Intervista Mario Agostinelli a Vatican News

 VATICAN NEWS

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-06/caldo-record-in-canada-g20-neutralita-climatica-entro-2050.html

Agostinelli (Associazione Laudato Sì): poveri più colpiti dai cambiamenti climatici

“Il Papa lo dice chiaramente nell’Enciclica Laudato sì , questi cambiamenti non riguardano solo l’uomo ma tutta la biosfera, al punto tale da mettere in discussione la vita; non si pensa che una variazione di due gradi può essere letale e i luoghi dove si abbatte maggiormente questo fenomeno sono quelli affollati di poveri”, spiega a VaticanNews  Mario Agostinelli, presidente dell’Associazione ‘Laudato Sì – un’alleanza per il clima, la terra e la giustizia sociale’, con sede a Milano presso la Casa della Carità.

Aumento temperature alimenta le migrazioni

Le popolazioni più povere non hanno mezzi per attenuare ed adattarsi ai cambiamenti climatici, per questo motivo Agostinelli prevede “migrazioni ancora più intense e concentrate”. “Clima, migrazioni e difesa della vita sono tre temi connessi”, prosegue Agostinelli, “l’emigrazione è il tentativo di superare le avversità della natura, che è diventata materia di scambio e speculazione”, “dobbiamo quindi cercare di consumare in modo diverso e minori quantità di risorse”.

Cambiare la produzione e le relazioni

Secondo il presidente dell’Associazione Laudato Sì è possibile raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050, fissato dal G20, “a patto che non sia un alibi per non cambiare da subito il sistema produttivo” con una riconversione energetica in direzione delle rinnovabili: “Noi stiamo chiedendo che il gas rimanga sottoterra”. Agostinelli sottolinea che l’agricoltura e la pesca subiscono un‘accelerazione del mutare dei cicli naturali ancora più impattante, a questo si aggiungono eventi climatici sempre più estremi: “Se non si interviene con un contrasto a livello globale a breve potremmo parlare di sopravvivenza al posto di sviluppo e questo non è mai successo nella storia dell’umanità”. “Ecologia integrale – spiega infine Agostinelli – significa portare un cambiamento non solo della produzione ma nelle relazioni dell’essere umano, basta pensare alle emissioni prodotte dalle guerre”.

Acqua, nucleare, beni comuni – Indietro non si torna

A DIECI ANNI dalla grande vittoria del REFERENDUM dobbiamo continuare a lottare per dire no alla mercificazione della vita, per respingere le mani delle multinazionali che puntano al profitto. VOGLIAMO un Recovery plan diverso, fondato sui diritti, sul rispetto degli equilibri naturali, con una transizione ecologica vera che garantisca il nostro futuro insieme a quello di tutti i viventi.

Transizione ecologica: la gestione del ministro Cingolani non appare convincente

Roberto Cingolani ogni giorno descrive la sua missione con varie suggestioni (“fusione nucleare, idrogeno verde, impresa ciclopica”) ma con al fondo un tratto ben distinguibile e non accettabile. Il ministro non interviene nelle scelte con la drammaticità imposta dall’urgenza della crisi climatica: al contrario, confida in una chiave esclusivamente tecnologica per affrontare la “compromissione della termodinamica del pianeta” (parole sue).

L’assetto accentratore con cui l’esecutivo Draghi descrive e imposta la ripresa post pandemica gli offre un palcoscenico dal quale detta le sue formule magiche, visto che i progetti di rilancio del Paese non contemplano il coinvolgimento della società o una dialettica tra punti di vista, ma sono ispirati dai grandi gruppi, con agganci internazionali e sensibili alle lobby multinazionali, talvolta in contrasto con le direttive europee, soprattutto in materia ambientale.

Il ministro, partendo dall’affermazione che entro il 2030 l’Italia dovrà installare 70 GW di rinnovabili (moltiplicando per 10 gli attuali investimenti), ha collocato successivamente al 2030 la vera decarbonizzazione della produzione elettrica e dell’industria. In sostanza, si tratta dell’avallo alle resistenze conservatrici dei gruppi energetici nazionali ed internazionali, mentre occorre una svolta e un cambiamento drastico di paradigma entro il 2025. Così si copre il più banale passaggio dal carbone al gas, come richiesto in ogni sede dai vertici di Eni e di Enel. Quando poi si afferma che dopo il 2030 avremo altri 25 anni per uscire dalle fonti fossili si “buca” il 2050, la “dead line” posta dalla Ue.

Che questo percorso sia quello che paventiamo, lo dimostra in alcune pieghe il “decreto semplificazioni” appena varato: il nostro Paese non vuole prepararsi alle rinnovabili senza l’ausilio dei combustibili fossili e, quindi, ci si lamenta dei ritardi nei processi autorizzativi per le rinnovabili, ma si allentano le regole di controllo e di protezione dell’ambiente e della salute nel caso specifico di nuove centrali (art.18). Perfino sul nucleare, pur sapendo che la questione in Italia è stata chiusa da ben due referendum, il ministro è stato molto blando nei confronti del tentativo della Francia e di altri paesi di far passare a livello europeo la fissione dell’atomo come fonte “a basso tenore di carbonio”, trascurando la letalità del suo impiego pur di farla accettare, al pari del Ccs, come fonte per produrre idrogeno blu anziché verde. Cingolani avrebbe dovuto dire semplicemente che l’Italia porrà il veto a qualunque tentativo di alimentare un futuro altroché residuale per il nucleare in Europa.

Intanto, c’è un inspiegabile ritardo del Governo Draghi nell’approvare (doveva essere inviato a Bruxelles il 31 marzo scorso) il piano per decidere dove installare l’eolico off-shore, mentre lo stesso fotovoltaico richiede una accelerazione nelle autorizzazioni, con la collocazione prioritaria su superfici esistenti e in aree industriali dismesse. In realtà, si coprono le resistenze al superamento dell’uso di tutte le fonti fossili il prima possibile. I gruppi pubblici, che dovrebbero essere i primi ad adeguarsi alle direttive di un governo che fa riferimento al Green Deal Europeo, tentano di eluderne l’indirizzo entro i confini nazionali, mentre al di fuori di essi, dove risulta forse più complicato fare “greenwashing”, investono solo in rinnovabili!

Così, per le centrali elettriche a carbone, dove il “phase out” è obbligato, si pensa al rimpiazzo di potenza con metano anziché passare direttamente a rinnovabili, pompaggi o idrogeno verde, ridisegnando così consumi, produzioni e buona occupazione in territori a lungo vulnerati dalla combustione dei fossili. Il gas naturale ha chiuso il suo ciclo: insistere con nuove infrastrutture, come si vorrebbe fare con i turbogas a Civitavecchia, clamorosamente in contrasto con la popolazione, le istanze sociali e le istituzioni, significherebbe pregiudicare una riconversione ecologica, laddove è già matura, a partire dal mondo del lavoro.

Le politiche industriali stesse non possono aspettare il 2030 per cambiare. Pensiamo all’Ilva di Taranto: dopo la recente sentenza occorre decidere il suo futuro, contemporaneamente occupazionale ed ambientale. Lo Stato è già entrato in Ilva con una partecipazione azionaria rilevante e presto sarà un’azienda pubblica a tutti gli effetti che potrà riprendere un’attività solo se compatibile con la salute. In questo caso, l’uso delle rinnovabili e dell’idrogeno è forse l’unico asse di fondo su cui provare a riprogettare una destinazione, lungo l’intero ciclo che tocca l’acqua, i gas in atmosfera, la bonifica del suolo.

La gestione della transizione ecologica che si sta evidenziando non appare convincente. Il ministro Cingolani ha il dovere di esplicitare come verranno impiegati oltre 50 milioni al giorno per 5 anni previsti dal Pnrr. La velocizzazione non può risolversi in un favore ai colossi energetici che oggi svolgono un ruolo di resistenza verso il cambiamento, la difesa del clima e l’innovazione, frustrando il ruolo delle istituzioni territoriali e la presa di coscienza delle collettività.

Scritto in collaborazione con Alfiero Grandi

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Pnrr, altro che transizione ecologica: le cabine di regia aumentano il disincanto verso la politica

Cambiamento reale e contrasto alla partecipazione. Solo cinque anni fa un grande movimento contribuiva a sospingere l’ambientalismo verso un profilo non ancora praticato a livello di massa: connettere la questione sociale alla sopravvivenza di tutto il vivente e rimettere in discussione la crescita come asse portante di un’economia demolitrice della natura e predatrice dei beni comuni. L’assunzione di responsabilità diretta delle nuove generazioni – studenti in particolare – nei confronti del degrado irreversibile della biosfera e l’invito della Laudato Sì – rivolta non solo ai fedeli – a riconoscere nell’ingiustizia sociale un legame indissolubile con la crisi climatica sembravano aver messo le ali ad una coscienza ambientale più aderente alle emergenze in corso, ma anche più sconvolgente per gli assetti politici in atto.

Il nostro Paese un lustro prima di Greta e Francesco si era già riconosciuto in una fase nuova, con la vittoria schiacciante al referendum popolare su acqua e nucleare. C’è allora da chiedersi quale stacco sia avvenuto tra quegli elettori, i cortei studenteschi del 2019, il messaggio potente di un venerdì piovoso in piazza San Pietro e le comunicazioni criptiche sulle “cabine di regia”, da cui dovrebbe scaturire la “riforma” e la ricostruzione di un Paese smarrito nella sua rappresentanza.

Lo scarto dovrebbe inquietare, dacché è stato preparato da un negazionismo caparbio e sapientemente articolato nelle sue manifestazioni. Si è trattato di un ostinato impegno a depotenziare la democrazia e a far sì che le autonomie territoriali, il mondo del lavoro e le gioventù del pianeta non avessero voce nella partita aperta, consegnata ai miracoli delle tecnocrazie. Il cambiamento evocato sembra tornare in mani che non prendono le distanze da quelle che ci hanno precipitato nell’emergenza attuale. Credo perciò che si debba in tutti i modi impedire una autentica restaurazione della coscienza ambientale diffusa che avviene in odore di mistificazione “verde”, che punta a far confluire prevalentemente sul sistema delle imprese un fiume di risorse pubbliche, frettolosamente vagliate da “cabine di regia” in cui nessuna dialettica dal basso trova spazio.

La delega ad una cerchia fidata e garantita solo dall’autorevolezza di Draghi non può far altro che alimentare il disincanto della popolazione verso la politica e, soprattutto, non risponde affatto alla mobilitazione che si registra in continui appuntamenti in rete e nei territori. Una partecipazione permanente della società civile, che è cresciuta e si è fatta più matura durante l’esperienza della pandemia, non può essere elusa.

Acqua e decarbonizzazione. Sono queste le due lenti che fanno da cartina di tornasole per la durabilità e la discontinuità del cambiamento. Parto da una prima considerazione: l’acqua va conservata nella sua rinnovabilità come parte del ciclo delle nuove energie e della stessa produzione di idrogeno verde, anziché sprecata nelle turbine e nelle caldaie alimentate a metano o in funzione di una mobilità invariata, seppure con motori elettrici. In buona sostanza, c’è da chiedersi quale sia il consumo e il risparmio di acqua e la sua distribuzione e accessibilità in funzione di un sistema energetico che valga per il Nord e per il Sud del mondo, che curi la salute del Pianeta e, insieme, assicuri giustizia sociale.

Per avere un’idea di quanto il bene acqua sia trascurato negli scenari in uso alle tecnocrazie, si consideri lo studio dell’ufficio parlamentare francese per le nuove tecnologie che ritiene necessari 400 reattori nucleari da 1 GW per produrre l’idrogeno previsto dai Paesi OCSE al 2050. Ovvero, sulla base dell’acqua che circolerebbe nelle centrali a fissione nel mondo, un consumo di 12 milioni di litri al secondo! Da dove prelevare un volume simile e come rimetterlo in circolo nella fragilissima pellicola che avvolge la Terra? Certamente è d’obbligo ottenere idrogeno verde dalle rinnovabili, ma, anche in questo caso, i metalli incorporati nelle nuove infrastrutture terranno conto di una escavazione che inquina masse d’acqua sempre maggiori? E non dimentichiamoci che molti metalli si trovano incistati in fossili che dobbiamo tenere sottoterra, se non vogliamo che la loro combustione dissemini di polveri dannose l’atmosfera.

In definitiva, tutti i cicli che prendiamo in considerazione dovrebbero per lo meno assicurare il massimo di riproducibilità e il minimo di entropia per l’ambiente in cui si completano: niente risulta più evidente all’esperienza umana del degrado dell’acqua e dell’effetto dei fumi che inquinano i laghi, i mari, l’atmosfera. Senza una diminuzione dei flussi di materia e di energia impiegati nei cicli produttivi, il sistema economico non riuscirà mai a rientrare in una traiettoria di compatibilità con l’ambiente, a meno che si cambino i consumi e le pratiche sociali.

C’è sentore di tutto ciò nel Pnrr e nel dibattito in corso, al di fuori delle associazioni e dei territori più avvertiti? Se si lascia decidere cosa, come e quanto produrre alle libere forze economiche di mercato non vi sarà nessuna transizione ecologica, ma solo un inseguimento senza fine della crescita del fabbisogno di nuova energia (fosse anche tutta da “fonti rinnovabili”), dello spreco insostenibile di acqua e di estrazione di materiali sempre più rari e critici.

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