Clima: ricorrere al metano è inutile, eppure le lobby lo rilanciano. Quindi a tutto gas

L’Accordo per limitare a 1,5 °C l’aumento di temperatura al 2030, ha suggerito alle lobby fossili il rilancio del metano come “rimedio”, a sostituzione dell’eccesso di emissioni dovute alla combustione di carbone e petrolio. Il punto di forza, a dire dell’Eni sta nel fatto che, mentre il carbone produce CO2, in ragione di 350-400 grammi per kWh, il gas “si ferma solo a 200 grammi/kWh”. Quindi… a tutto gas!

La verità è che sì, il gas naturale inquina meno di petrolio e carbone, ma inquina, eccome. Come “soluzione ponte” per approdare alle rinnovabili non ha ragione di esistere: anzi, chiudere un occhio sul metano, corrisponderebbe a mancare l’obiettivo più importante di totale decarbonizzazione per la metà del secolo. Qui sotto illustro tre motivazioni per non ricorrere al gas, pena il non raggiungimento degli obiettivi ritenuti necessari dall’Ipcc.

1. Si è recentemente scoperto che il metano (per oltre il 99% componente del gas naturale) è anch’esso un potente gas serra (una tonnellata di metano equivale a 25 tonnellate di anidride carbonica) ed è aumentato nell’atmosfera, non solo come prodotto di esalazione di paludi, allevamenti bovini, risaie, discariche, ma, soprattutto, come fuoriuscita da depositi superficiali e, in particolare, da attività minerarie dirette proprio all’estrazione di combustibili fossili.

Si libera in maggior misura in atmosfera nella forma di CH4 sia quando si ricorre a perforazioni non convenzionali sia quando si estrae shale gas. Le ricerche più accurate affermano che nell’ultimo decennio la dispersione di metano dall’attività mineraria supera quella proveniente da fonti biogeniche.

In definitiva, chi suggerisce (o impone) l’impiego massiccio della fonte fossile “meno sporca”, si limita a una comparazione di emissioni di CO2 alla combustione, ma glissa sul fatto che all’estrazione e nel corso della trasmissione venga disperso gas metano, ancor più pericoloso per il clima dell’anidride carbonica (le perdite dai tubi dei metanodotti non sono mai inferiori al 3%).

2. Non basterà sostituire gas al carbone per arrivare a 1,5°C. Si calcola che, se tutto il carbone fosse sostituito da metano, usando le esistenti centrali a ciclo combinato, diminuiremmo le emissioni di CO2 di 15 milioni di tonnellate. Se invece la stessa quantità di elettricità venisse prodotta da nuove fonti rinnovabili, le ridurremmo di 26 milioni di tonnellate. Non basterà quindi il passaggio dal carbone al gas, ma occorrerà – e questo non lo si vuol ammettere – puntare su tecnologie di sequestro sottoterra della CO2 prodotta in eccesso.

Questa scommessa rischiosa ignora che non è affatto provato che le tecnologie di sequestro funzionino. Servono solo come specchietto per le allodole per ritardare l’adozione di misure immediate e, qualora fossero messe a punto, comporterebbero un onere economico ingiusto per le generazioni future e aumenterebbero significativamente l’insicurezza alimentare e idrica.

Infatti, un gas letale e inodore come la CO2, più pesante dell’aria, sarebbe una minaccia incombente, dato che eventuali fughe non sono avvertibili ai nostri sensi e i terreni coltivabili sotto cui porre in custodia il prodotto di una follia umana diventerebbero inservibili.

3. Anche sotto il profilo dei costi il vantaggio del gas non regge. Oggigiorno l’energia rinnovabile può ormai sostituire profittevolmente il carbone come generazione di massa, risparmiando nel contempo il denaro dei consumatori. In una proiezione futura, il confronto gas-rinnovabili è ancor più penalizzante per il primo. Le infrastrutture multimiliardarie del gas, eventualmente messe in opera oggi, verrebbero progettate per funzionare per decenni a venire.

Si tratta infatti di infrastrutture ad alta intensità di capitale che richiedono lunghi periodi di funzionamento per remunerare gli investimenti. Una volta che il capitale è stato impiegato, l’operazione è destinata a continuare finché i ricavi superano i costi operativi marginali. Ma la crisi climatica ha tempi bruschi e la sua precipitazione suggerisce di evitare di mettere in opera nuovi progetti sul gas, le cui emissioni “a vita intera” non rientrerebbero nei bilanci del carbonio previsti dall’accordo di Parigi e tanto meno dai suoi aggiornamenti.

Possiamo concludere che in Italia il gas come risorsa di transizione non ha ragione di essere. Purtroppo, non è quello che sta scritto nel Piano clima (Pniec) del governo. La percentuale del gas fossile rimane il 37% del totale del fabbisogno primario e solo per il 2040 si prevede una riduzione della sua percentuale al 33%.

Le fonti rinnovabili crescono solo dal 18% al 28%. Intanto, è confermata la partecipazione di Snam ed Eni ai nuovi metanodotti, così come la necessità di dotarsi di nuovi terminali (“gassificatori”) di importazioni di Gnl (gas liquefatto) anche da Paesi impegnati nell’estrazione di shale gas.

Che fare allora della Tap (Trans Adriatic Pipeline), del progetto di riconversione a gas del carbone di Civitavecchia e della metanizzazione della Sardegna? A chi giova un errore di previsione così incomprensibile a fronte dei dati forniti dalle previsioni climatiche?

L’articolo Clima: ricorrere al metano è inutile, eppure le lobby lo rilanciano. Quindi a tutto gas proviene da Il Fatto Quotidiano.

Civitavecchia, il nuovo piano energetico passa dal gas. Per fortuna c’è un asso nella manica

Il 21 novembre, a un convegno pubblico a Milano, i rappresentanti di un comitato per la riconversione ecologica di Civitavecchia (Comitato Sole) hanno portato alla discussione un prezioso contributo per la riconversione della centrale a carbone in uno scenario senza fossili che riguarda l’intera area, comprese le attività portuali.

La partenza di questa proposta innovativa viene dalla constatazione di un territorio falcidiato da percentuali altissime di malattie tumorali e respiratorie e ingannato dalla truffa del “carbone pulito”. Presentato come opportunità di ricchezza, occupazione e benessere, il bilancio è sconsolante. Ora, dopo dieci anni di produzione a carbone, la centrale Enel dovrà essere riconvertita.

Un nuovo piano energetico si affaccia all’orizzonte, disegnato più sulle esigenze del mercato che su quelle dell’emergenza ambientale e della crisi climatica e della conseguente necessità di un progetto di transizione energetica che abbandoni i fossili, gas compreso. Per Enel invece la transizione passa dal gas.

Intanto A2A, quella che gestisce l’inceneritore di Brescia e la centrale di Brindisi Nord, fa richiesta di installare un inceneritore al confine tra Tarquinia e Civitavecchia: in tal modo la riduzione di personale dovuta alla dismissione del carbone sarebbe compensata dall’impiego nell’incenerimento di rifiuti. Ma il Comitato ha un asso nella manica: ricercatori appassionati al bene pubblico e che da sempre si occupano di fonti rinnovabili offrono la loro collaborazione per un progetto che non risani solo l’area della centrale, ma riguardi anche le grandi navi da crociera, città galleggianti che bruciano il peggior combustibile nel porto, vicino al centro della città.

Nasce così l’idea di fare del porto di Civitavecchia la prima esperienza italiana significativa di un ambiente portuale a zero emissioni, inserito in un contesto urbano anch’esso in grado di coprire il proprio fabbisogno energetico con energie rinnovabili. Un laboratorio, ma anche una utopia concreta collegata con altre esperienze simili in corso in Europa e finanziate dalla Ue per un network portuale a zero emissioni lungo le coste baltiche e nel Mediterraneo. Il progetto si articola in più stadi:

1. Pretendere da Enel una grande opera di bonifica del territorio e di far parte di un progetto per creare un Polo di ricerca energetica da fonti rinnovabili per l’uscita dal carbone. L’insediamento di una elevata potenza fotovoltaica sul vastissimo territorio carbonifero consentirebbe l’accumulo di energia in idrogeno per elettrolisi, da distribuire alle utenze anche attraverso celle a combustibile.

2. Chiedere al Comune e alla Regione un piano di ambientalizzazione di Civitavecchia che la metta in grado di alimentare energeticamente l’intero comprensorio di afferenza in maniera sostenibile, utilizzando allo scopo modalità di produzione di energie rinnovabili a tecnologie correnti ed accumuli elettrici.

3. Avanzare alla compagnie che hanno accesso al porto la richiesta di alimentare le necessità portuali correnti, in prevalenza uffici, climatizzazione e refrigerazione dei magazzini, mediante produzione di energie rinnovabili a tecnologie correnti e implementazione di azioni mirate all’incremento dell’efficienza energetica degli edifici.

4. Esigere dalla compagnia portuale l’elettrificazione delle banchine portuali e una azione sperimentale su scala reale, volta all’utilizzo di tecnologie innovative zero-emissioni per le attività di movimentazione portuale (container, auto, merci non deperibili e deperibili, gruistica e cantieristica navale).

5. Impegnare il governo e le imprese in una implementazione significativa di sistemi sperimentali di produzione di energia in ambito marino ad elevata maturità tecnologica (energia dalle onde e dalle correnti marine, compresa una sperimentazione on e off-shore di impianti eolici innovativi).

6. Chiedere ai gestori della rete elettrica di strutturare una Smart Grid, consistente in una rete “intelligente” per la gestione puntuale dell’informazione e dei sistemi di produzione energetica, degli accumuli di corrente effettuati, sia diretti che tramite produzione di idrogeno.

Al di là delle puntualizzazioni che presumono confronti (e conflitti, se è il caso), va apprezzato uno sforzo di risveglio della buona politica e della bella cultura con le forze sane che esistono sul territorio e, augurabilmente, il contributo delle realtà produttive, sindacali e associative della città. In primavera è prevista una partita di calcio che, come nella realtà, vedrà il Comitato Sole contro il resto del mondo. Una sorta di metafora di una contesa per dimostrare che la partita è tutta da giocare.

L’articolo Civitavecchia, il nuovo piano energetico passa dal gas. Per fortuna c’è un asso nella manica proviene da Il Fatto Quotidiano.

APPELLO: Iniziativa di legge popolare su emergenza climatica

La più grande minaccia di questo secolo” – il cambiamento climatico, la transizione all’instabilità climatica – si sta delineando con eventi sempre più drammatici: a luglio scorso il National Snow and Ice Data Center (NSIDC) degli Usa ha rilevato un picco terribile e inatteso nella curva che documenta l’andamento della fusione dei ghiacci artici in Groenlandia.

Abbiamo denunciato da gran tempo le conseguenze del cambiamento climatico che si abbatte su uomini e cose con l’intensità degli eventi meteorologici estremi, mentre si estendono le aree desertiche, cresce la siccità, si addensa negli ultimi vent’anni il numero dei massimi di temperatura media della terra. La calotta artica si è spaccata nel 2006 aprendo la caccia senza regole al suo sottosuolo, nel 2017 si è staccato dall’Antartide un “iceberg” più grande della Liguria.

Ci siamo battuti documentando e denunciando la più generale crisi ambientale: la devastazione di uno sviluppo fondato sulla spoliazione e il saccheggio delle risorse naturali, come conseguenza del modo capitalistico di produrre e consumare. Esemplare, il nuovo odioso colonialismo del landgrabbing, che attraverso i meccanismi della mera acquisizione di mercato priva intere popolazioni dei loro diritti, delle loro terre e delle loro acque senza dar loro nemmeno la possibilità di essere ascoltati o addirittura attraverso vere e proprie deportazioni. In America Latina, Asia e Africa sempre più grandi foreste, terre comunitarie, bacini fluviali e interi ecosistemi vengono spogliati e le comunità sfollate. Il rogo della foresta amazzonica è l’ultimo drammatico esempio, ammantato di un sovranismo in realtà prono agli interessi delle grandi compagnie agrario-alimentari. La diversità biologica viene costantemente ridotta, la grande barriera corallina australiana è a rischio nei suoi 3000 km. Il respiro degli oceani è soffocato dalla plastica.

Abbiamo proposto in tutti questi anni la battaglia a favore dell’ambiente, contro il global warming e per una generale riconversione ecologica dell’economia e della società, come impegno culturale, sociale e morale. La “Laudato si’” di Papa Bergoglio ha messo in risalto gli aspetti umani e spirituali di questa nuova visione.

I governi di tutto il mondo, colpevolmente lenti nell’applicare il Protocollo di Kyoto (2005), oggi in ritardo nell’attuare gli impegni dell’Accordo di Parigi ratificati nel 2016 da 180 Paesi, devono accelerare la loro azione per fare più efficacemente fronte al cambiamento climatico e mantenere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 °C.

A pagare lo sconquasso del clima sono soprattutto le popolazioni più povere e vulnerabili, colpite dalle migrazioni interne o dalla fuga disperata dalle loro terre, da fame, sete e malattie endemiche, marginalizzate nei loro territori, spesso nel nome stesso dello sviluppo e dell’innovazione. I rischi dovuti ai disastri ambientali accrescono tensioni e conflitti e nel 2017 hanno causato, da soli, l’esodo di 60 milioni di rifugiati ambientali, ma saranno quattro volte tanti nel giro di soli vent’anni.

Non si tratta solo dell’accoglienza e della sicurezza. Occorre “costruire ponti”, capaci di ridurre la distanza tra chi ha troppo e chi non ha abbastanza, tra l’opulenza e la povertà, come indicato dagli obiettivi globali dell’Agenda 2030 proposta dalle Nazioni Unite.

Occorre modificare i nostri stili di vita, le nostre culture e il nostro modo di pensare se vogliamo dare futuro al futuro. Trasformare i rifiuti in nuovi prodotti com’è tecnologicamente possibile, fare di più con meno, organizzare la società della sufficienza affinché ogni risorsa sia utilizzata senza sprechi e nel modo più appropriato fino all’autogestione. E, da subito, “decarbonizzare” l’economia sostituendo i combustibili fossili con le fonti rinnovabili.

Oggi finalmente una voce si leva autorevole per imprimere un’accelerazione agli impegni dei Governi, almeno qui in Europa. La neo-presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, ha proposto al Parlamento europeo a Strasburgo l’obiettivo di riduzione del 50-55% di CO2, il gas serra dominante, entro il 2030 facendo così schizzare a quel livello il target che la UE aveva in precedenza fissato al 32%. E, conseguentemente, di mantenere “un ruolo di guida della UE nei negoziati internazionali per far crescere il livello di ambizione delle altre principali economie entro il 2021”. Come si è verificato lungo tutto il percorso che ha portato all’Accordo di Parigi.

Il Governo italiano, continuando a perseguire un atteggiamento vergognosamente caudatario; infatti, essendo già da tempo in corso il dibattito in sede Ue per portare la riduzione al 40%, ha proposto nel Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) un obiettivo di solo il 33%. Il PNIEC è stato sottoposto, a decorrere dal 3 agosto scorso, alle osservazioni di tutti i cittadini tramite la Valutazione Ambientale Strategica (VAS).

Noi, le associazioni, i comitati e i gruppi che rappresentiamo, faremo senz’altro pervenire le nostre osservazioni entro i 60 giorni previsti dalla procedura di VAS. Riteniamo, però, che debba attuarsi in tutto il Paese la più ampia mobilitazione possibile perché il Piano assuma l’obiettivo indicato dalla von der Leyen. Al di sotto, saremmo come i Paesi di Visegrad nei confronti dell’immigrazione, non a caso le maggiori resistenze alla “decarbonizzazione” provengono da alcuni di loro in nome del miope privilegio degli “interessi nazionali”. E, soprattutto, non saremmo all’altezza della tremenda sfida e delle responsabilità che il cambiamento climatico impone a tutti.

Per favorire questa mobilitazione, per dargli il carattere capillare di confronto con cittadini, organi territoriali elettivi, istituzioni e enti pubblici, luoghi di lavoro e di socializzazione, organi di informazione, proponiamo una legge d’iniziativa popolare che assuma l’obiettivo del 50% per l’Italia e indichi la carbon tax come mezzo principale per coprire la spesa pubblica finalizzata a quell’obiettivo.

La raccolta di firme per la presentazione della legge può costituire un momento d’informazione e, allo stesso tempo, sollecitare un protagonismo consapevole ed esteso di tutti quale la drammaticità dei tempi richiede.

 

Massimo Scalia CIRPSDaniela Padoan Pres. Forum LAUDATO SI’Mario Agostinelli Pres. ENERGIA FELICE – Vanessa Pallucchi Vice Pres. LEGAMBIENTE – Pippo Onufrio Dir. Gen. GREENPEACE ITALIA – Enrico Vicenti Segretario CNI-Unesco Ermete Realacci Pres. SYMBOLARoberta Cafarotti Dir. Scient. EARTH DAY ITALY – Mariagrazia Midulla Resp. Clima & Energia WWFEnzo Naso Dir. CIRPS – Virginio Colmegna Forum LAUDATO SI’ – Marialuisa Saviano Pres. IASS – Aurelio Angelini Pres.CNESA2030-UnescoGianni Silvestrini Dir. Scient. KYOTO CLUB – Mario Salomone Segr. Gen. WEEC NETWORKSimona Sambati CASA DELLA CARITÀSergio Ferraris Dir. “QUALE ENERGIA” – Vittorio Bardi Pres. SÌ ALLE RINNOVABILI, NO AL NUCLEAREPaola Bolaffio Dir. “GIORNALISTI NELL’ERBA” – Guido Viale FORUM “LAUDATO SI” – Gianni Mattioli CIRPS Pasquale StiglianiSCANZIAMO LE SCORIE”, ScanzanoSerenella Iovino University of North Carolina Marco Fratoddi Dir. “SAPERE AMBIENTE” – Stefania Divertito, Giornalista – Oreste Magni ECOISTITUTO-VALLE DEL TICINO – Michela Mayer Dirett. IASS – Enzo Reda MOV. ECOLOGISTA CALABRIA – Monica D’Ambrosio GiornalistaPaolo Bartolomei Commiss. Scient. DECOMMISSIONING – Anna Re Univ. IULM, Milano – Ilaria Romano Giornalista – Gianluca Senatore Univ. LA SAPIENZA-Roma – Gian Piero Godio PRO NATURA, Vercelli – Linda Maggiori Blogger – Filippo Delogu Segr. CNESA2030-Unesco – Giuditta Iantaffi Coord. Docenti “GIORN. NELL’ERBA”Salvatore Alfano MOV. ECOLOGISTA LAZIO Silvia Zamboni Giornalista

Venezia, anche la finanza è in allarme per il clima. E la partita per la svolta green è ancora aperta

L’allagamento di Venezia apre una fase nuova nella sensibilità della popolazione e allarga un solco più profondo nei confronti di quella politica che ha sempre negato l’emergenza climatica, magari cercando nei migranti o nella difesa dei confini la panacea alla crisi più profonda dal dopoguerra e, forse, della storia dell’umanità. Il futuro batte alla porta dei sordi rinchiusi nelle stanze del potere, ossessionate da un presentismo irresponsabile. E non si tratta di un futuro da 0,2% più o meno del Pil.

In un post di un anno fa avevo ammonito sulla perdita di siti di valore inestimabile come Venezia e Aquileia per l’innalzamento dei mari e avevo ricevuto commenti spesso irridenti. La realtà è stata perfino più crudele dei timori avanzati. Oggi l’urgenza si sta tramutando in un tempo che viene a mancare.

In uno studio pubblicato da Nature Climate Change e riportato in sintesi dal Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, studiosi di grande serietà proiettano i loro modelli su due aspetti fin qui poco analizzati: il decremento di produttività complessiva (lavoro e natura) dovuta al clima e l’effetto importante che ne ricade sulla stabilità del sistema finanziario.

Viene stimato che il Pil nelle regioni italiane da qui alla seconda metà del secolo, differenziato a seconda della latitudine, avrà un rallentamento della crescita di meno 8 punti (sette volte il rallentamento stimato oggi dagli economisti!) mentre si registrerà un incremento ulteriore delle disuguaglianze economiche tra Nord e Sud.

Massimo Tavoni e Francesco Bosello, coautori del rapporto, dimostrano l’affidabilità delle loro previsioni: “Disponiamo di una risoluzione spaziale molto più dettagliata, nell’ordine di 100, 50 o addirittura di 10 chilometri quadrati come in questo studio, anziché riferirsi a medie nazionali. Combinando i dati economici con i dati climatici, entrambi ad alta risoluzione spaziale, possiamo comprendere la relazione storica tra temperatura e crescita economica a livello di cella geografica”. E già adesso sappiamo che è ben diverso abitare a Varese o in Liguria o nella laguna veneta…

In base a un’analisi dettagliata, se ne ricava che la temperatura ottimale per l’economia del Paese, quella che consente di massimizzarne la performance economica, è 11,5°C: già oggi in alcune regioni la temperatura media supera tale valore e lo supererà sempre in misura maggiore, comportando una riduzione della produttività e della crescita economica, come conseguenza degli impatti dei cambiamenti climatici.

Per effetto dei cambiamenti climatici, i fallimenti delle banche diventeranno in futuro sempre più frequenti, mentre la finanza pubblica dovrà sostenere costi sempre più elevati per salvare le banche insolventi, con un’esplosione del debito pubblico. Le crisi finanziarie hanno certamente ripercussioni sull’economia, perché causano una riduzione della produzione e dei consumi, ma anche sulla finanza pubblica, per un aumento dei costi necessari alla ristrutturazione del sistema finanziario da parte dei governi.

Il cambiamento climatico e gli eventi estremi ad esso associati come alluvioni, frane, innalzamento del livello del mare e tempeste possono, per esempio, aumentare le infrastrutture a rischio e ripercuotersi negativamente sulle compagnie assicurative, per effetto dell’innalzamento dei premi. Per le stesse imprese aumenterebbero le insolvenze, che, riverberate su scala globale, come quelle sperimentate nel corso della crisi finanziaria del 2008, costringerebbero i governi a intervenire.

Lo studio di Nature per la prima volta prova a quantificare tale effetto: i fallimenti delle banche in futuro sarebbero, a causa dei cambiamenti climatici, più frequenti (da +26% fino a +248%); salvare le banche insolventi comporterebbe un costo per i governi pari a circa il 5-15% del Pil all’anno, portando a un’esplosione del debito pubblico, che potrebbe arrivare a raddoppiare nel 2100. I due fattori esaminati suggeriscono di concentrare gli sforzi sul raggiungimento delle emissioni zero nette globali il più rapidamente possibile.

Proprio in questo contesto il 14 novembre la Bei ha deciso una nuova politica di prestiti energetici, ponendo fine al sostegno a progetti di combustibili fossili (compreso il gas naturale) alla fine del 2021. La nuova politica energetica non era riuscita a ottenere sostegno in una prima discussione in ottobre, con Paesi come la Germania – divisa tra i vari ministeri – e l’Italia compattamente contro. Per queste contrarietà, la data definitiva è stata spostata dal 2020 al 2021.

Ungheria, Polonia e Romania hanno votato contro la nuova politica. Cipro, Estonia, Lituania e Malta si sono astenute tutte per mancanza di flessibilità sul gas. Austria e Lussemburgo hanno escluso il voto a causa di ciò che hanno percepito come una linea di apertura all’energia nucleare. E’ interessante questa dislocazione, perché dice quanto e perché la partita sia aperta. Ma come farà il governo italiano a sostenere ancora l’utilità del gasdotto Tap e la riconversione a gas della centrale a carbone di Civitavecchia, contro un ordine del giorno votato all’unanimità dal Consiglio Comunale?

L’articolo Venezia, anche la finanza è in allarme per il clima. E la partita per la svolta green è ancora aperta proviene da Il Fatto Quotidiano.