Da Il Manifesto, 20 marzo 2011
I “ripensamenti” del Governo in materia nucleare vanno valutati sulla base della confidenza carpita alla Prestigiacomo a Montecitorio: un escamotage per prendere tempo e svuotare i referendum che, al punto in cui siamo, potrebbero essere fatali per una coalizione sempre più distante dagli elettori. Bisogna essere molto lucidi e non cedere ad una tattica che potrebbe rimuovere la questione di fondo dell’insostenibilità ambientale, sociale ed economica dell’energia atomica in sè, per ripiegare sulle soluzioni tecniche che esorcizzerebbero scenari catastrofici. La linea su cui si attesterà il fronte della difesa ad oltranza del nucleare è quella già esposta dai “pentiti”: ammettere l’inaffidabilità dei “vecchi” impianti tutt’ora in funzione per rimarcare di converso l’assoluta attendibilità di “nuovi” reattori, che differiscono dai primi per una illusoria ridondanza di dispositivi di sicurezza. L’incidente verrebbe così in pratica esorcizzato, “seppellito” sotto una coltre di costosissimi marchingegni precauzionali. Il problema in discussione non sarebbe quindi più quello dell’intrinseca impossibilità di eliminare effetti incommensurabili – come è purtroppo di nuovo sotto gli occhi di tutti in Giappone -, ma quello dell’approntamento di apparati tecnologici sempre più imponenti e sofisticati, in un inseguimento del “rischio zero” così illusorio da non avere mai fine. Una chimera così oggettivamente irraggiungibile da diventare obiettivo più della sfera della comunicazione persuasiva che di quella scientifica. Quindi, roba da ingegneri e da supertecnici schierati, sostenuti da fini comunicatori, che, con un aggiornato “latinorum”, si affannano a illustrare schemi complessi e ostici per il grande pubblico e a denunciare la mancanza del quarto o quinto circuito di raffreddamento, che avrebbe sicuramente salvato Fukushima e che sarà ovviamente presente negli impianti da costruire in futuro. Quindi, se prima la colpa era degli screditati reattori sovietici a grafite, adesso sotto accusa sono i BWR giapponesi ad acqua bollente, dimenticando che una centrale di quel tipo a Caorso è stata chiusa solo grazie ai cittadini che hanno votato al referendum dell’87 “sull’onda dell’emozione”. A parte il bizzarro e incredibile Veronesi che si dà una pausa di riflessione, il Romani che ha sostituito da par suo l’astro rinascente Scajola, i Vespa e i Testa in tempi più tranquilli accamperanno la “sicurezza totale”, rappresentata dagli EPR ormai invendibili di Areva, arricchiti di qualche orpello in più.
Stante così le cose, meglio andare al cuore del problema: un reattore a fissione funzionante è comunque in termini energetici un incidente latente “moderato e controllato”. Contenuto e tenuto a bada da barre, circuiti di raffreddamento, contenitori a tenuta stagna, complessi sistemi software, fintantoché non se ne scopre l’insostenibile contenuto termico e radiante, a seguito di qualche malfunzionamento dovuto all’ambiente reale di cui l’impianto è entrato a far parte. Un contesto vero e non sulla carta, fatto di eventi e catastrofi naturali, di errori umani, di inaffidabilità gestionale e tecnica connaturati alla vita quotidiana. In realtà, la terrificante densità energetica delle trasformazioni atomiche controllate (la fissione di un grammo di uranio corrisponde alla combustione di 2 tonnellate di carbone), è incompatibile con la capacità e la velocità di smaltimento della biosfera che ci circonda e alimenta: al punto che quando la “macchina” si rompe, gli effetti si propagano nello spazio e nel tempo ben oltre i limiti della nostra esperienza. La scelta di abbandono del nucleare non è quindi roba da ingegneri, ma riflessione alla portata di qualsiasi persona responsabile ed è per questo che il referendum, – non qualche emendamento dell’ultima ora! – diventa anche questa volta decisivo.
Se già per petrolio gas e carbone la combustione – fenomeno estraneo ai processi vitali – sprigiona un contenuto energetico che attraverso le modifiche climatiche minaccia alla lunga la nostra sopravvivenza, figuratevi quali ferite possa subire l’ambiente naturale dai processi radioattivi, che sono di molti ordini di grandezza superiori. Non a caso le emissioni intorno ai reattori e le scorie atomiche intaccano nel profondo i tessuti cellulari e decadono con tempi di migliaia di anni. Quando poi si perde il controllo e si verifica un incendio o una parziale fusione del nocciolo – come è probabilmente in corso a Fukushima e come è avvenuto a Chernobyl – si ha una catastrofe perchè viene riversato al presente e nello spazio limitrofo (quindi dentro la nostra esperienza) un carico distruttivo che verrebbe comunque trasmesso alle future generazioni, attraverso scorie letali che viaggeranno per il mondo e che nessuno sa ancora come neutralizzare.
C’è in sostanza un contrasto insanabile nel tempo tra nucleare e vita. Credo che dopo Chernobyl, dopo l’esplosione della piattaforma nel Golfo del Messico e dopo Fukushima la svolta nella coscienza delle persone sia già in corso: basta tradurla anche politicamente e fare della consultazione popolare su acqua e nucleare una scadenza su cui convergano tutti gli sforzi. Al contrario dell’87, quando l’alternativa prospettata all’uranio era il gas, una fonte che implicava ancora il mantenimento di un modello energetico centralizzato, oggi l’alternativa delle rinnovabili apre lo spazio ad un sistema energetico diffuso, integrato nei cicli della vita, governabile democraticamente sul territorio. Si tratta di una alternativa radicale, che propone un cambio nella scala dei tempi, una riconquista di una dimensione non distruttiva del nostro rapporto con la natura e che favorisce la ricerca di produzioni socialmente desiderabili, la creazione di occupazione e lavoro stabili, in riequilibrio finalmente con l’eccesso di schiavi meccanici forniti dai fossili e dal nucleare ad un carissimo prezzo.
Mario Agostinelli