La crisi da pandemia ci restituirà un mondo diverso. Lo si dice da più parti, anche perché si sta spegnendo, anche per una ragione di convenienza, la fonte energetica più tradizionale, che aveva reso possibile una crescita che, al più, si sarebbe dovuta governare, non rapidamente accantonare.
Da settimane i principali indici dei prezzi del petrolio oscillano, con brusche cadute e leggere risalite, fino ad assumere valori negativi, ben oltre quindi la grande crisi finanziaria del 2008 e 2009. Bloomberg ha titolato Il mercato del petrolio è in pezzi al punto che esiste il rischio di far saltare gli assetti geopolitici del mondo e, con un eccesso di offerta a prezzi stracciati, di dare la stura al mantenimento per un lungo periodo delle centrali termiche e dei veicoli a combustibile, ulteriormente vanificando gli sforzi per tenere sotto controllo il riscaldamento climatico.
In effetti, siamo di fronte ad una situazione assai complicata: è in corso, anche a causa dell’epidemia, una recessione globale e pesante; si è affacciato sul mercato un prodotto competitivo estratto in modo non tradizionale (lo “shale oil” prodotto negli Stati Uniti con la tecnica del fracking), e c’è il rifiuto dell’Arabia Saudita, impegnata in una faticosa alleanza con la Russia, di sobbarcarsi da sola il compito di tenere alti i prezzi del greggio per indebolire la concorrenza del prodotto estratto al di là dell’Atlantico.
Fino a questo ultimo mese il saliscendi del prezzo dei fossili sembrava tutto giocato all’interno della filiera degli idrocarburi, nella contesa sostanzialmente tra i due maggiori esportatori concorrenti dotati di tecniche tradizionali (Arabia e Russia) e il nuovo arrivato (Stati Uniti) che si rifornisce in casa propria di olio di scisto.
Ma il dilagare del coronavirus, che dall’inizio del 2020 sta mettendo in quarantena intere popolazioni e riducendo al lumicino le attività produttive e gli stessi consumi, non si direbbe solo una questione economica o sanitaria: con una aggressività inedita e una rischiosità imprevedibile evoca l’incertezza della permanenza della nostra vita sulla Terra. È così profondo il turbamento provocato da far pensare ad un “dopo” in discontinuità con il “prima”.
Rivedere a fondo il modo di produrre richiederà senz’altro anche un’accelerazione nei processi di decarbonizzazione. Il che porta a propendere più per lo smantellamento della poderosa rete dei fossili, anziché correre ai ripari con ingenti investimenti sulla salute, che sarebbe comunque destinata a peggiorare a velocità maggiori delle capacità di contenimento dell’inquinamento e delle catastrofi climatiche dovute al ricorso ai combustibili climalteranti.
Tanto vale allora vendere tutto il vendibile prima possibile, e investire i proventi in qualcos’altro (magari fonti rinnovabili, batterie, reti intelligenti etc.). Il lockdown di un paese dopo l’altro, con auto ferme, fabbriche chiuse e stop dei voli, ha provocato lo stop a nuovi investimenti nel settore estrattivo, il riempimento delle riserve strategiche disponibili e perfino la navigazione in acque extraterritoriali di grandi petroliere noleggiate e riempite di greggio.
Due sono le possibilità di uscita: usare prezzi stracciati dei fossili con l’inevitabile aumento delle emissioni di CO2 o, al contrario, accelerare verso la transizione alle fonti rinnovabili e al risparmio, disponendo di un sistema decentrato sul territorio, che si approvvigiona e consuma in forme cooperative e che riduce gli sprechi e gli effetti sull’ambiente e la salute.
La recessione in corso, a prima vista, fa pensare che energia a bassi costi sia un obbligo da sfruttare, almeno in un’ottica capitalista e aziendale. Ma l’opinione pubblica – ferita dall’esperienza e dalla genesi del coronavirus, non certo separabile dagli stili di vita e dal degrado presente nell’atmosfera – non sarà più facilmente disponibile a giocarsi il futuro di figli e nipoti per riprendersi tal quale un presente, oltretutto precario, insalubre e giocato sul filo delle guerre commerciali.
La pandemia ha spostato lo scenario in cui si discuteva della possibile carenza di fonti esauribili come petrolio, gas e carbone: il picco di Hubbert sarà quasi sicuramente raggiunto prima dalla domanda che non dall’offerta e lo stop e il prezzo degli idrocarburi non saranno determinati dallo svuotamento dei pozzi, ma dal rifiuto di impiegarli per i danni che hanno a che fare con la biosfera prima che con la geopolitica.
Nei fatti, ci si è preoccupati a lungo e sbagliando di prevedere prima di tutto il “peak oil”, il momento in cui la produzione avrebbe toccato il massimo per poi iniziare a diminuire: invece, al ,punto in cui siamo, si è capito che sarebbe arrivato prima il “peak demand”, il momento in cui la domanda mondiale sarebbe cominciata a calare. Non è una rivoluzione da poco, anche nel nostro modo di pensare: siamo in un’era nuova. E chi non ne vuole tener conto, vuole che l’Antropocene, in cui presuntuosamente diciamo di essere entrati, duri davvero poche generazioni.
Avanzano pensieri e visioni nuove che non avremmo pensato di veder piovere sulla Terra così presto e con così tanta angoscia. Peggio sarebbe però insistere e riproporsi di continuare a progettare il Pianeta come un proprio manufatto. Un mondo tutto sotto controllo, disconnesso dalla natura e dal resto del vivente, da consumare solo da parte di pochi, con un meccanismo vorace e predatorio, da cui ci si separa sempre più di rado.
Colpisce che tra le attività che non sono state poste in lockdown dal Governo durante la pandemia ci siano quelle estrattive e che, a quanto mi giunge notizia, stiano per attraccare a Civitavecchia carboniere di grandi dimensioni, per il cui scarico potrebbero circolare centinaia di autotreni dal porto verso la centrale, con spargimento di pulviscolo inquinante, consegnando all’Enel una città in ginocchio proprio quando la riconversione dell’area a fonti non fossili e a immagazzinamento di idrogeno potrebbe essere dietro l’angolo!
L’articolo Coronavirus, la fonte energetica più tradizionale si sta spegnendo: siamo in un’era nuova proviene da Il Fatto Quotidiano.