Notizie sparse (alcune curiose e inaspettate) sulla minaccia climatica

All’inizio di gennaio l’alta atmosfera sopra l’Artico si è riscaldata improvvisamente, il che accade circa sei volte in un decennio. Quel riscaldamento ha gradualmente indebolito la corrente a getto sottostante, provocando la fuoriuscita di aria gelida in tutto il Nord America. Il Texas si congelò e ne seguì la tragedia. Alcune prove indicano un legame tra il rapido riscaldamento dell’Artico e le ondate di freddo a sud, ma non tutti sono d’accordo, ed è diventato un po ‘una situazione di stallo. Due cose sono certe: l’inverno è la stagione con il riscaldamento più rapido e il Texas ne ha avvertito le conseguenze.

Gli scienziati sono molto più chiari sul ruolo dell’umanità in eventi meteorologici estremi più comuni. Circa 40.000 persone hanno evacuato le loro case nel Nuovo Galles del Sud a marzo dopo piogge bibliche. Gli aspetti del clima australiano rendono più complicata l’analisi dell’influenza del clima di qualsiasi evento di precipitazione, ma un nuovo lavoro afferma che più gas serra significa più calore, un’atmosfera più umida e precipitazioni più estreme. Non si tratta solo di più o meno precipitazioni: i tempi delle stagioni stanno cambiando quasi ovunque, con la stagione delle piogge della California che ora inizia un mese dopo rispetto a 60 anni fa.

Il riscaldamento globale ha anche rallentato la Corrente del Golfo, il vasto sistema di circolazione atlantica che influenza direttamente il clima in Africa, nelle Americhe e in Europa, al suo livello più basso in 1.000 anni. Questa decelerazione è uno sviluppo a lungo previsto e da tempo temuto, e gli scienziati affermano che una migliore comprensione di esso “è urgentemente necessaria”.

Mantenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5 ° C sembra un’idea sempre migliore, anche se diventa sempre più difficile da ottenere. Con il calore arriva più umidità, una potente combinazione che può spingere un corpo umano al suo punto di rottura. Fermare il cambiamento climatico al di sotto dei 2 ° C ridurrebbe drasticamente il rischio per le persone ai tropici di condizioni che spingono il corpo oltre “il limite di sopravvivenza”.

Un quarto dell’inquinamento di CO₂ che emettiamo ogni anno si riversa nell’oceano e una parte cade a terra come sedimento, dove rimane al sicuro lontano dall’atmosfera per millenni. Tranne quando i pescherecci da traino industriali percorrono oltre l’1,3% del fondo oceanico ogni anno, rilasciando fino al 20% della CO₂ atmosferica che gli oceani assorbono ogni anno. 

C ‘è tuttavia una buona notizia: secondo un nuovo studio, la creazione di aree marine protette contribuirebbe a contenere questo carbonio, migliorando nel contempo sia la pesca che la vita marina. Gli autori fanno parte della Oregon State University, che da allora ha assunto la posizione di consigliere di scienza del clima di più alto rango della Casa Bianca.

Come i sedimenti marini, il suolo è un posto fantastico per nascondere il carbonio dall’atmosfera. Dovrebbe comportarsi come un amplificatore: le piante assorbono CO₂ e quando perdono foglie o muoiono, il carbonio immagazzinato diventa parte del suolo. Questo processo è ora messo in discussione dalla ricerca che suggerisce che quando le piante assorbono i nutrienti del suolo, i microbi si svegliano e si nutrono, con il loro metabolismo che rilascia nell’atmosfera la CO₂ immagazzinata. Più piante crescono, meno il suolo assorbe. La scoperta potrebbe richiedere modifiche a modelli importanti.

C’è uno svantaggio nell’inizio della primavera e nel tardo inverno: più tempo per le piante per eliminare gli allergeni. La stagione delle allergie è di 20 giorni più lunga di quanto non fosse in Nord America, con concentrazioni di polline che crescono del 21%. Nel frattempo, dall’altra parte dell’oceano, gli scienziati che cercano di fornire agli europei strumenti migliori per prepararsi alle allergie hanno scoperto che la gravità stagionale potrebbe aumentare di un ulteriore 60% nei decenni a venire. 

In qualche modo ci sono ancora buone notizie: l’adozione di energie rinnovabili e veicoli elettrici, l’introspezione dell’industria petrolifera, persino pesche più dolci (lo stress da siccità aumenta la produzione di zucchero). Con uno sforzo prolungato, potremmo vedere migliorare le misure più importanti della salute planetaria. Le emissioni globali di CO₂ dall’energia sono aumentate dello 0,9% all’anno dal 2010-18, meno di un terzo della crescita annuale nel decennio precedente. L’anno della pandemia ha abbattuto le emissioni annuali di CO₂ di un 7% storico, ma i motori economici sono ripartiti e le emissioni di dicembre 2020 erano già più alte dello stesso mese del 2019. Si aggiunge: lo scorso anno il 2016 è stato considerato l’anno più caldo mai registrato, e i sette anni più caldi negli ultimi 141 si sono verificati tutti dal 2014.

Dal Tirreno all’Adriatico: la democrazia del metano

Extraterreste Mario Agostinelli, Alfiero Grandi, Aprile 2021

Seguiamo da tempo la vicenda di Civitavecchia dove l’intera città in tutte le sue articolazioni chiede che la transizione energetica nel suo territorio non passi dal carbone al gas e lo pretende dopo aver costruito in confronti con esperti e ricercatori un progetto alternativo, con eolico e piattaforme fotovoltaiche galleggianti off-shore del tutto analogo a quello che Saipem ha annunciato di realizzare a Ravenna. Ora ci si dovrebbe domandare: perché le istituzioni interessate e coinvolte, dalla Regione al Governo – se si esclude il Consiglio Comunale e il Sindaco della città laziale – tacciono in modo inquietante sulla sponda del Tirreno, mentre su quella adriatica i permessi per impianto eolico e fotovoltaico da 620 MW sono calendarizzati e a portata di approvazione? 

Una richiesta ufficiale inviata da oltre un mese dal Sindaco di Civitavecchia al Ministro Giovannini per tracciare il corridoio marino su cui collocare le pale eoliche sostitutive dell’impianto a metano non ha avuto ancora risposta. Due pesi e due misure?

Siamo ben lieti che l’intuizione di Saipem – che tra l’altro ha già partecipato a grandi installazioni nel mare del Nord – sia in piena sintonia con la politica energetica UE, anche se l’entusiasmo è moderato dalla caparbietà con cui l’ENI insiste per produrre idrogeno blu con l’uso di energia prodotta da turbogas, sempre nel ravennate, a poca distanza.

Crediamo che la contraddizione trovi una spiegazione che ha a che fare con un certo dispregio della democrazia dal basso e che il tentativo di imporre soluzioni dall’alto stia tutta all’interno di decisioni e convenienze economiche delle imprese, anche quando si hanno conseguenze negative sull’ambiente e sulla salute e precludendo nuova occupazione in maggiore armonia con la natura. La differenza tra Civitavecchia e Ravenna, in buona sostanza, sta nel fatto che nel Lazio viene contestata dagli abitanti la decisione aziendale dell’ENEL di bruciare metano al posto del carbone, celiando sulla neutralità climatica al 2050, mentre in Romagna la decisione viene presa direttamente sulla base delle convenienze e delle future strategie di mercato di Saipem, che, oltre che a rafforzare posizioni acquisite nell’eolico all’estero è tenuta a riconvertire le piattaforme marine adriatiche ormai insostenibili. Magari con la pretesa di attenuare lo scandalo di produrre idrogeno ad opera della sua consociata a pochi KM di distanza.

Quindi a prevalere è alla fine la visione dell’azienda, sia quando fa una scelta condivisibile che quando ne fa una sbagliata: noi pensiamo che occorre introdurre il terzo incomodo e cioè il punto di vista dell’interesse generale delle popolazioni e i vincoli dell’Europa. 

Im un frangente così straordinario si dovrebbe aprire un dibattito autentico sulla dimensione nazionale di questi grandi cambiamenti, per far crescere il Paese sul tema della riconversione ecologica, rifiutando la tesi che sia materia soltanto da specialisti, quasi sempre dettata da estensori assunti nelle imprese energetiche e rivista dai loro consulenti, con l’unico obiettivo di salvaguardare l’atteggiamento conservatore di troppe aziende. Sull’energia sta avvenendo qualcosa di simile alla privatizzazione dell’acqua, che procede in sordina. Qual è la posizione del governo? Contraddire l’esito del referendum per favorire il ruolo “di mercato” che la partecipazione pubblico-privato affermerebbe definitivamente con il sostegno finanziario dei PNNR?

Avremmo molte motivazioni, confermate da prestigiosi studi internazionali sia in campo economico che scientifico per confutare la scelta ENEL (appoggiata da ENI) su Civitavecchia. L’abbiamo già fatto in molte occasioni e rimandiamo ad esse, ma, soprattutto, vorremmo si tenesse conto della risorsa politica e democratica rappresentata dalle posizioni espresse dalle forze politiche locali e dalla società civile, dai comitati, dai Sindacati, dalle Associazioni degli artigiani e dei commercianti. 

Occorre riconoscere che si pone una questione di primordine in una fase storica straordinaria e drammatica, in cui l’emergenza si affronta se si è consapevoli che non si tratta di scegliere tra passato e futuro ma tra futuri diversi, più o meno fecondi di speranze a seconda che queste vengano partecipate e corroborate da autentica sapienza popolare. L’ENEL ha già misurato a Civitavecchia la reazione di cittadini, lavoratori e loro rappresentanze ai diktat che Tamburi ha trasmesso attraverso la pagina locale del Messaggero.

I bilanci in espansione degli enti energetici non bastano più a convincere. Ne va del futuro di generazioni e il prezzo pagato è quello di territori sottomessi e passivi, anche sul piano della ricerca, della conoscenza diffusa, dell’informazione elaborata in comune. Sotto questo profilo, preoccupano le dichiarazioni del ministro Cingolani dopo l’incontro con Symbola dell’8 Aprile. “E’ ovvio – afferma – che abbiamo un obiettivo di decarbonizzazione al 2050, e di parziale decarbonizzazione al 2030 e che dobbiamo fare il possibile per eliminare i combustibili fossili. Il Gas sarà l’ultimo a sparire perché ci consentirà di portare avanti la transizione”. In queste dichiarazioni non c’è il minimo allure della novità ecosostenibile e del ruolo di traino che dovrebbe esercitare il PNRR come ci si aspettava dal nuovo Ministro. 

In rete girano centinaia di osservazioni sul PNRR, ma non sembrano approdare ai piani alti separati, dove si parla di “robotica e fusione”, ma intanto si mantiene viva la penetrazione del gas nel nostro tessuto produttivo e manifatturiero, a discapito di una politica industriale che gareggi con Germania e Francia nella ricerca, nell’innovazione e nell’occupazione di qualità, a partire dal Mezzogiorno.

Laudato Sì, CDC e Nostra, tre associazioni di diversa ispirazione, hanno deciso in un dibattito aperto di affrontare i nodi della ecologia integrale sotto il profilo della democrazia, della giustizia sociale e dell’abbandono dei fossili: lo faranno in un webinar il 17 aprile per imprimere ai PNNR la direzione di svolta finora per nulla evidente.

Mario Agostinelli, Alfiero Grandi 

Una transizione ecologica integrale non ha alternative

di Mario Agostinelli e Alfiero Grandi

La prima presentazione del Pnrr italiano fatta dal governo Conte 2 si era sostanzialmente arenata su tre aspetti.

Primo, l’uso di parte consistente dei fondi (oltre un terzo) per interventi che avrebbero sostituito finanziamenti già previsti in precedenza dal bilancio dello Stato, diminuendo così l’impatto per il rilancio occupazionale, sociale ed economico degli interventi straordinari previsti dal Next Generation Eu della Commissione Europea.

Secondo, una gestione farraginosa, con la previsione del coinvolgimento di centinaia di tecnici, con decisioni sull’uso delle risorse in gran parte esterna alle sedi politiche naturali e cioè Governo, Regioni, Comuni. Una sorta di circolazione istituzionale extracorporea e questo ovviamente non garantiva la necessaria trasparenza delle decisioni di spesa.

Terzo, la raccolta di progetti già pronti di grandi aziende che pensavano di avere trovato finalmente la fonte per finanziare progetti di vario tipo, alcuni probabilmente utili, altri discutibili e forse negativi soprattutto per le conseguenze ambientali.

E’ evidente che se raccogli i progetti esistenti, anche selezionandoli, è difficile dare una forza politica ed economica alle scelte pubbliche. Mentre occorreva partire dai 6 capitoli e in particolare dalla transizione ambientale che è certamente il capitolo che più di ogni altro può aiutare a rendere compatibile lo sviluppo con l’ambiente, a innovare tecnologie e settori produttivi, a qualificare ed estendere una nuova occupazione di qualità.

Draghi nel discorso alle Camere è sembrato consapevole dell’esigenza di mettere l’accento sulle novità, a partire dal 37% delle risorse destinato all’Italia per la transizione ecologica. Nessuna delega in bianco. Il Governo va sfidato ad essere coerente e in particolare ad esserlo i Ministri che sono preposti ad organizzare le scelte. Per ora non siamo al caro amico ma nemmeno al merito delle scelte, eppure i Ministeri stanno lavorando e a fine aprile Draghi riferirà in parlamento sulle scelte definitive che il governo proporrà alla Commissione Europea.

Per questo il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Laudato Sii, NOstra hanno elaborato un documento che verrà presentato il 17 aprile in videoconferenza, già disponibile sui siti delle associazioni, che vuole contribuire a scegliere con nettezza. A proporre un’idea di futuro.
Se le aspettative sui risultati del piano straordinario debbono rimettere in moto l’occupazione e l’economia dell’Italia – e debbono farlo con una forte impronta innovativa sull’ambiente, sulla ricerca, sull’innovazione – le scelte non possono che essere coraggiose e nette. E’ un’occasione unica.

Cambiare e dare ragione a tutti è impossibile, occorrono dei Sì e dei No chiari e netti. Ad esempio raggiungere gli obiettivi di cessazione dell’uso del carbone e dei combustibili fossili ha bisogno di tempo, ma proprio per questo richiede di partire subito, di scegliere con coraggio ed impegno le fonti energetiche alternative. I tempi sono definiti, ad esempio entro il 2025 il carbone deve cessare di essere utilizzato, ma non è saggio proporre di continuare sotto altre forme l’uso dei combustibili fossili, come il gas per produrre energia elettrica: finiremmo con l’entrare in contraddizione con gli obiettivi europei.

Sono già disponibili modalità di produzione energetica rinnovabile, combinata dall’estensione dell’uso delle rinnovabili disponibili, compreso l’eolico offshore, con sistemi di accumulazione e produzione di idrogeno da fonti rinnovabili. Certo anche la rete fondata su grandi impianti va ripensata per consentire di usufruire di una produzione diffusa nel territorio, anche incentivando l’autoconsumo.

Le dichiarazioni che stanno facendo esponenti importanti di aziende, anche a partecipazione pubblica, puntano a rinviare le scelte nel tempo, sembrano non rendersi conto che questo non solo avrebbe conseguenze sul clima, che continuerebbe nel frattempo a peggiorare, ma creerebbe un nodo irrisolvibile rinviando le scadenze previste per evitare il superamento dei limiti che possono contenere il cambiamento del clima. Colpiscono le parole di Giunti di Enipower, che ha dichiarato che per decarbonizzare (come se avessimo la possibilità di non farlo) occorrono idrogeno, cattura del CO2 e fusione nucleare: con questo schema non rispetteremo i vincoli, neppure al 2050.

Infatti prendendo la palla al balzo l’Associazione italiana per il nucleare propone il nucleare da fissione come premessa da usare per arrivare (un giorno, forse) a quello da fusione. In altre parole è in corso un attacco sistematico per farsi dare i soldi del Pnrr senza cambiare la sostanza di quanto fatto sin qui e mantenendo pressoché invariate le scelte. Quindi non solo ci sono resistenze a togliere benefici incompatibili con l’ambiente, contraddittori con il finanziamento di un cambio di paradigma, ma si tenta anche di mantenere in vita fino al limite di rottura le scelte previste.

Anche in Europa in verità qualcosa non va. Il nucleare gode di un forte rilancio da parte di un gruppo di paesi, Francia in testa, per ottenere l’equiparazione del nucleare da fissione con le rinnovabili (per avere i quattrini) e candidarlo ad essere la fonte energetica per produrre idrogeno. E’ quanto di più vecchio si possa immaginare, ma è grave che il centro studi che lavora per la Commissione Europea abbia proposto di considerare il nucleare alla stregua del fotovoltaico e la stessa descrizione dei depositi di scorie come sicuri serve solo – mentendo – a giustificare la scelta del nucleare da fissione.

L’Italia deve farsi sentire e bloccare questa deriva europea, non basta che ci sia il diritto per i singoli paesi a non investire nel nucleare da fissione, ci mancherebbe altro. Occorre impedire alla Commissione di scivolare sul nucleare e a quanto pare anche sugli Ogm. Occorre che entrino in campo con forza le rappresentanze dei lavoratori. Questo scontro, per ora attutito da tecnicismi velati, ha bisogno dei sindacati e dei lavoratori che rappresentano.

In un futuro di scelte ambientali radicali ci sono spazi enormi per la ricerca, per investimenti innovativi, per la crescita di occupazione di qualità, in grado di compensare la caduta in altri settori. In passato troppe volte gli interessi dei lavoratori sono sembrati in contrasto con l’ambiente e le conseguenze sono state drammatiche per la vita delle popolazioni e per i lavoratori interessati, costretti in una ridotta difensiva, a volte perfino corporativa. La ferita dell’Ilva, che non ha salvato né il lavoro né l’ambiente, è ancora aperta, non è risolta e deve essere un impegno prioritario.

Oggi una piattaforma netta può consentire di realizzare una nuova alleanza tra lavoro ed ambiente, in cui le condizioni di vita, la salute siano coerenti con una nuova prospettiva occupazionale. Studi hanno dimostrato che un altro futuro non è solo necessario ma possibile, anzi indispensabile. Già in passato il mondo del lavoro ha portato avanti obiettivi generali, basta pensare al sistema sanitario nazionale e di welfare. Oggi c’è una nuova fase e una nuova possibilità, per certi versi un obbligo, che è sperabile sia compresa e raccolta per evitare che il nodo degli interessi e delle rendite di posizione che vogliono conservare la situazione esistente prevalga.

Per questo il modo migliore di mettere alla prova le vere intenzioni del nuovo governo è entrare in campo, avanzare proposte, sviluppare iniziative. Per questo le associazioni hanno scritto un documento con proposte nette, forse radicali, con l’obiettivo di discuterle, di aiutare la creazione di movimenti e risposte all’altezza della sfida.

Parafrasando, si potrebbe dire che la transizione ecologica è un compito troppo importante per lasciarlo al solo governo, meglio “accompagnarlo” e per maggiore sicurezza meglio prendere le iniziative necessarie.

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Fukushima, dieci anni dopo si rischia di superare i danni di Chernobyl

In occasione dell’anniversario del disastro nucleare di Fukushima, Greenpeace Giappone ha ripreso un’indagine nella quale accusava il governo giapponese di aver violato i diritti umani dei cittadini e in particolare di lavoratori e bambini. Purtroppo, quella che viene considerata la più complessa crisi nucleare dopo Chernobyl (1986) non cessa di allarmare. Stando alle ultime stime, ancora oggi i livelli di radiazione, sia nelle zone di esclusione che nelle aree aperte, sarebbero altissimi, da 5 a oltre 100 volte più alti del limite massimo raccomandato. Ma non solo: questi livelli rimarranno tali ancora per decenni. La catastrofe è nota: i tre noccioli del reattore si fusero, liberando gas di idrogeno e rilasciando nell’ambiente grandi quantità di materiale radioattivo.

I valori di radioattività ancor oggi rilevati sarebbero così alti che se un lavoratore lavorasse lì per otto ore al giorno durante un intero anno, potrebbe ricevere una dose equivalente a più di cento radiografie del torace.

Lo sfruttamento dei lavoratori è molto diffuso, compreso il reclutamento di persone svantaggiate e senzatetto, che non hanno alcuna formazione in materia di radioprotezione. Ci sarebbero enormi accumuli di materiale radioattivo, in particolare il cesio, intrappolati nelle sabbie e nelle acque sotterranee fino a 96 chilometri circa di distanza dalle coste giapponesi. Per di più, grandi pozze di acqua contaminata per l’effetto collaterale della misura di emergenza di versare enormi quantità di acqua nei reattori e nelle loro piscine di combustibile nucleare esaurito per raffreddarli, sono penetrate nell’Oceano Pacifico.

Usa news e Nature del 19 febbraio informano che i livelli dell’acqua di raffreddamento sono diminuiti in due reattori della centrale nucleare distrutta, da quando un potente terremoto ha colpito l’area lo scorso fine settimana, indicando possibili danni aggiuntivi. Si teme che dal Giappone si possa scaricare un milione di tonnellate di acqua radioattiva nell’Oceano Pacifico. Nuovi danni, quindi, potrebbero complicare ulteriormente il già difficile processo di disattivazione dell’impianto, che dovrebbe richiedere decenni.

Il portavoce della Tokyo Electric Power Co. Keisuke Matsuo ha detto che il calo del livello dell’acqua nei reattori delle Unità 1 e 3 indica che i danni esistenti alle loro camere di contenimento primarie sono stati aggravati dal terremoto di magnitudo 7.3, che, oltre ad aver innescato frane, danneggiato case e una linea ferroviaria ad alta velocità, ha permesso la fuoriuscita di più acqua, che La Tepco dovrà monitorare sul fondo dei vasi di contenimento, seguendone l’aumento eventuale di temperatura.

Dal disastro del 2011, l’acqua di raffreddamento è costantemente fuoriuscita dai vasi di contenimento primari danneggiati negli scantinati degli edifici del reattore. Per compensare la perdita, è stata pompata ulteriore acqua nei reattori per raffreddare il combustibile fuso rimanente al loro interno. Il recente calo dei livelli dell’acqua indica che sta fuoriuscendo più acqua di prima.

L’aumento delle perdite potrebbe richiedere il pompaggio di ulteriore acqua di raffreddamento nei reattori, il che si tradurrebbe in più acqua contaminata che viene trattata e immagazzinata in enormi serbatoi presso l’impianto. L’intenzione di rilasciarla gradualmente in mare ha incontrato una feroce opposizione da parte dei residenti locali.

Nel frattempo, l’Alta Corte di Tokyo ha ritenuto il governo e la Tepco responsabili del disastro nucleare del 2011, ordinando a entrambi di pagare circa 280 milioni di yen (2,6 milioni di dollari) a titolo di risarcimento per i loro mezzi di sussistenza e le case perdute a più di 40 querelanti costretti a evacuare a Chiba, vicino a Tokyo.

E’ frequente una sottovalutazione dell’incidente di Fukushima rispetto a quello di Chernobyl, La scala internazionale di valutazione degli incidenti nucleari e radiologici Ines (International Nuclear Event Scale) classifica avvenimenti rilevanti per la sicurezza negli impianti nucleari su una scala da 1 a 7. L’incidente di Chernobyl del 26 aprile 1986 è stato a lungo l’unico attribuito al livello 7, il più elevato. Ma anche l’incidente nella centrale nucleare di Fukushima-Daiichi dell’11 marzo 2011 è stato dalle autorità competenti recentemente attribuito al livello INES 7. Si impone quindi un confronto tra i due avvenimenti, mentre sorprende lo scarso clamore attribuito alla fusione del reattore giapponese.

Seppure la radioattività sparsa finora nell’isola di Honshū è pari solo al 10% di quella emessa da Chernobyl, si stima che nel lungo periodo possa superarla. L’incidente di Chernobyl fu esacerbato dal fatto che bruciò anche la grafite usata come moderatore nella fissione, provocando una diffusione delle particelle radioattive fino a migliaia di chilometri di distanza. A Fukushima invece non era impiegata la grafite, ma i problemi più minacciosi si sono rivelati con la diffusione di stronzio radioattivo nel raggio di 30 chilometri dal reattore, mentre a più lungo termine si teme una vasta contaminazione del Pacifico.

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