Fukushima, dieci anni dopo si rischia di superare i danni di Chernobyl

In occasione dell’anniversario del disastro nucleare di Fukushima, Greenpeace Giappone ha ripreso un’indagine nella quale accusava il governo giapponese di aver violato i diritti umani dei cittadini e in particolare di lavoratori e bambini. Purtroppo, quella che viene considerata la più complessa crisi nucleare dopo Chernobyl (1986) non cessa di allarmare. Stando alle ultime stime, ancora oggi i livelli di radiazione, sia nelle zone di esclusione che nelle aree aperte, sarebbero altissimi, da 5 a oltre 100 volte più alti del limite massimo raccomandato. Ma non solo: questi livelli rimarranno tali ancora per decenni. La catastrofe è nota: i tre noccioli del reattore si fusero, liberando gas di idrogeno e rilasciando nell’ambiente grandi quantità di materiale radioattivo.

I valori di radioattività ancor oggi rilevati sarebbero così alti che se un lavoratore lavorasse lì per otto ore al giorno durante un intero anno, potrebbe ricevere una dose equivalente a più di cento radiografie del torace.

Lo sfruttamento dei lavoratori è molto diffuso, compreso il reclutamento di persone svantaggiate e senzatetto, che non hanno alcuna formazione in materia di radioprotezione. Ci sarebbero enormi accumuli di materiale radioattivo, in particolare il cesio, intrappolati nelle sabbie e nelle acque sotterranee fino a 96 chilometri circa di distanza dalle coste giapponesi. Per di più, grandi pozze di acqua contaminata per l’effetto collaterale della misura di emergenza di versare enormi quantità di acqua nei reattori e nelle loro piscine di combustibile nucleare esaurito per raffreddarli, sono penetrate nell’Oceano Pacifico.

Usa news e Nature del 19 febbraio informano che i livelli dell’acqua di raffreddamento sono diminuiti in due reattori della centrale nucleare distrutta, da quando un potente terremoto ha colpito l’area lo scorso fine settimana, indicando possibili danni aggiuntivi. Si teme che dal Giappone si possa scaricare un milione di tonnellate di acqua radioattiva nell’Oceano Pacifico. Nuovi danni, quindi, potrebbero complicare ulteriormente il già difficile processo di disattivazione dell’impianto, che dovrebbe richiedere decenni.

Il portavoce della Tokyo Electric Power Co. Keisuke Matsuo ha detto che il calo del livello dell’acqua nei reattori delle Unità 1 e 3 indica che i danni esistenti alle loro camere di contenimento primarie sono stati aggravati dal terremoto di magnitudo 7.3, che, oltre ad aver innescato frane, danneggiato case e una linea ferroviaria ad alta velocità, ha permesso la fuoriuscita di più acqua, che La Tepco dovrà monitorare sul fondo dei vasi di contenimento, seguendone l’aumento eventuale di temperatura.

Dal disastro del 2011, l’acqua di raffreddamento è costantemente fuoriuscita dai vasi di contenimento primari danneggiati negli scantinati degli edifici del reattore. Per compensare la perdita, è stata pompata ulteriore acqua nei reattori per raffreddare il combustibile fuso rimanente al loro interno. Il recente calo dei livelli dell’acqua indica che sta fuoriuscendo più acqua di prima.

L’aumento delle perdite potrebbe richiedere il pompaggio di ulteriore acqua di raffreddamento nei reattori, il che si tradurrebbe in più acqua contaminata che viene trattata e immagazzinata in enormi serbatoi presso l’impianto. L’intenzione di rilasciarla gradualmente in mare ha incontrato una feroce opposizione da parte dei residenti locali.

Nel frattempo, l’Alta Corte di Tokyo ha ritenuto il governo e la Tepco responsabili del disastro nucleare del 2011, ordinando a entrambi di pagare circa 280 milioni di yen (2,6 milioni di dollari) a titolo di risarcimento per i loro mezzi di sussistenza e le case perdute a più di 40 querelanti costretti a evacuare a Chiba, vicino a Tokyo.

E’ frequente una sottovalutazione dell’incidente di Fukushima rispetto a quello di Chernobyl, La scala internazionale di valutazione degli incidenti nucleari e radiologici Ines (International Nuclear Event Scale) classifica avvenimenti rilevanti per la sicurezza negli impianti nucleari su una scala da 1 a 7. L’incidente di Chernobyl del 26 aprile 1986 è stato a lungo l’unico attribuito al livello 7, il più elevato. Ma anche l’incidente nella centrale nucleare di Fukushima-Daiichi dell’11 marzo 2011 è stato dalle autorità competenti recentemente attribuito al livello INES 7. Si impone quindi un confronto tra i due avvenimenti, mentre sorprende lo scarso clamore attribuito alla fusione del reattore giapponese.

Seppure la radioattività sparsa finora nell’isola di Honshū è pari solo al 10% di quella emessa da Chernobyl, si stima che nel lungo periodo possa superarla. L’incidente di Chernobyl fu esacerbato dal fatto che bruciò anche la grafite usata come moderatore nella fissione, provocando una diffusione delle particelle radioattive fino a migliaia di chilometri di distanza. A Fukushima invece non era impiegata la grafite, ma i problemi più minacciosi si sono rivelati con la diffusione di stronzio radioattivo nel raggio di 30 chilometri dal reattore, mentre a più lungo termine si teme una vasta contaminazione del Pacifico.

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Abbiamo trent’anni per diventare ‘carbon neutral’. Ma senza trucchi!

Il nuovo target europeo al 2030, 55% di riduzione delle emissioni climalteranti, comporterà un deciso innalzamento della produzione da rinnovabili. In Italia, la generazione “Next e Green” dovrebbe arrivare a soddisfare oltre due terzi dei consumi elettrici con energie rinnovabili entro soli 10 anni. Per quanto riguarda la potenza solare, a fine decennio dovremmo arrivare ad una settantina di GW (anziché i 52 previsti dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, Pniec) e per l’eolico ad almeno 5 GW in più rispetto a quelli indicati dallo stesso Piano.

Intanto, forte di una politica aziendale che impone ai governi le proprie scelte, l’Eni ha presentato il suo programma, che contempla che al 2025 il gruppo aumenti la sua produzione di idrocarburi, anche se sposterà il peso sul gas, che nel 2024 costituirà il 55% circa delle riserve, contro il 50% attuale.

Ovunque e in simile emergenza climatica si considererebbe questa una provocazione, ma l’insistenza sui fossili ci viene spacciata per un trend salutare. Infatti, afferma l’Ad Claudio Descalzi, “il metano (non dice idrogeno o pompaggi! nda) costituirà un importante sostegno alle fonti intermittenti nell’ambito della transizione energetica”, mentre nella strategia di medio periodo la produzione di gas raggiungerà quella petrolifera tra il 2030 e il 2040, per arrivare al 90% del totale al 2050). E la decarbonizzazione? A metano?

Si tenga conto che il preoccupante aumento della concentrazione in atmosfera di CH4, dovuto alle perdite per estrazione, distribuzione e usi finali, fa della forte metanizzazione degli ultimi decenni una componente importante del global warming, a causa dell’efficacia di questo gas nel produrre l’effetto serra, circa 10 volte maggiore di quella della CO2. E dove è finito allora il discorso di Mario Draghi in Parlamento? Va definita in modo molto più preciso la rotta che si intende seguire per la ripresa del Paese nei prossimi anni, guardando soprattutto ai giovani e all’Italia che loro riceveranno in consegna non nel 2050 ma nel 2030. Segnalando che il triennio 2021-2023 sarà cruciale per la realizzazione anche quantitativa degli obiettivi finali.

Una partenza lenta e un trend poco ambizioso nel breve termine farebbero fallire il conseguimento di ogni risultato. L’Italia parte da più in basso rispetto ad altri Paesi – 30 GW (solare più eolico) nel 2018 – eppure 70 GW nuovi da installare entro il 2030 sono alla portata del complesso industriale e produttivo italiano, tenendo conto anche dell’idrogeno verde da idrolizzatori da mettere a disposizione della rete. Ciò comporta disfarsi subito del Pniec con quel misero 33% di riduzione dei gas serra al 2030. Con l’attuale versione del piano sarebbe oltretutto impossibile riempire il 37% dei 209 miliardi destinati all’Italia nell’ambito Next Generation Eu con il Piano nazionale di ripresa e resilienza, espressamente intesi alla lotta contro i cambiamenti climatici e forieri di ricadute occupazionali rilevanti.

Vanno progettati nuovi processi e nuovi prodotti per realizzare un massiccio spostamento verso l’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili e dei consumi totali d’energia nei vari settori di impiego – trasporti, riscaldamento, industria, costruzioni – come non sarebbe mai possibile con la generazione elettrica da enormi impianti centralizzati, termoelettrici o nucleari.

Ma la resistenza di Eni e delle lobby del gas che agiscono a Bruxelles non va sottovalutata. Secondo una nuova ricerca pubblicata da Global Witness, una Ong internazionale, in meno di un decennio l’Unione europea ha speso 440 milioni di euro per gasdotti che non sono mai stati completati o rischiano di fallire. Soldi sperperati su vecchi asset ed entro scenari geopolitici in continuo mutamento. Ma i sussidi non riguardano solo il passato: sotto nuove e più camuffate forme riguardano il futuro e mettono in discussione il rapido passaggio alle rinnovabili e all’elettrificazione e all’idrogeno connaturati ad esse.

Infatti, sebbene il regolamento Ue per la prima volta escluda i gasdotti e gli oleodotti dal ricevere finanziamenti, lascia la porta aperta al finanziamento delle reti dell’idrogeno ottenute adattando l’infrastruttura del gas esistente. Ipotesi del tutto fantasiosa, se non per allungare la vita al gas metano. Più in dettaglio, mentre la Commissione europea propone di togliere la protezione del Trattato agli investimenti in carbone, petrolio e gas naturale, si prova ad inserire cervellotiche eccezioni: le condizioni del Trattato continuerebbero a essere applicate fino al 31 dicembre 2030 agli investimenti in centrali a gas che emettono meno di 380 grammi di CO2 per kWh (anche se il limite fissato da Bruxelles nella tassonomia per la finanza verde è molto più basso: 100 grammi di CO2/kWh).

E, nel caso in cui queste centrali a gas andassero a rimpiazzare impianti a carbone (vedi Civitavecchia), la protezione sarebbe estesa di altri 10 anni dopo l’entrata in vigore delle modifiche al Trattato, ma non oltre il 31 dicembre 2040! Capito allora perché gli Enti energetici si buttano a costruire centrali a metano nuove di pacca, anziché impianti di rinnovabili disponibili a costi largamente inferiori, ma non automaticamente fornitori di profitti garantiti da sussidi pubblici, capacity market e carbon tax quasi nulle?

Rimane comunque un problema: dato che una centrale a gas metano, per ottenere meno di 380 grammi di CO2 per kWh di produzione, dovrebbe avere un rendimento di almeno il 53% e dato che i gruppi turbogas a ciclo semplice non arrivano assolutamente a questo livello di efficienza – non sono cioè tecnicamente in grado di emettere meno di 380 grammi di CO2 per kWh di produzione – che altro trucco ci si inventerà anziché muoversi in fretta e bene verso le fonti rinnovabili?

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13 febbraio, intervista a Mario Agostinelli – Radio Onda d’urto di Brescia,

Qui di seguito il link a una intervista a Mario Agostinelli svolta il 13 febbraio su Radio Onda d’Urto di Brescia.

Si tratta di una intervista personale che parte dal disagio che la civiltà umana sta creando alla biosfera cioè a tutti i viventi e alla loro sopravvivenza, dalla laudato Sì’ e poi si estende a tutta l’esperienza anche politico-sindacale di questi anni.

Intervista a Mario Agostinelli, Radio Onda d’Urto

‘L’anticapitalismo imperfetto’, ovvero come ribellarsi davvero allo status quo

Ho appena terminato la lettura di un libro straordinario per lucidità, direi perfino per audacia in alcune sue considerazioni. Si tratta de L’Anticapitalismo imperfetto ed. Kaos, l’ultima opera di Giorgio Galli scomparso alla fine del terribile 2020, aggiornatissima sulla svolta che economia e società dovrebbero avviare anche tra le pieghe della seconda ondata del coronavirus.

Galli rileva una continuità col passato che non sembra incontrare ostacoli, anche perché, se i rapporti e i modi di produzione sono tenaci nel rifiutare ogni cambiamento, è pur vero che le forze di opposizione non sanno indicare alternative che risolvano i problemi dello sviluppo. Contrastando programmaticamente e con un disegno coerente l’ingiustizia sociale e climatica dai territori in cui ciascuno vive, ci si potrebbe contrapporre al “mainstream”, che sembra accettare ogni prospettiva che rientri nella massimizzazione dei profitti aziendali, nella depredazione della natura e nello sfruttamento del lavoro. Se non c’è ribellione allo “status quo”, si condannano le nuove generazioni ad un futuro non desiderabile.

Nel far mie queste considerazioni, mi sono venuti alla mente due eventi attualissimi – vaccini e speculazioni di borsa – che il libro sembra preannunciare e che si riconducono – alla fine – all’oligocrazia delle multinazionali, che nemmeno l’anticapitalismo, proprio perché imperfetto, mette realisticamente in conto.

1. Mentre si celebra l’eccezionale performance della scienza che, grazie alle risorse pubbliche e alla cooperazione globale di tecnologie, metodi di indagine, potenza di calcolo e velocità di comunicazione, arriva a successi imprevisti, si scopre che sono ancora il mercato e il Pil – come ha richiesto impudentemente la Moratti – che regolano l’accesso e la distribuzione del vaccino per l’immunità di gregge. Veniamo a sapere che, nella migliore delle ipotesi, a fine 2021 sarà vaccinato il 50% della popolazione dei paesi del G7 e meno del 20% della popolazione mondiale.

Giorgio Galli, nella sua critica al capitalismo e a proposito dei moderni stermini messi in conto come inevitabili, propone che sia la mano pubblica, che si è impegnata nella ricerca e nello sviluppo, a dover garantire un accesso universale al rimedio. Altrimenti è come “se ci fosse una guerra” non dichiarata e come se un sentimento tutt’altro che nascosto dia per scontato che non c’è posto per tutti sul Pianeta.

Proprio nel libro citato, c’è un dato inquietante desunto in piena pandemia dai valori quotati a Wall Street delle azioni Big Tech: nel maggio 2015, un’azione di Amazon valeva meno di 500 dollari. Nell’estate del 2020 ne vale 2.400. Col ceo Jeff Bezos, Amazon ha un valore di borsa di 1.180 miliardi di euro. Le altre quattro “sorelle” non sono da meno: Microsoft (ceo Satya Nadella) vale 1.360 miliardi; Apple (ceo Tim Cook) 1.330; Google (ceo Sundar Pichai) 769; Facebook (ceo Mark Zuckerberg) 584 miliardi. Intanto, il 21 marzo 2020, la Banca centrale europea annunciava che sarebbero stati stanziati i primi 175 miliardi di euro per sorreggere le 27 economie del continente, messe in grave difficoltà dalla paralisi provocata dal corona virus. E il “pacchetto”, neanche un terzo della minore delle corporation informatiche statunitensi, è parso a tutti una disponibilità eccezionale, seguita poi dalla novità del Next Generation Eu con una dotazione di 750 miliardi.

Ebbene: in pieno crollo dell’economia e dei Pil in discesa a due cifre, non più di cento multinazionali dispongono di una enorme liquidità immediatamente utilizzabile e di linee di credito privilegiate e facilmente accessibili (di fatto, capitali finanziari diretti) che sovrastano le risorse finanziarie di un continente altamente sviluppato e sconvolto dalla pandemia. Ma, allora, chi sta effettivamente governando l’economia globale perché mai dovrebbe farsi guidare verso una riconversione ecologica e orientata alla cura, ai fini di combattere e debellare virus e disastri climatici? C’è un’istanza democratica dove porre un cambio di passo nell’interesse della comunità mondiale e non delle imprese?

Se Pfizer, Moderna e le altre aziende farmaceutiche dovessero rispondere agli interessi e ai diritti universali dovrebbero aumentare la capacità produttiva con un ritorno a breve ridotto e i profitti inferiori a quelli che otterranno ai ritmi attuali. Siamo al paradosso che la salute, se non la vita o la morte dei più poveri, non sono allineati con la massimizzazione dei guadagni delle multinazionali e – perciò! – con la necessità pubblica di metter fine alla pandemia. Il “nazionalismo delle multinazionali” (un ossimoro) chiude i circuiti più convenienti finanziariamente con la stipula di accordi nazionali finalizzati al massimo profitto, mettendo fuori gioco, anche per ragioni geopolitiche, concorrenti come chi produce vaccini in Cina, Russia, Cuba e, in un domani, India.

In L’anticapitalismo imperfetto si descrive una autentica esplosione e una contraddizione del mondo moderno, a cui gli anticapitalisti di ogni provenienza prestano ancora scarsa attenzione. La carenza e la precarietà del lavoro, la crisi ecologica, la digitalizzazione che pervade ogni ambiente e anche l’approccio alla realtà non più deterministico e riduzionista delle scienze moderne, obbligano a considerare le condizioni di lavoro, le relazioni sociali e quella che ci appare come la realtà del pianeta vivente in maniera ben diversa da quella che ci è stata tramandata. Occorre una reinterpretazione, occorrono nuovi linguaggi. Galli teme che anche a fronte di tanta trasformazione, siano le multinazionali e il potere economico da esse definito a impossessarsi delle chiavi del cambiamento che si impone.

2. Qualche segnale di novità compare anche fin dentro le cattedrali della finanza. Così ho riletto la vicenda recentissima di GameStop finita al centro di una battaglia planetaria come un episodio di ribellione previsto e nel libro certamente auspicato.

La società americana in crisi sta vendendo 450 dei suoi negozi di videogiochi a nuovi investitori che la vorrebbero rilanciare come piattaforma di e-commerce. Da tempo, folle di piccoli investitori cercano titoli sottovalutati, senza pagare commissioni, per provocare un aumento delle quotazioni attraverso acquisti massicci e coordinati. A gennaio 2021, col valore del titolo GameStop che si è moltiplicato di 17 volte, hanno perso gli hedge fund che si son visti sfumare 91 miliardi di dollari perché non hanno valutato bene ciò che stava accadendo nel trading online, mentre è andata bene a una generazione ribelle di investitori.

Quel che è interessante è che la rivolta a Wall Street si è fatta politica, dal momento che entra in gioco anche chi vuole demolire le vecchie istituzioni, comprese quelle finanziarie, pensando di far leva su meccanismi di collaborazione digitale che consentono di lanciare attacchi improvvisi e massicci dei quali la finanza tradizionale fatica a capire la natura. Milioni di risparmiatori Usa e precari senza lavoro usano già le tecniche della finanza per attaccarla. Si potrebbe definire un tentativo di “democratizzare la finanza”.

Al di là dell’esito di una partita ancora confusa e apertissima, richiamo la conclusione cui giunge il libro da cui ho tratto queste considerazioni: “Il demo, per evitare il governo oligarchico dei custodi, deve poter votare, con l’estensione del suffragio universale, per scegliere chi comanda davvero. Così l’anticapitalismo potrà essere meno imperfetto. anche per opporsi ad una involuzione autoritaria della stessa democrazia rappresentativa. Perché non evocare l’idea dell’elezione a suffragio universale di una quota consistente dei vertici delle multinazionali? Risulta evidente – conclude Galli – come non si tratti del destino del capitalismo, ma dell’ampliamento della democrazia rappresentativa”.

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