Pnrr, altro che transizione ecologica: le cabine di regia aumentano il disincanto verso la politica

Cambiamento reale e contrasto alla partecipazione. Solo cinque anni fa un grande movimento contribuiva a sospingere l’ambientalismo verso un profilo non ancora praticato a livello di massa: connettere la questione sociale alla sopravvivenza di tutto il vivente e rimettere in discussione la crescita come asse portante di un’economia demolitrice della natura e predatrice dei beni comuni. L’assunzione di responsabilità diretta delle nuove generazioni – studenti in particolare – nei confronti del degrado irreversibile della biosfera e l’invito della Laudato Sì – rivolta non solo ai fedeli – a riconoscere nell’ingiustizia sociale un legame indissolubile con la crisi climatica sembravano aver messo le ali ad una coscienza ambientale più aderente alle emergenze in corso, ma anche più sconvolgente per gli assetti politici in atto.

Il nostro Paese un lustro prima di Greta e Francesco si era già riconosciuto in una fase nuova, con la vittoria schiacciante al referendum popolare su acqua e nucleare. C’è allora da chiedersi quale stacco sia avvenuto tra quegli elettori, i cortei studenteschi del 2019, il messaggio potente di un venerdì piovoso in piazza San Pietro e le comunicazioni criptiche sulle “cabine di regia”, da cui dovrebbe scaturire la “riforma” e la ricostruzione di un Paese smarrito nella sua rappresentanza.

Lo scarto dovrebbe inquietare, dacché è stato preparato da un negazionismo caparbio e sapientemente articolato nelle sue manifestazioni. Si è trattato di un ostinato impegno a depotenziare la democrazia e a far sì che le autonomie territoriali, il mondo del lavoro e le gioventù del pianeta non avessero voce nella partita aperta, consegnata ai miracoli delle tecnocrazie. Il cambiamento evocato sembra tornare in mani che non prendono le distanze da quelle che ci hanno precipitato nell’emergenza attuale. Credo perciò che si debba in tutti i modi impedire una autentica restaurazione della coscienza ambientale diffusa che avviene in odore di mistificazione “verde”, che punta a far confluire prevalentemente sul sistema delle imprese un fiume di risorse pubbliche, frettolosamente vagliate da “cabine di regia” in cui nessuna dialettica dal basso trova spazio.

La delega ad una cerchia fidata e garantita solo dall’autorevolezza di Draghi non può far altro che alimentare il disincanto della popolazione verso la politica e, soprattutto, non risponde affatto alla mobilitazione che si registra in continui appuntamenti in rete e nei territori. Una partecipazione permanente della società civile, che è cresciuta e si è fatta più matura durante l’esperienza della pandemia, non può essere elusa.

Acqua e decarbonizzazione. Sono queste le due lenti che fanno da cartina di tornasole per la durabilità e la discontinuità del cambiamento. Parto da una prima considerazione: l’acqua va conservata nella sua rinnovabilità come parte del ciclo delle nuove energie e della stessa produzione di idrogeno verde, anziché sprecata nelle turbine e nelle caldaie alimentate a metano o in funzione di una mobilità invariata, seppure con motori elettrici. In buona sostanza, c’è da chiedersi quale sia il consumo e il risparmio di acqua e la sua distribuzione e accessibilità in funzione di un sistema energetico che valga per il Nord e per il Sud del mondo, che curi la salute del Pianeta e, insieme, assicuri giustizia sociale.

Per avere un’idea di quanto il bene acqua sia trascurato negli scenari in uso alle tecnocrazie, si consideri lo studio dell’ufficio parlamentare francese per le nuove tecnologie che ritiene necessari 400 reattori nucleari da 1 GW per produrre l’idrogeno previsto dai Paesi OCSE al 2050. Ovvero, sulla base dell’acqua che circolerebbe nelle centrali a fissione nel mondo, un consumo di 12 milioni di litri al secondo! Da dove prelevare un volume simile e come rimetterlo in circolo nella fragilissima pellicola che avvolge la Terra? Certamente è d’obbligo ottenere idrogeno verde dalle rinnovabili, ma, anche in questo caso, i metalli incorporati nelle nuove infrastrutture terranno conto di una escavazione che inquina masse d’acqua sempre maggiori? E non dimentichiamoci che molti metalli si trovano incistati in fossili che dobbiamo tenere sottoterra, se non vogliamo che la loro combustione dissemini di polveri dannose l’atmosfera.

In definitiva, tutti i cicli che prendiamo in considerazione dovrebbero per lo meno assicurare il massimo di riproducibilità e il minimo di entropia per l’ambiente in cui si completano: niente risulta più evidente all’esperienza umana del degrado dell’acqua e dell’effetto dei fumi che inquinano i laghi, i mari, l’atmosfera. Senza una diminuzione dei flussi di materia e di energia impiegati nei cicli produttivi, il sistema economico non riuscirà mai a rientrare in una traiettoria di compatibilità con l’ambiente, a meno che si cambino i consumi e le pratiche sociali.

C’è sentore di tutto ciò nel Pnrr e nel dibattito in corso, al di fuori delle associazioni e dei territori più avvertiti? Se si lascia decidere cosa, come e quanto produrre alle libere forze economiche di mercato non vi sarà nessuna transizione ecologica, ma solo un inseguimento senza fine della crescita del fabbisogno di nuova energia (fosse anche tutta da “fonti rinnovabili”), dello spreco insostenibile di acqua e di estrazione di materiali sempre più rari e critici.

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Rinnovabili, l’impatto della transizione è troppo caro? Cambiare consumi e stili di vita è cruciale

Il rapporto di sintesi NDC della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici dello scorso 26 febbraio afferma che il prossimo decennio, 2020-2030, sarà cruciale per il futuro dell’umanità. In attesa della COP26 di Glasgow nel novembre 2021 sono stati infatti registrati gli obiettivi di stabilizzazione dell’aumento della temperatura media globale cui ciascun Stato avrebbe dovuto contribuire “pro quota” per non oltrepassare il limite di 1,5°C. L’accordo di Parigi del 2015, infatti, lascia nelle mani degli Stati/Parti la decisione sulle riduzioni delle emissioni da effettuare per raggiungere l’obiettivo sopra menzionato e che si quantificano nei cosiddetti “Contributi Determinati a livello Nazionale” (NDC) da confermare ogni cinque anni.

Con estrema preoccupazione, si è rilevato che – stanti gli esigui livelli stimati di riduzione di CHG tra il 2015 e il 2020, la previsione di riduzione da qui al 2030 dovrà essere di ben 55 GtCO2eq. Entro la fine del 2020, erano stati aggiornati solo 48 NDC, che rappresentano 75 Stati/Parti responsabili di circa il 30% delle emissioni globali di gas serra. Su questo primo rilevamento la riduzione delle emissioni rispetto al 2015 è risultata di un misero 2,8%.

La situazione è estremamente scoraggiante e l’Italia con il suo attuale piano energetico rientra in queste sconsolanti dimensioni, puntando anch’essa furbescamente alla cosiddetta “neutralità del carbonio” a metà del secolo, piuttosto che intraprendere un’ambiziosa mitigazione già nel prossimo decennio. Senza raggiungere gli obbiettivi posti dal Green New Deal europeo, saremmo tra i responsabili della esposizione della totalità degli ecosistemi del pianeta a condizioni mai registrate durante il periodo geologico in cui la nostra specie si è sviluppata.

Di ciò si rende conto anche Federico Fubini che, nell’articolo del Corriere della Sera del 10 maggio, si chiede se ci sia piena coscienza della sfida cui siamo tenuti e della profondità delle trasformazioni che ci attendono con l’abbandono dei fossili.

Trovo molto appropriata la sua riflessione sulla “distrazione” degli italiani al riguardo ma continua a sorprendermi come praticamente tutto il mondo dell’economia e della politica non riesca a liberarsi di un assioma: qualunque trasformazione produttiva e degli stili di vita diventi necessaria, non può contare su una diminuzione del Pil, destinato immancabilmente a crescere per garantire occupazione, ripresa ed esorcizzare ogni emergenza futura. Inoltre – altro assioma – il mantenimento dello stile di vita in corso va preservato.

Va da sé che le potenze ed i consumi energetici continuerebbero a espandersi: “Come potremmo – argomenta il giornalista – azzerare i settemila chili di carbonio che ogni italiano emette nell’atmosfera ogni anno? Solo e soltanto con 70 GWatt di energie rinnovabili, equivalenti ad una cinquantina di centrali nucleari come quelle francesi, tappezzando di pannelli solari oltre 200 mila ettari, quasi il 2% della superficie coltivata in Italia e piantando pale eoliche letteralmente ovunque, compromettendo un paesaggio secolare e la risorsa del turismo?”. E’ chiaro l’avvertimento: riconosco che il tempo per evitare la catastrofe stia venendo a mancare, ma “perché allora rinunciare al sequestro del carbonio o all’idrogeno prodotto anche da gas naturale, per non parlare di una dose di nucleare nel mix complessivo?”.

I numeri forniti nell’articolo del Corriere sono un tantino esagerati anche a parità di consumo (oggi si può avere 1,5 MW per ettaro da fotovoltaico e la prospettiva di pale eoliche da oltre 4 MW si colloca off-shore, fuori cioè dalla vista da riva), ma nemmeno troppo se il sistema rimane inalterato. Oltretutto, si sottovaluta che si tratta di fonti di energia funzionanti senza emissioni climalteranti, in continua evoluzione e specificatamente decentrate, oltre che pianificabili con accumuli che ne migliorano il rendimento discontinuo. Già questo basterebbe a farne d’obbligo la tecnologia sostitutiva dei fossili. Ma non basta: occorre puntare alla sufficienza elettrica e riorganizzare una struttura ottimizzata per fonti diffuse e con un risparmio netto a parità di benefici resi.

Non c’è invece alcuna soluzione consolatoria se si continua a consumare e produrre come abbiamo imparato dal sistema centralizzato del carbone, del petrolio e del gas, sprecando nella combustione, ostacolando la creazione e la condivisione comunitaria dei sistemi energetici, organizzando una mobilità fatta di veicoli proprietari che stanno in coda, programmando cicli di vita che accelerano la trasformazione di prodotti in scarti e facendo degli allevamenti intensivi e dell’agricoltura una sorgente di inquinanti e, infine, illudendoci che il ricorso al metano non ci riservasse la minaccia più grande a breve per il riscaldamento del pianeta.

Trovo certamente di rilievo che un giornalista come Fubini ci spinga a riflettere su un futuro prossimo in cui le scelte si rifletteranno immediatamente sugli stessi stili di vita e sul nostro rapporto con la natura, il paesaggio, l’intero vivente. Ma non c’è continuità praticabile, se si persegue davvero l’equilibrio climatico ed una maggiore giustizia sociale. Molte e incalzanti sono le novità con cui misurarsi e a cui ci sottopone una scienza sempre più allarmata della sopravvivenza. A questo punto, vorrei fare riferimento ad un recentissimo studio patrocinato dall’UNEP che rivela che, se l’anidride carbonica ha un ruolo fondamentale nel riscaldamento globale, nondimeno il metano (CH4), con un potenziale di riscaldamento molto più alto della CO2 (di ben 28 volte considerando un orizzonte temporale di 100 anni), merita altrettanta attenzione. Anzi, nel breve periodo (i primi venti anni) ancora maggiore attenzione, se si vuole stare nei limiti di temperatura di 1,5°C. Ogni giorno di più ci accorgiamo che la sindemia è un avvertimento per un cambio di passo irreversibile. Proprio questo cambio accelerato andrebbe favorito dai fondi Next Generation.

Per andare a casi concreti, penso, ad esempio, all’insistenza di Enel sull’impiego del metano nella centrale di Civitavecchia, dove le articolazioni istituzionali, civili, sindacali – perfino religiose – hanno provato a far lievitare dal basso un modello di fornitura e consumo elettrici non più incatenati ai fossili, per ritrovarsi poi, nelle tabelle del PNRR, poste di bilancio deludenti, che confermano i fumi da combustione che hanno afflitto da oltre settant’anni la città e il litorale laziale e con accenni solo irrisori all’eolico off-shore, o all’accumulo in pompaggi o idrogeno verde, che aprirebbero spazi occupazionali, con una specializzazione manifatturiera ed una logistica portuale di pregio in un territorio che per il suo futuro ha scelto il passaggio desiderabile all’energia del sole, del vento, dell’acqua.

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Notizie sparse (alcune curiose e inaspettate) sulla minaccia climatica

All’inizio di gennaio l’alta atmosfera sopra l’Artico si è riscaldata improvvisamente, il che accade circa sei volte in un decennio. Quel riscaldamento ha gradualmente indebolito la corrente a getto sottostante, provocando la fuoriuscita di aria gelida in tutto il Nord America. Il Texas si congelò e ne seguì la tragedia. Alcune prove indicano un legame tra il rapido riscaldamento dell’Artico e le ondate di freddo a sud, ma non tutti sono d’accordo, ed è diventato un po ‘una situazione di stallo. Due cose sono certe: l’inverno è la stagione con il riscaldamento più rapido e il Texas ne ha avvertito le conseguenze.

Gli scienziati sono molto più chiari sul ruolo dell’umanità in eventi meteorologici estremi più comuni. Circa 40.000 persone hanno evacuato le loro case nel Nuovo Galles del Sud a marzo dopo piogge bibliche. Gli aspetti del clima australiano rendono più complicata l’analisi dell’influenza del clima di qualsiasi evento di precipitazione, ma un nuovo lavoro afferma che più gas serra significa più calore, un’atmosfera più umida e precipitazioni più estreme. Non si tratta solo di più o meno precipitazioni: i tempi delle stagioni stanno cambiando quasi ovunque, con la stagione delle piogge della California che ora inizia un mese dopo rispetto a 60 anni fa.

Il riscaldamento globale ha anche rallentato la Corrente del Golfo, il vasto sistema di circolazione atlantica che influenza direttamente il clima in Africa, nelle Americhe e in Europa, al suo livello più basso in 1.000 anni. Questa decelerazione è uno sviluppo a lungo previsto e da tempo temuto, e gli scienziati affermano che una migliore comprensione di esso “è urgentemente necessaria”.

Mantenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5 ° C sembra un’idea sempre migliore, anche se diventa sempre più difficile da ottenere. Con il calore arriva più umidità, una potente combinazione che può spingere un corpo umano al suo punto di rottura. Fermare il cambiamento climatico al di sotto dei 2 ° C ridurrebbe drasticamente il rischio per le persone ai tropici di condizioni che spingono il corpo oltre “il limite di sopravvivenza”.

Un quarto dell’inquinamento di CO₂ che emettiamo ogni anno si riversa nell’oceano e una parte cade a terra come sedimento, dove rimane al sicuro lontano dall’atmosfera per millenni. Tranne quando i pescherecci da traino industriali percorrono oltre l’1,3% del fondo oceanico ogni anno, rilasciando fino al 20% della CO₂ atmosferica che gli oceani assorbono ogni anno. 

C ‘è tuttavia una buona notizia: secondo un nuovo studio, la creazione di aree marine protette contribuirebbe a contenere questo carbonio, migliorando nel contempo sia la pesca che la vita marina. Gli autori fanno parte della Oregon State University, che da allora ha assunto la posizione di consigliere di scienza del clima di più alto rango della Casa Bianca.

Come i sedimenti marini, il suolo è un posto fantastico per nascondere il carbonio dall’atmosfera. Dovrebbe comportarsi come un amplificatore: le piante assorbono CO₂ e quando perdono foglie o muoiono, il carbonio immagazzinato diventa parte del suolo. Questo processo è ora messo in discussione dalla ricerca che suggerisce che quando le piante assorbono i nutrienti del suolo, i microbi si svegliano e si nutrono, con il loro metabolismo che rilascia nell’atmosfera la CO₂ immagazzinata. Più piante crescono, meno il suolo assorbe. La scoperta potrebbe richiedere modifiche a modelli importanti.

C’è uno svantaggio nell’inizio della primavera e nel tardo inverno: più tempo per le piante per eliminare gli allergeni. La stagione delle allergie è di 20 giorni più lunga di quanto non fosse in Nord America, con concentrazioni di polline che crescono del 21%. Nel frattempo, dall’altra parte dell’oceano, gli scienziati che cercano di fornire agli europei strumenti migliori per prepararsi alle allergie hanno scoperto che la gravità stagionale potrebbe aumentare di un ulteriore 60% nei decenni a venire. 

In qualche modo ci sono ancora buone notizie: l’adozione di energie rinnovabili e veicoli elettrici, l’introspezione dell’industria petrolifera, persino pesche più dolci (lo stress da siccità aumenta la produzione di zucchero). Con uno sforzo prolungato, potremmo vedere migliorare le misure più importanti della salute planetaria. Le emissioni globali di CO₂ dall’energia sono aumentate dello 0,9% all’anno dal 2010-18, meno di un terzo della crescita annuale nel decennio precedente. L’anno della pandemia ha abbattuto le emissioni annuali di CO₂ di un 7% storico, ma i motori economici sono ripartiti e le emissioni di dicembre 2020 erano già più alte dello stesso mese del 2019. Si aggiunge: lo scorso anno il 2016 è stato considerato l’anno più caldo mai registrato, e i sette anni più caldi negli ultimi 141 si sono verificati tutti dal 2014.

Dal Tirreno all’Adriatico: la democrazia del metano

Extraterreste Mario Agostinelli, Alfiero Grandi, Aprile 2021

Seguiamo da tempo la vicenda di Civitavecchia dove l’intera città in tutte le sue articolazioni chiede che la transizione energetica nel suo territorio non passi dal carbone al gas e lo pretende dopo aver costruito in confronti con esperti e ricercatori un progetto alternativo, con eolico e piattaforme fotovoltaiche galleggianti off-shore del tutto analogo a quello che Saipem ha annunciato di realizzare a Ravenna. Ora ci si dovrebbe domandare: perché le istituzioni interessate e coinvolte, dalla Regione al Governo – se si esclude il Consiglio Comunale e il Sindaco della città laziale – tacciono in modo inquietante sulla sponda del Tirreno, mentre su quella adriatica i permessi per impianto eolico e fotovoltaico da 620 MW sono calendarizzati e a portata di approvazione? 

Una richiesta ufficiale inviata da oltre un mese dal Sindaco di Civitavecchia al Ministro Giovannini per tracciare il corridoio marino su cui collocare le pale eoliche sostitutive dell’impianto a metano non ha avuto ancora risposta. Due pesi e due misure?

Siamo ben lieti che l’intuizione di Saipem – che tra l’altro ha già partecipato a grandi installazioni nel mare del Nord – sia in piena sintonia con la politica energetica UE, anche se l’entusiasmo è moderato dalla caparbietà con cui l’ENI insiste per produrre idrogeno blu con l’uso di energia prodotta da turbogas, sempre nel ravennate, a poca distanza.

Crediamo che la contraddizione trovi una spiegazione che ha a che fare con un certo dispregio della democrazia dal basso e che il tentativo di imporre soluzioni dall’alto stia tutta all’interno di decisioni e convenienze economiche delle imprese, anche quando si hanno conseguenze negative sull’ambiente e sulla salute e precludendo nuova occupazione in maggiore armonia con la natura. La differenza tra Civitavecchia e Ravenna, in buona sostanza, sta nel fatto che nel Lazio viene contestata dagli abitanti la decisione aziendale dell’ENEL di bruciare metano al posto del carbone, celiando sulla neutralità climatica al 2050, mentre in Romagna la decisione viene presa direttamente sulla base delle convenienze e delle future strategie di mercato di Saipem, che, oltre che a rafforzare posizioni acquisite nell’eolico all’estero è tenuta a riconvertire le piattaforme marine adriatiche ormai insostenibili. Magari con la pretesa di attenuare lo scandalo di produrre idrogeno ad opera della sua consociata a pochi KM di distanza.

Quindi a prevalere è alla fine la visione dell’azienda, sia quando fa una scelta condivisibile che quando ne fa una sbagliata: noi pensiamo che occorre introdurre il terzo incomodo e cioè il punto di vista dell’interesse generale delle popolazioni e i vincoli dell’Europa. 

Im un frangente così straordinario si dovrebbe aprire un dibattito autentico sulla dimensione nazionale di questi grandi cambiamenti, per far crescere il Paese sul tema della riconversione ecologica, rifiutando la tesi che sia materia soltanto da specialisti, quasi sempre dettata da estensori assunti nelle imprese energetiche e rivista dai loro consulenti, con l’unico obiettivo di salvaguardare l’atteggiamento conservatore di troppe aziende. Sull’energia sta avvenendo qualcosa di simile alla privatizzazione dell’acqua, che procede in sordina. Qual è la posizione del governo? Contraddire l’esito del referendum per favorire il ruolo “di mercato” che la partecipazione pubblico-privato affermerebbe definitivamente con il sostegno finanziario dei PNNR?

Avremmo molte motivazioni, confermate da prestigiosi studi internazionali sia in campo economico che scientifico per confutare la scelta ENEL (appoggiata da ENI) su Civitavecchia. L’abbiamo già fatto in molte occasioni e rimandiamo ad esse, ma, soprattutto, vorremmo si tenesse conto della risorsa politica e democratica rappresentata dalle posizioni espresse dalle forze politiche locali e dalla società civile, dai comitati, dai Sindacati, dalle Associazioni degli artigiani e dei commercianti. 

Occorre riconoscere che si pone una questione di primordine in una fase storica straordinaria e drammatica, in cui l’emergenza si affronta se si è consapevoli che non si tratta di scegliere tra passato e futuro ma tra futuri diversi, più o meno fecondi di speranze a seconda che queste vengano partecipate e corroborate da autentica sapienza popolare. L’ENEL ha già misurato a Civitavecchia la reazione di cittadini, lavoratori e loro rappresentanze ai diktat che Tamburi ha trasmesso attraverso la pagina locale del Messaggero.

I bilanci in espansione degli enti energetici non bastano più a convincere. Ne va del futuro di generazioni e il prezzo pagato è quello di territori sottomessi e passivi, anche sul piano della ricerca, della conoscenza diffusa, dell’informazione elaborata in comune. Sotto questo profilo, preoccupano le dichiarazioni del ministro Cingolani dopo l’incontro con Symbola dell’8 Aprile. “E’ ovvio – afferma – che abbiamo un obiettivo di decarbonizzazione al 2050, e di parziale decarbonizzazione al 2030 e che dobbiamo fare il possibile per eliminare i combustibili fossili. Il Gas sarà l’ultimo a sparire perché ci consentirà di portare avanti la transizione”. In queste dichiarazioni non c’è il minimo allure della novità ecosostenibile e del ruolo di traino che dovrebbe esercitare il PNRR come ci si aspettava dal nuovo Ministro. 

In rete girano centinaia di osservazioni sul PNRR, ma non sembrano approdare ai piani alti separati, dove si parla di “robotica e fusione”, ma intanto si mantiene viva la penetrazione del gas nel nostro tessuto produttivo e manifatturiero, a discapito di una politica industriale che gareggi con Germania e Francia nella ricerca, nell’innovazione e nell’occupazione di qualità, a partire dal Mezzogiorno.

Laudato Sì, CDC e Nostra, tre associazioni di diversa ispirazione, hanno deciso in un dibattito aperto di affrontare i nodi della ecologia integrale sotto il profilo della democrazia, della giustizia sociale e dell’abbandono dei fossili: lo faranno in un webinar il 17 aprile per imprimere ai PNNR la direzione di svolta finora per nulla evidente.

Mario Agostinelli, Alfiero Grandi