Il dibattito aperto sull’introduzione accelerata e massiccia del vettore idrogeno in un futuro sistema energetico più sostenibile è incentrato in gran parte su aspetti rilevanti, ma che non tengono per ora in conto una risorsa vitale come l’acqua. Gli esperti si misurano sui costi, sulle evoluzioni tecnologiche dei sistemi di produzione e di distribuzione, sui miglioramenti di efficienza di un ciclo ad oggi ai primi passi. Gli economisti e i governi si mostrano più o meno sensibili all’interesse dei maggiori gruppi multinazionali a mantenere centralizzato e dipendente da grandi impianti l’introduzione di un sistema di accumulo innovativo su larga scala. Tutti concordano sui vantaggi che deriverebbero dal conservare e immettere in rete l’energia prodotta, aumentando l’efficienza del sistema e, soprattutto, decarbonizzando significativamente il ciclo di produzione e consumo.
L’idrogeno sembrerebbe una soluzione ideale, ma occorre tener conto che, pur essendo diffuso nell’atmosfera, lo si trova per lo più legato saldamente in molte molecole, come gli idrocarburi o l’acqua, in cui il legame chimico con l’ossigeno è talmente forte che, fino agli ultimi decenni del ‘700, il liquido più diffuso sul pianeta era considerato inscindibile nei suoi componenti.
Quasi mai si riflette sul fatto che l’idrogeno può essere prodotto in quantità importanti solo scindendo molecole molto stabili, come ad esempio il metano (CH4) o, soprattutto, l’acqua (H2O), rilasciando nel primo caso gas climalteranti e nel secondo – almeno a prima vista – soltanto ossigeno dopo aver consumato corrente elettrica.
L’acqua da sola copre il 71% della superficie terrestre e il suo volume è di circa 1,5 miliardi di chilometri cubi. Quindi il ricorso all’acqua, così drammaticamente preziosa e carente in gran parte del pianeta abitato, dati i grandi numeri di sopra e l’urgenza di trovare soluzioni al cambiamento climatico, viene persa di vista nella ridefinizione del nuovo modello energetico.
Se andate su Google per sapere quanta acqua si consuma per produrre un kg di idrogeno farete fatica a raccapezzarvi. Semplificando qui al massimo, potreste, dopo molti sforzi, arrivare a cogliere la pericolosità di produrre idrogeno direttamente da metano e vapore acqueo (idrogeno grigio), come vorrebbero i più imprudenti, dando luogo ad emissioni assai dannose oltre che a massicci consumi di acqua.
Sareste poi incuriositi dai processi di elettrolisi, per cui l’idrogeno viene ottenuto al catodo di una cella contenente acqua con il passaggio di corrente elettrica. In sé il consumo di acqua nel solo processo di idrolisi non appare eccessivo (circa 10 litri di acqua per 1 kg di idrogeno). Ma come si può trascurare quanta acqua viene consumata per produrre la corrente necessaria a scinderne la stupefacente struttura molecolare?
A questo punto, ecco comparire due altri colori dell’idrogeno: il blu, quando l’elettricità proviene da centrali a metano con sequestro di CO2, il verde, quando la corrente proviene da eolico o fotovoltaico, che funzionano senza consumo d’acqua. A parte i problemi di costi – che non trattiamo qui – come non stupirci che non ci si faccia mai carico del fatto che l’idrogeno blu, in quanto prodotto da centrali a carbone o gas fossili, richiede enormi quantità d’acqua consumate in particolare nei cicli di raffreddamento?
Ad esempio, uno dei vantaggi propagandati della futuristica economia dell’idrogeno negli Stati Uniti è che l’approvvigionamento di idrogeno, sotto forma di acqua, è virtualmente illimitato. Questa ipotesi è talmente scontata che nessuno studio importante ha considerato appieno quanta acqua avrebbe bisogno un’economia dell’idrogeno sostenibile se non si alimentasse solo con fonti rinnovabili.
Michael Webber, direttore associato presso il Center for International Energy and Environmental Policy presso l’Università del Texas ad Austin, ha recentemente colmato questa lacuna fornendo una prima analisi del fabbisogno idrico totale con dati recenti per un’economia dell’idrogeno “di transizione” negli Stati Uniti a trazione fossile. L’analisi di Webber stima che per la quantità di idrogeno prevista dal piano al 2030 si utilizzerebbero circa dai 72 ai 260 trilioni di litri di acqua all’anno come materia prima per la produzione elettrolitica e come soprattutto refrigerante per l’energia termoelettrica. Si tratta di 196-714 miliardi di litri al giorno, un aumento del 27-97% dai 737 miliardi di litri al giorno (272 trilioni di litri all’anno) utilizzati oggi dal settore termoelettrico per generare circa il 90% dell’elettricità negli Stati Uniti.
Il significato più grande di questo lavoro di ricerca di Webber, unico al mondo, è che, utilizzando l’idrogeno come vettore ma lasciando inalterato il ricorso a centrali fossili (idrogeno blu) al posto di impostare un radicale decentramento sostenuto dall’elettricità fornita dalle fonti rinnovabili, potremmo avere un impatto molto drammatico sulle risorse idriche. C’è solo l’idrogeno verde come possibile soluzione sia all’emergenza climatica che a quella idrica.
In un recentissimo articolo Nicholas Kusnetz, reso famoso come consulente e protagonista del film di Michael Moore Planet of the Humans, suggerisce a Joe Biden il terreno su cui potrebbe nascere una intesa bipartisan sul clima: la produzione di idrogeno blu con il metodo di cattura e stoccaggio della CO2! Quindi, a suo dire, un sostegno sia dei democratici che dei repubblicani alla lotta climatica troverebbe un compromesso nel destinare incentivi alla cattura di anidride carbonica da sparare nei pozzi o da iniettare nelle caverne sotterranee, cioè un sostegno alle lobby dei fossili, ovvero al mantenimento del sistema energetico responsabile primo della crisi climatica.
Questo spiega le critiche che erano venute dal mondo ambientalista all’impostazione del film di Moore, il peggiore e più ambiguo nella carriera del famoso e spesso riconosciuto regista.
L’articolo Idrogeno verde, l’unico rimedio alla crisi idrica e climatica. Checché ne dicano le lobby e Michael Moore proviene da Il Fatto Quotidiano.