Nucleare in Lombardia: grazie, Formigoni! Grazie, Lega!

Da consigliere regionale tastavo il polso della coalizione Formigoni-Lega ad ogni passaggio che riguardasse la localizzazione di nuove centrali in Lombardia. Gli ineffabili titolari del governo lombardo assicuravano che non avrebbero mai consentito un reattore in “Padania”: al massimo, se il governo l’avesse richiesto, ne avrebbero appoggiata la costruzione, ma “lontano dal Po”. Non perché credessero alla sacralità del fiume, ma perché, più prosaicamente, nessuno vorrebbe avere a che fare vicino a casa con possibili incidenti catastrofici, rilasci radioattivi nascosti, piani di evacuazione, scorie micidiali e ineliminabili per 100.000 anni e, soprattutto, dirlo ai propri elettori.

Ma adesso che, nonostante gli alti strepiti del Cavaliere e del “Senatur”, le elezioni si allontanano, l’obbedienza agli interessi e agli equilibri romani, condita con gli affari che si profilano localmente, fanno cadere qualsiasi precauzione. “È probabile una centrale nucleare in Lombardia e mi sembrerebbe strano non prevederne una” – ha detto il nuovo titolare dello Sviluppo economico Paolo Romani – “Anzi, ho incontrato anche una disponibilità da parte del governatore Roberto Formigoni”. Secondo Romani basteranno gli incentivi, “un sistema che ha generato competizione fra i Comuni in Francia”, per vedere i sindaci lombardi azzuffarsi per contendersi i siti. Ma il neoministro si scorda che dietro i sindaci ci sono cittadine e cittadini, che già sull’acqua pubblica non si sono fatti imbrogliare. E dovrebbe saperlo Formigoni che solo pochi mesi fa, in campagna elettorale per la riconferma in Regione, predicava che la Lombardia era autosufficiente dal punto di vista energetico e non ci sarebbe stato bisogno di energia elettrica prodotta dall’atomo.

Più prudente sembrerebbe Davide Boni: l’esponente leghista presidente del Consiglio Regionale afferma che “bisogna ragionare, andar cauto. Ci sono tante valutazioni da fare. Per esempio, in Lombardia sì, ma dove?”. Tradotto: io ne farei a meno, ma se me lo chiedono, che ci posso fare? E così i nostri governanti che hanno già così impunemente saccheggiato il territorio lombardo e reso possibile il degrado ambientale scivolano “dolcemente” verso la più micidiale e irresponsabile forma di produzione di energia, sostenuti da un altro ineffabile corregionale: il professor Veronesi, che ripete che i cittadini dovrebbero essere contenti di ospitare un reattore sotto la tutela dell’improvvisata Agenzia per la Sicurezza di cui ha insistito a fare il Presidente.

Mentre l’Europa guarda avanti verso l’obiettivo di 20% di risparmio, 20% di riduzione di CO2 e 20% in più di rinnovabili, la nostra Regione se ne distacca, come ormai avviene per tutto quanto riguarda un futuro più sostenibile, più aperto a occasioni di buona occupazione, più desiderabile. È avviata in tutti i territori la raccolta di firme per la legge di iniziativa popolare “No al nucleare, Sì alle rinnovabili”.

Corri a porre una firma sulla proposta di legge per guardare più in là del naso di chi ti governa e ribadire che siamo per il sole e non per l’atomo, in Italia e in Lombardia.

Mario Agostinelli, coordinatore Comitato Energia Felice

Centrali nucleari in Lombardia? Reazioni

Il neoministro allo Sviluppo Romani giudica molto probabile la costruzione in Lombardia di “almeno” una delle centrali nucleari previste. Riferisce poi che per convincere le popolazioni ad accettare l’atomo in casa si farà ricorso al “metodo francese”: offrire incentivi ai Comuni che si candidano ad ospitare gli impianti.

La road map del nucleare prosegue, sia pure con qualche ritardo: Umberto Veronesi viene nominato a presidente dell’Agenzia per la Sicurezza Nucleare; la Sogin ha una nuova dirigenza (Giancarlo Aragona è il  presidente e Giuseppe Nucci l’amministratore delegato), dopo il commissariamento, durato oltre un anno. La Sogin è la società (100% di proprietà del Tesoro) che nel piano nucleare del governo dovrà occuparsi del Parco Tecnologico, compreso il deposito delle scorie radioattive. Il suo lavoro l’avrebbe già condotta all’individuazione di 52 aree adatte. Una lista finita nel cassetto, in attesa dei criteri che dovrà fissare l’Agenzia Nucleare. La localizzazione delle centrali avverrà dopo i criteri individuati dall’ASN e relativa lista dei siti adatti; dovranno comunque intervenire le Regioni con un loro parere e le “cordate” (Enel-EDF per gli EPR e forse anche E.ON- Gas De Suez per gli AP1000).

In Lombardia un sito radioattivizzabile è fra Cremona e Mantova, ovviamente sul Po. E’ verosimile però che, prima di indicare i siti, la lobby atomica aspetti che si vada a votare sul referendum di Di Pietro (verso giugno 2011). Una iniziativa che reputo un errore tattico. Berlusconi & C. canteranno vittoria dopo il praticamente certo non raggiungimento del quorum. Il referendum in questione potrà essere rinviato di un anno solo da probabili elezioni anticipate il marzo dell’anno prossimo…

La mia posizione è mettere le mani avanti rispetto al risultato chiamandolo “sondaggio”: in Italia il deficit democratico e il monopolio televisivo Mediarai ha abolito di fatto questo istituto di democrazia diretta. Dobbiamo insomma denunciare che partecipiamo ad un gioco truccato…

Un altro punto su cui invito alla riflessione gli attivisti, già convinti della assulta illogicità dei piani atomici, è perchè l’Italia si attacca al carro nucleare francese. La Francia, che è il Paese più nuclearizzato del mondo, ha evidenti interessi ad ammortizzare i suoi pesanti investimenti nucleari che hanno come scopo principale l’arsenale atomico finalizzato alla “Grandeur”. Deve quindi oggi piazzare gli EPR in giro per il mondo.

Per rispondere alla domanda da me proposta, avanzo due ipotesi complementari:
1- Roma ha bisogno che in Europa si chiudano gli occhi rispetto alla voragine del debito pubblico italiano (rischiamo – non è uno scherzo – l’esclusione dall’euro);
2- l’ENEL cerca una occasione di business che ripiani in parte i suoi debiti stratosferici  (Pantalone, cioè il contribuente, deve subire un ulteriore salasso per mantenere a galla le società della “razza padrona” ex di Stato).

Per quanto riguarda più specificamente il primo elemento, faccio notare che, a livello UE, anche se Santoro non lo sa, si sta discutento la riforma del patto di stabilità, vale a dire una nuova versione dei “parametri di Maastricht”.  L’Italia partecipa al tavolo con una richiesta precisa: “Vanno presi in considerazione anche livello e variazione del debito privato”. Leggo su Il Sole 24 Ore di ieri: “Parigi (come Roma) non solo rifiuta gli automatismi sanzionatori e rigide gabbie numeriche per smantellare gli squilibri nei conti pubblici ma insiste perché sia l’istanza politica – non quella tecnica, ndr – cioé il Consiglio, a prendere le decisioni”. Il fatto che si sia creato un asse franco-italiano contro la Germania su questa vicenda decisiva (da cui dipende la quantità di tutti i tagli nella spesa pubblica, sembra 40 miliardi di euro annui per l’Italia, a prescindere dal colore della maggioranza che governa), a mio modesto parere, ha qualcosa a che vedere con il “favore” che stiamo facendo a Sarkozy acquistando i reattori nucleari francesi…

Oggi, sempre su Il Sole 24 Ore, apprendiamo che al Lussemburgo è stato siglato un accordo politico quadro sulla riforma del patto di stabilità, che Tremonti giudica “molto buono”. “I ministri finanziari dell’Eurogruppo ieri hanno negoziato per ben 13 ore ininterrotte mediando tra gli opposti estremismi del partito tedesco (sostenuto da nordici, Repubblica Ceca e Slovacchia) deciso a imporre una rigidissima camicia di forza ai renitenti a un eccesso di disciplina. E del partito mediterraneo, guidato da Francia e Italia (appoggiato da Belgio, Spagna, Portogallo e Grecia), altrettanto deciso a respingere il modello del rigore inflessibile e tutto matematico”. Tutta questa complessa partita dovrebbe chiudersi nel 2013 con l’approvazione di emendamenti ai Trattati UE.

Nei piani per il rilancio del nucleare in Italia questa volta, diversamente che nel passato, vedo oggi, a conti fatti, una motivazione economica prevalente rispetto alle esigenze geopolitiche (anche se l’economia va interpretata non solo come produzione di profitto, ma più complessamente, come fattore di potenza). Riporto, infine, la notizia delle dichiarazioni di Romani come l’ha data “Repubblica”. La “Green Economy” è un treno che il nucleare rischia di farci perdere, ma come “Energia Felice” indicherei piuttosto un obiettivo di “Buenvivir”, che prenda atto in modo radicale dell’insostenibilità politica e sociale dell’attuale modello di crescita.

Senza tema di apparire “catastrofista”, credo infatti che occorra dire al popolo la verità “rivoluzionaria”: se non invertiamo la rotta è a rischio la sopravvivenza della nostra specie sul Pianeta…

Ricordo, per discutere ed approfondire anche queste considerazioni, la giornata di formazione per il Comitato Energia Felice prevista per il giorno mercoledi 27 ottobre presso la sala del Consiglio Regionale della Lombardia (via Fabio Filzi, 29 – 20124 Milano).

Alfonso Navarra, obiettore alle spese militari e nucleari, Coordinamento Energia Felice

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LEGAMBIENTE

Il Ministro Paolo Romani e una o due centrali nucleari in Lombardia? Un “distretto nucleare” nel nord milanese?

Penso che mentre tutta Europa scatena la gara a vantaggio dell’efficienza energetica e delle rinnovabile, con lo scopo di sostituire progressivamente tutte le centrali a petrolio e nucleare, Berlusconi sia rimasto legato ai miti del secolo scorso.

Mentre si promettono qualche migliaia di posti di lavoro (2 mila per ogni centrale nucleare in costruzione) si dimentica che le rinnovabili occupano oggi in Italia 80.000 professionisti, tecnici e operai. 20 mila di questi nella sola Regione Lombardia.

Il nucleare ci fa perdere la corsa nella green economy!

Andrea Poggio, vicedirettore generale Legambiente onlus

A qualcuno piace caldo

Mentre il pianeta continua a surriscaldarsi, l’Italia si avvia a fare l’ennesima brutta figura in materia di politiche climatiche. Nelle ultime dichiarazioni di Corrado Clini, Direttore Generale del Ministero dell’Ambiente, l’Italia sembra avviata a “tirare il freno” all’azione europea volta a ridurre le emissioni che surriscaldano il pianeta. In discussione c’è l’aumento delle riduzioni dei gas serra, dal 20% al 30% entro il 2030. L’aumento dell’impegno europeo al 30% ha almeno tre motivi.

Il primo è che il 20% risulta insufficiente nelle negoziazioni internazionali: molti paesi in via di sviluppo hanno fatto notare che la responsabilità “storica” dell’Europa – ma anche di Stati Uniti e di altri paesi OCSE – è tale che le riduzioni già promesse non sono sufficienti se si vuole arrivare ad una suddivisione equa degli sforzi.

Il secondo è che la crisi ha ridotto notevolmente le emissioni europee e l’impegno del 30% ora è raggiungibile senza sforzi eccessivi.

Il terzo motivo è stato scritto nero su bianco da tre ministri di Francia, Germania e Regno Unito (Jean-Louis Borloo, Norbert Röttgen e Chris Huhne) che in luglio hanno pubblicato un appello: con impegni blandi, l’Europa potrebbeperdere la corsa nella competizione per un mondo low carbon con Paesi come la Cina, il Giappone e gli Stati Uniti”. Della stessa idea 27 tra le maggiori aziende europee (fra cui l’italiana Barilla) che poche settimane fa hanno pubblicato su Financial Times, Le Monde e Frankfurter Allgemeine Zeitung una lettera–appello di sostegno al nuovo obiettivo, con argomenti molto concreti: “il futuro vantaggio competitivo dell’Unione Europea dipende dalla capacità di incoraggiare e consentire alle sue imprese di guidare la trasformazione dell’economia mondiale che avverrà nei prossimi due decenni, e non di nascondersi da essa”.

Le dichiarazioni di Clini sono avvenute alla Camera dei Deputati, in occasione di una conferenza stampa di presentazione del progetto “Come cambia il cambiamento climatico”, promosso dalla Fondazione Formiche. Il libretto che ha riassunto i risultati del progetto, distribuito in allegato al quotidiano Libero, contiene l’introduzione del Direttore Generale, in linea con le dichiarazioni al convegno: non servono nuovi limiti alle emissioni, ma solo azioni tecnologiche volontarie per ridurre le emissioni. E se queste azioni non ci saranno? Non è il caso di cautelarsi imponendo dei limiti a tutela del pianeta? Non è più conveniente anticipare il cambiamento con misure più incisive? Tutte domande cui Clini non sembra interessato a rispondere.

La “brutta figura” dell’Italia non sarebbe una novità. In passato l’Italia si era distinta per l’opposizione al pacchetto clima energia della Commissione Europea, noto come “20-20-20” (20% di riduzione delle emissioni dei gas che surriscaldano il pianeta, 20% di produzione di energia da fonti rinnovabili e 20% di aumento dell’efficienza energetica), che era stato accusato di comportare costi eccessivi per l’economia Italiana.

Nel marzo di quest’anno, ben dopo l’approvazione del Pacchetto, avvenuta all’unanimità, quindi anche con il consenso dell’Italia, in Senato era stata approvata una mozione che chiedeva all’Italia di uscire dalla politica climatica europea sulla base di una presunta “clausola Berlusconi”. La clausola non esisteva, ma questo non impedì alla maggioranza di votare la mozione. Da notare che la maggioranza respinse la mozione del Senatore Francesco Rutelli che, senza dirlo apertamente, aveva copiato nella sua mozione gli impegni finali del G8 dell’Aquila. Dichiarazione che, ironia della sorte, Berlusconi si era vantato di avere personalmente scritto.

Insomma, la confusione regna sovrana al Ministero dell’Ambiente per quanto riguarda le politiche sul clima: le dichiarazioni di Corrado Clini non sono quindi una novità. Il potente Direttore Generale resta incontrastato da 15 anni al Ministero, e ha attraversato tutti i governi e tutti i ministri dell’ambiente.

In passato aveva scommesso sulla mancata approvazione del Protocollo di Kyoto e questa scommessa è costata cara al sistema industriale italiano che si è trovato impreparato all’entrata in vigore dei meccanismi flessibili del Protocollo, come l’emission trading europeo, il sistema di scambio delle quote di emissione in vigore dal 2005.

Il “no” italiano al passaggio a una riduzione del 30% è grave anche perché l’Italia è uno dei paesi che saranno più colpiti dai cambiamenti climatici. Pur se, come visto quest’estate, anche nella fredda Russia le alte temperature possono causare immani disastri, l’aumento previsto nelle temperature e la diminuzione delle precipitazioni possono mettere in crisi molti ecosistemi e le attività agricole di molte aree del mediterraneo, fra cui in particolare il sud Italia.

I deboli argomenti di Corrado Clini contro la politica Europea sul clima hanno forse anche altre spiegazioni. Il Direttore Generale del ministero risulta fra i componenti dell’executive team dell’Istituto Bruno Leoni (sul sito www.brunoleoni.it, Clini risulta come “senior fellow”), un centro studi torinese improntato al liberismo più sfrenato, che opera da anni come lobby contro le politiche climatiche europee, arrivando perfino a rilanciare le tesi dei negazionisti climatici: l’anno scorso ha pubblicato un libro del Presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Klaus, in cui il politico si improvvisava scienziato e negava l’esistenza del riscaldamento globale, con argomenti che hanno fatto sorridere gli scienziati di mezzo mondo. L’Istituto Bruno Leoni è stato candidato al premio “A qualcuno piace caldo” del sito Climalteranti, il premio riservato a chi si distingue nel disinformare sul tema dei cambiamenti climatici.

Se al Consiglio d’Europa del 14 ottobre il no italiano a un maggiore impegno contro i cambiamenti climatici avesse fra gli artefici un “senior fellow” di una nota organizzazione lobbistica, l’Italia non farebbe una gran figura. A Bruxelles i conflitti d’interesse significano ancora qualcosa.

(dal Blog di Mario Agostinelli su Il Fatto Quotidiano online)