiare più in basso nella catena alimentare. Ma, qualunque siano le nostre intenzioni, ognuno di noi è attualmente costretto a bruciare una discreta quantità di combustibile fossile: se non c’è un treno che porta a destinazione, non puoi prenderlo. Altri – in realtà, spesso le stesse persone – stanno lavorando per eleggere candidati “più ecologici” che attuino pressioni per approvare programmi politici e avviare procedimenti giudiziari contro le grandi opere inutili.

Ma queste azioni potrebbero non ripagare abbastanza velocemente. Il cambiamento climatico è un test a tempo, uno dei primi che la nostra civiltà ha affrontato, e secondo i rapporti scientifici la finestra in cui inserire il cambiamento si restringe al passare dei mesi, non degli anni. Al contrario, il cambiamento culturale – ciò che mangiamo, il modo in cui viviamo – spesso avviene per generazioni e il cambiamento politico che comporta un lento compromesso sembra ostacolato dai negazionisti e da chi dirige la paura verso obiettivi escludenti e la sfiducia nella democrazia.

Forse va ammesso, assunto e scommesso sul fatto che i leader politici non sono gli unici attori del pianeta e che nella società attuale, con la vittoria incontrastata del liberismo, anche e soprattutto chi concentra la maggior parte del denaro e della ricchezza depredata a spese del lavoro e della natura, ha un potere che potrebbe essere esercitato in pochi mesi o addirittura ore. Mckibben suggerisce che la chiave per interrompere il flusso di carbonio nell’atmosfera sia quella di interrompere il flusso di denaro verso carbone, petrolio e gas. Bisogna da subito avviare la decarbonizzazione dell’economia e della società e interrompere il sostegno finanziario che spesso attori non consapevoli riservano al vecchio modello energetico ancora determinante.

Shell ha definito il disinvestimento un “effetto negativo materiale” sulle sue prestazioni. La campagna di disinvestimento ha reso pubblica la notizia più eclatante dell’era del riscaldamento globale: che l’industria ha nelle sue riserve cinque volte più carbonio di quanto il consenso scientifico pensi che possiamo tranquillamente bruciare. Un’istituzione religiosa dopo l’altra si è spogliata di petrolio e gas e Papa Francesco ha convocato i dirigenti del settore energetico in Vaticano per dire loro che devono lasciare il carbone sottoterra.

Il sistema bancario si è unita alle industrie del fossile per impedirne l’uscita di scena Nei tre anni trascorsi dalla fine dei colloqui sul clima di Parigi, la banca Chase ha investito 196 miliardi di dollari in finanziamenti per l’industria dei combustibili fossili, molti dei quali per finanziare nuove iniziative estreme: trivellazioni in acque ultra-profonde, estrazione di petrolio artico, trivellazioni nell’Adriatico. Nei fatti, Jamie Dimon, il C.E.O. di JPMorgan Chase, è un barone del petrolio, carbone e gas quasi senza pari.

Lo stesso vale per le attività di gestione patrimoniale e assicurativa: senza di esse le società di combustibili fossili rimarrebbero quasi letteralmente a corto di gas. Ma il capitalismo non è noto per arrendersi alle fonti di entrate e non si preoccupa dello scioglimento della calotta artica.

Quando si riflette sulla dimensione di questi problemi, appare in tutta la sua povertà la dimensione della politica, che garantisce la costruzione di gasdotti come il TAP o la riconversione della centrali a carbone in impianti a gas fossile con la prospettiva di ritorno degli investimenti a 25 anni, che solo la politica e le tariffe in bolletta dei cittadini ignari e non la società o il mondo del lavoro o le prospettive del welfare possono garantire.

A questo proposito vorrei qui mettere in rilievo una riflessione ed una proposta sul sistema energetico e i cambiamenti climatici lanciata da una aggregazione di personalità del mondo scientifico, culturale, associativo. In essa (v. https://zeroemission.eu/riduzione-dei-gas-serra-al-2030-lappello-di-massimo-scalia/ ) si afferma che “La più grande minaccia di questo secolo” – il cambiamento climatico, la transizione all’instabilità climatica – si sta delineando con eventi sempre più drammatici e che le conseguenze del cambiamento climatico che si abbatte su uomini e cose con l’intensità degli eventi meteorologici estremi, documenta una più generale crisi ambientale: la devastazione di uno sviluppo fondato sulla spoliazione e il saccheggio delle risorse naturali, come conseguenza del modo capitalistico di produrre e consumare. Esemplare, al riguardo, il nuovo odioso colonialismo del landgrabbing, che attraverso i meccanismi della mera acquisizione di mercato priva intere popolazioni dei loro diritti, delle loro terre e delle loro acque senza dar loro nemmeno la possibilità di essere ascoltati o addirittura attraverso vere e proprie deportazioni. In America Latina, Asia e Africa sempre più grandi foreste, terre comunitarie, bacini fluviali e interi ecosistemi vengono spogliati e le comunità sfollate. La diversità biologica viene costantemente ridotta, la grande barriera corallina australiana è a rischio nei suoi 3000 km. Il respiro degli oceani è soffocato dalla plastica.

Si ripropone la battaglia a favore dell’ambiente, contro il global warming e per una generale riconversione ecologica dell’economia e della società, come impegno culturale, sociale e morale. Si ricorda che la “Laudato si’” di Papa Bergoglio ha messo in risalto gli aspetti umani e spirituali di questa nuova visione.

Purtroppo però, i governi di tutto il mondo, colpevolmente lenti nell’applicare il Protocollo di Kyoto (2005) e oggi in ritardo nell’attuare gli impegni dell’Accordo di Parigi ratificati nel 2016 da 180 Paesi, non accelerano la loro azione per fare più efficacemente fronte al cambiamento climatico e mantenere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 °C. A pagare lo sconquasso del clima sono soprattutto le popolazioni più povere e vulnerabili, colpite dalle migrazioni interne o dalla fuga disperata dalle loro terre, da fame, sete e malattie endemiche, marginalizzate nei loro territori, spesso nel nome stesso dello sviluppo e dell’innovazione. I rischi dovuti ai disastri ambientali accrescono tensioni e conflitti e nel 2017 hanno causato, da soli, l’esodo di 60 milioni di rifugiati ambientali, ma saranno quattro volte tanti nel giro di soli vent’anni. Non si tratta solo dell’accoglienza e della sicurezza. Occorre “costruire ponti”, capaci di ridurre la distanza tra chi ha troppo e chi non ha abbastanza, tra l’opulenza e la povertà, come indicato dagli obiettivi globali dell’Agenda 2030 proposta dalle Nazioni Unite. Occorre quindi modificare gli stili di vita, le culture e il modo di pensare se si vuole dare futuro al futuro. Trasformare i rifiuti in nuovi prodotti com’è tecnologicamente possibile, fare di più con meno, organizzare la società della sufficienza affinché ogni risorsa sia utilizzata senza sprechi e nel modo più appropriato fino all’autogestione. E, da subito, “decarbonizzare” l’economia sostituendo i combustibili fossili con le fonti rinnovabili.

Anche la voce della neo-presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, si è levata per proporre al Parlamento europeo a Strasburgo l’obiettivo di riduzione del 50-55% di CO2, il gas serra dominante, entro il 2030, facendo così schizzare a quel livello il target che la UE aveva in precedenza fissato al 32%. E, conseguentemente, di mantenere “un ruolo di guida della UE nei negoziati internazionali per far crescere il livello di ambizione delle altre principali economie entro il 2021”.

Il Governo italiano, continuando a perseguire un atteggiamento vergognosamente caudatario, ha proposto nel Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) un obiettivo di solo il 33%.

La novità offerta dallo straordinario protagonismo degli studenti di Fridayforfuture nell’ultima settimana di Settembre ed un primo coinvolgimento dei lavoratori e del loro sindacato, confermato dalle iniziative della CGIL e da una riflessione intensa e foriera di riflessioni nel suo gruppo dirigente, fa presumere che possa attuarsi in tutto il Paese la più ampia mobilitazione possibile

Il Governo non può sentirsi rappresentato sul tema del clima, come nei confronti dell’immigrazione, dall’involuzione a destra dei i Paesi di Visegrad in nome di un miope privilegio degli “interessi nazionali”, che non si pone all’altezza della tremenda sfida e delle responsabilità che il cambiamento climatico impone a tutti.

Per favorire questa mobilitazione, per dargli il carattere capillare di confronto con cittadini, organi territoriali elettivi, istituzioni e enti pubblici, luoghi di lavoro e di socializzazione, organi di informazione, occorre pensare anche allo strumento di una legge d’iniziativa popolare che assuma l’obiettivo del 50% per l’Italia e indichi la carbon tax come mezzo principale per coprire la spesa pubblica finalizzata a quell’obiettivo. L’adesione del sindacato unitario a questa impresa è senz’altro determinante.

Il denaro è l’ossigeno per il fuoco del riscaldamento globale

In queste giornate di forte emozione e coinvolgimento create dall’entrata in campo di un nuovo movimento schiettamente giovanile che si organizza su un terreno colpevolmente ignorato dai governanti delle generazioni passate, lascio alla testimonianza diretta degli eventi che si manifestano nelle assemblee e nelle piazze di tutto il Pianeta il compito di trasmettere il loro potentissimo messaggio di fondo. Qui invece vorrei riflettere su un aspetto poco trattato quando si parla dell’emergenza climatica e si afferma – giustamente – che non esiste una soluzione «di mercato» ai disastri ambientali. Vorrei, cioè trattare il ruolo che il capitale finanziario e le banche hanno nel dare continuità al sistema dei fossili, ostacolando la decarbonizzazione che deve avvenire in orizzonti temporali vicinissimi.

Bill Mckibben, un ambientalista statunitense attivo anche come scrittore e giornalista, definito nel 2010 dal Boston Globe come “probabilmente l’ambientalista più influente della nazione”, ha lavorato sul cambiamento climatico per trent’anni e dice di aver imparato a liberare la sua angoscia e a tenerla sotto controllo. Ma, negli ultimi mesi, ammette che la sua angoscia vera riguarda i suoi figli. Lo scorso autunno gli scienziati climatici di tutto il mondo hanno affermato che, se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati nell’accordo sul clima di Parigi del 2015, abbiamo a disposizione un numero di anni che non vanno al di là delle dita delle mie mani.

Nel mondo di Trump e Putin e Bolsonaro e delle compagnie di combustibili fossili che li sostengono, sembra impossibile modificare il quadro che si prospetta. Invece non è nemmeno tecnologicamente impossibile: nell’ultimo decennio è stato abbassato il prezzo dell’energia solare ed eolica rispettivamente del novanta e settanta per cento. Ma non basta, se oltre alla tecnologia non muta la direzione dell’economia capitalista e se non entra in campo, assieme ai movimenti planetari degli studenti e delle donne il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori che sentano la riconversione ecologica come il principale obbiettivo contrattuale.

C’è un ruolo delle banche e della finanza, che di frequente viene occultato e che ritarda le misure urgenti per combattere il cambiamento climatico in corso. Chi concentra la maggior parte del denaro e della ricchezza creata a spese del lavoro e della natura, ha un potere che potrebbe essere esercitato in pochi mesi se cessasse di finanziare i fossili.

Mckibben suggerisce che la chiave per interrompere il flusso di carbonio nell’atmosfera sia quella di interrompere il flusso di denaro verso carbone, petrolio e gas.

L’industria ha nelle sue riserve cinque volte più carbonio di quanto il consenso scientifico pensi che possiamo tranquillamente bruciare. Un’istituzione religiosa dopo l’altra si è spogliata di petrolio e gas e Papa Francesco ha convocato i dirigenti del settore energetico in Vaticano per dire loro che devono lasciare il carbone sottoterra.

Ma il sistema bancario si è unito alle industrie del fossile per impedirne l’uscita di scena. Nei tre anni trascorsi dalla fine dei colloqui sul clima di Parigi, la banca Chase ha investito 196 miliardi di dollari in finanziamenti per l’industria dei combustibili fossili, molti dei quali per finanziare nuove iniziative estreme: trivellazioni in acque ultra-profonde, estrazione di petrolio artico, trivellazioni nell’Adriatico ( v. https://www.newyorker.com/news/daily-comment/money-is-the-oxygen-on-which-the-fire-of-global-warming-burns 4/14 ). Nei fatti, Jamie Dimon, il C.E.O. di JPMorgan Chase, è un barone del petrolio, carbone e gas quasi senza pari. Lo stesso vale per le attività di gestione patrimoniale e assicurativa: senza di esse le società di combustibili fossili rimarrebbero quasi letteralmente a corto di gas.

Nei tre anni successivi alla firma dell’accordo sul clima di Parigi i prestiti delle banche all’industria sono aumentati ogni anno e gran parte del denaro va verso le forme più estreme di sviluppo energetico. Tutti sanno che prima o poi l’era dei combustibili fossili finirà e se una banca gigantesca come Chase o altre analoghe si ritirasse, invierebbe un segnale inconfondibile di un imminente “bolla del carbonio” con danni gravi per i vettori ferroviari, i proprietari di porti e le imprese appaltatrici di carbone o dipendenti dal gas”. Un danno che tuttavia impallidirebbe a fronte del tipo di previsioni su quel che resterebbe del Pianeta se l’industria dei combustibili fossili continuasse sul suo percorso attuale per un altro decennio.

Quando si riflette sulla dimensione di questi problemi, appare in tutta la sua povertà di strategia la dimensione della politica energetica nazionale, che garantisce la costruzione di gasdotti come il TAP o la riconversione delle centrali a carbone in impianti a gas fossile come previsto per Civitavecchia, con la prospettiva di un ritorno degli investimenti a 25 anni, quando le tariffe pagate dai cittadini in bolletta continueranno magari ad essere incassate, mentre la natura non avrà più risorse sufficienti a rigenerarsi.

14 ottobre a Milano: “Amazzonia depredata. Cause, responsabilità, prospettive”

Milano, 14 ottobre 2019, ore 18.00 – 20.00

Camera del lavoro, Corso di Porta Vittoria 43

Lunedì 14 ottobre, presso la Camera del Lavoro di Milano, una delegazione di leader indigeni dell’Amazzonia brasiliana – in Italia per partecipare al Sinodo panamazzonico convocato da Papa Francesco in Vaticano – incontrerà i cittadini milanesi per testimoniare della devastazione ambientale in corso nelle regione amazzonica, del progressivo impoverimento del bioma e del genocidio dei popoli originari.

È essenziale costruire una mobilitazione plurale a difesa della Casa Comune, di cui l’Amazzonia rappresenta il cuore e il simbolo. Occorre chiedere politiche nazionali e comunitarie che fermino la deforestazione e la distruzione estrattivista, tutelino la biodiversità e riconoscano il ruolo delle comunità indigene, della loro cultura e della loro spiritualità.

All’incontro parteciperanno Jeremias Dos Santos, del Popolo Mura; Ernestina Afonso De Souza, del Popolo Macuxi; Aloir Pacini, missionario del CIMI.

Coordinerà i lavori Andrea Di Stefano, di Valori.it

Interverranno Roberta Turi (segretaria generale della Fiom di Milano), José Luiz del Roio (Comitato internazionale Lula Livre), Daniela Padoan (Associazione Laudato Si’), Maurizio Fraboni (Acopiama Manaus – a tutela del Guaranà nativo), Antonio Pacor (Collettivo FocusPuller).

L’evento è organizzato da: Camera del Lavoro Milano, da FIOM CGIL Milano, Collettivo Focus Puller, Associazione Laudato Si’, CIMI – Consiglio Missionario Indigenista Brasile, Acopiama.

Con la collaborazione di Greenpeace Italia e Fridays For Future Milano.

Greta e Alexandra. Clima e ecosocialismo

In queste giornate di forte emozione e coinvolgimento creati dall’entrata in campo di un nuovo movimento schiettamente giovanile che si organizza su un terreno colpevolmente ignorato dai governanti delle generazioni passate, lascio alla testimonianza diretta degli eventi che si manifestano nelle assemblee e nelle piazze di tutto il Pianeta il compito di trasmettere il loro potentissimo messaggio di fondo. Qui invece vorrei riflettere sulle prospettive del conflitto politico-sociale innescato da due giovani donne nel mondo, che attirano grandi critiche e grandi consensi. Greta Thunberg e Alexandria Ocasio-Cortez non hanno molto in comune, se non una straordinaria abilità nel comunicare e il merito di aver posto il tema del cambiamento climatico e di che cosa fare per combatterlo al centro di una discussione planetaria.

La ragazza svedese svolge un ruolo da mobilitatrice e comunicatrice ed è al centro della straordinaria crescita di una nuova sensibilità mondiale rispetto alla maggiore emergenza del secolo. Quando ha scosso i leader mondiali per il loro “tradimento” dei giovani durante il vertice delle Nazioni Unite (“Se i leader mondiali decidessero di fallire, la mia generazione non li perdonerà mai”) ha aperto un cuneo nella dialettica tra la società e i governanti che si può rimarginare solo convergendo sugli obbiettivi radicali della generazione degli studenti. E questo non solo al tavolo delle istituzioni internazionali, ma, di rimando, nel pieno delle rivendicazioni e delle lotte che si invereranno Stato per Stato, Regione per Regione, Città per Città. Le assemblee di studenti, donne e – mi auguro presto – lavoratrici e lavoratori sono state messe in comunicazione da questa esile ragazza con i Parlamenti, i consigli regionali, i consigli comunali. Un fatto straordinario che inaugura una sfida democratica estesa in una fase storica di pesante regressione autoritaria e escludente.

La Ocasio-Cortez, invece, si è mossa direttamente sul terreno della rappresentanza istituzionale ed ha avanzato proposte di legge ambiziose al Congresso degli Stati Uniti, inserite in un piano da mille miliardi di dollari. Perfino la sinistra democratica Usa è turbata per la determinazione con cui nel testo molto ben articolato si prende di petto il futuro, anziché limitarsi a contrastare gli eccessi di Trump e contare sugli inevitabili autogol dell’ex tycoon. La posta sul clima è talmente incombente e foriera di popolarità nelle fasce più povere o esposte, che non c’è dubbio che i Democratici alla fine adotteranno già nella prossima campagna elettorale contro la Trumpnomic e pur con qualche esitazione, data la loro radicalità, le linee guida che Alexandra affina ad ogni tornata di incontri pubblici. La svolta della Ocasio ha un sapore squisitamente eco-socialista, con una originalità, se posso dire, “bergogliana”, riassunta nel legame tra giustizia climatica e giustizia sociale (per approfondimenti, si veda il sito https://www.laudatosi-alleanza-clima-terra-giustizia-sociale.it/).

Lo stimolo potentissimo che la proposta della Ocasio impone alla politica, all’economia e alla cultura americana, avrà, come l’azione di Greta, forti ripercussioni a livello mondiale, ma su un piano complementare.

Se non esiste una soluzione “di mercato” ai disastri ambientali è altrettanto vero che il permanere di alti livelli di disoccupazione o sotto-occupazione ha contribuito ad accentuare la polarizzazione dei redditi e delle ricchezze. La rimodulazione dei sistemi fiscali diventa indispensabile, così come uno spostamento relativo del prelievo sui redditi da lavoro verso quelli da capitale, da imposte indirette a imposte dirette, da un sistema maggiormente regressivo ad uno relativamente progressivo a cui si aggiunga l’imposta sulla ricchezza patrimoniale o finanziaria. Il Green New Deal porta la sfida nel punto più alto del sistema liberista e indica l’emergere di una prospettiva politica eco-socialista da giocarsi in sintonia con il movimento di Fridayforfuture e consolidare in una svolta politico-istituzionale. Mentre uno degli aspetti più sottovalutati in Europa e in Italia riguarda la ripresa della pianificazione e il ricorso ad adeguate strutture, quali agenzie pubbliche e imprese partecipate dallo Stato, nelle proposte della Cortez questi nodi sono ampiamente trattati.

In buona sostanza, Greta e Alexandra amplificano e rendono più concreta la desiderabilità di una prospettiva di cambiamento strutturale e di riconversione che tocca non solo l’economia, ma l’intero tessuto sociale e che l’accelerazione brusca del cambiamento climatico delinea e richiede con sempre maggior urgenza.