Fermiamo chi scherza col fuoco atomico

A cura di Alfonso Navarra

Noi tiriamo su – ad un anno esatto dalla vittoria referendaria – il 13 giugno 2012, la “Tenda del Sole“. Lo abbiamo deciso ieri, 16 maggio, nella riunione del CAVRA milanese (Comitato per l’attuazione della volontà del referendum antinucleare). A prescindere dal fatto che il Sindaco Pisapia ci incontri o meno (dopo l’abboccamento con Energia Felice il 9 maggio) e che cominci a dar retta alla nostra proposta di Tavolo di partecipazione energetica.

Dobbiamo ribadire, con una iniziativa pubblica, in piazza, non una tantum, che il popolo è sovrano e che esistono oggi 3 obiettivi da portare avanti per concretizzare la sua, la nostra vittoria:

1– chiudere con i piani nucleari in Italia e dall’Italia (vedi Enel e Fimeccanica);

2– garantire la (relativa) sicurezza del “vecchio” nucleare degli anni ’60 – ’70 e ’80, che costituisce una minaccia tuttora incombente;

3– risolvere in modo alternativo i problemi che l’opzione nucleare pretendeva di affrontare, come, per esempio, il rispetto degli impegni di Kyoto e l’emancipazione del nostro Paese dalla dipendenza dei combustibili fossili.

Aggiungiamo pure, cosa non trascurabile in questi momenti di crisi economica, la produzione di energia a costi convenienti e con importanti ricadute occupazionali. Dobbiamo altresì vigilare su manovre europee che rischiano di fare rientrare dalla finestra quello che si è cacciato dalla porta.

Tutto questo parte da Milano, ma deve coinvolgere i livelli nazionale ed internazionale.

E’ altresì essenziale che si colleghino in un discorso ed un’azione coordinata ed unica i movimenti “acqua e sole” perchè la volontà referendaria del popolo italiano, nel combinato disposto di tutti i pronunciamenti, ha individuato un orizzonte condiviso e maggioritario di vero cambiamento: riconoscimento e presa in cura da parte di tutti dei beni comuni naturali, gestione pubblica dei beni pubblici, difesa dello Stato sociale, dei diritti e del Diritto.

F-35: quanto inquinano le armi

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano online – 14 maggio 2012

Con un debito pubblico al 120% del Pil e un’inflazione che supera il 3%, l’Italia ha deciso di ammodernare il proprio apparato attraverso l’acquisto di aerei da caccia e navi da guerra. Ha stabilito di destinare al bilancio difesa 2012 una cifra imponente pari a 19,9 miliardi di euro (l’1,22% del Pil). Novanta caccia F-35, al costo unitario di 135 milioni saranno acquistati e Finmeccanica parteciperà alla loro costruzione con un risultato occupazionale di 1500 occupati. Ci si può chiedere se con i costi così esorbitanti dei programmi e delle guerre non sarebbe meglio investire lo stesso denaro in settori che garantiscano più posti di lavoro, benessere e pace per il Paese. Come calcolato dall’Università del Massachusetts, se investiamo un miliardo di dollari nella difesa abbiamo 11.000 nuovi posti di lavoro; 17.000 se lo impegniamo nelle energie rinnovabili e 29.000 se fosse speso nel settore dell’educazione.

In questo post, vorrei enfatizzare gli aspetti legati ai terribili danni ambientali delle armi più distruttive che non si lesina ad acquistare e impiegare, nonostante la crisi venga assunta a vincolo insuperabile per tagliare le uscite dello stato. Basta fare dei conti nei serbatoi o dietro gli scarichi dei velivoli seminatori di morte, per chiedersi per quale perversa ragione al governo Monti sembrino indispensabili e perché invece un sindaco come quello di Milano – Pisapia – abbia meritevolmente chiesto di rinunciarvi.

Se guardiamo ai consumi, un aereo tipo F-15 Eagle consuma circa 16.200 litri/ora, un bombardiere B-52 12.000 litri/ora, un elicottero Apache 500 litri/ora. Un mese di guerra aerea calcolato su queste basi comporta l’emissione di 3,38 milioni di tonnellate di CO2, l’equivalente dell’effetto serra provocato in un anno da una città di 310 mila abitanti (poco meno di Bologna). Durante la guerra Desert Storm furono effettuati rifornimenti di carburante per missioni aeree per un volume di 675 milioni di litri, equivalenti a un pieno di circa 17 milioni di autovetture normali. Il serbatoio di un F-35 contiene 8391 kg di carburante. La combustione per ogni litro di carburante produce in media 2,5 kg di CO2. Dunque lo svuotamento dell’intero serbatoio di un F-35 (viaggio andata e ritorno nelle missioni in medio oriente) produce circa 21mila kg di anidride carbonica, pari all’emissione giornaliera di 1000 abitanti del nostro Paese.

Questi dati chiariscono cosa significhi non solo per i “nemici”, ma anche per tutta l’umanità e le generazioni future avventurarsi nella soluzione armata dei conflitti. Stiamo rincorrendo gli Stati Uniti, che invece stanno perdendo terreno velocemente nei confronti della Cina nel campo dell’economia verde. Questo anche per colpa dell’enorme spesa militare che sottrae risorse agli investimenti pubblici per mitigazione e adattamento climatico. Il gigante asiatico, ormai leader incontrastato della green economy, spende circa un sesto rispetto alla superpotenza americana per gli armamenti e il doppio per ridurre le emissioni e prepararsi ai cambiamenti climatici. Anche negli Usa sta crescendo un’opposizione alle scelte di continuo riarmo. Uno studio della Quadrennial Defense Review propone un cambio di direzione, stimando che un miliardo di dollari speso in armamenti creerà circa 8mila posti di lavoro, se speso per potenziare il trasporto pubblico 20mila, se speso per l’efficienza energetica negli edifici o per le infrastrutture circa 13mila.

Se si sceglie il riarmo, come indica la vicenda degli F-35, oltre alla devastazione della pace si compiono sia un danno ambientale in prospettiva che uno occupazionale immediato. Se si vuole contenere in 2°C l’aumento della temperatura del pianeta, bisogna limitare le emissioni di CO2 entro 350ppm. Quindi non solo rinunciare allo spaventoso consumo energetico delle armi moderne ma destinare alla riconversione ecologica dell’economia una percentuale di Pil pari almeno alla metà di quella che gran parte delle nazioni dedica alle spese militari, creando in più ricchezza e occupazione. L’abbassamento a 350 ppm si potrebbe raggiungere con investimento tra l’1 e il 3% del Pil globale. Un investimento lungimirante, considerando il rischio enorme del “global warming” e i vantaggi economici, ambientali e occupazionali che questa decisione procurerebbe. E allora, ci ripensi il governo Monti, così attento – dice lui – al contenimento e alla produttività della spesa pubblica.

Intervista ad Alfiero Grandi (video)

Mercoledì 9 maggio 2012, Alfiero Grandi, presidente di ARS, ha presentato a Milano il suo libro “Referendum e alternativa politica” (Ed. Ediesse, 2011). In questa intervista ci parla dei contenuti del libro e delle possibilità future del movimento contro il nucleare che ha portato all’eccezionale risultato dei referendum del giugno 2011.

Comunicato stampa della Fiom su energia e industria

Roma, 11 maggio 2012

Energia e industria. Bardi e Potetti (Fiom): “Precisazioni necessarie dopo le dichiarazioni di Clini e Pasini sui rapporti tra l’industria metallurgica e l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili”

Alcune precisazioni sono necessarie a proposito delle recentissime dichiarazioni del Ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, e del Presidente di Federacciai, Giuseppe Pasini. Mercoledì 9 maggio a Verona, nella giornata di apertura del Solarexpo, la più importante fiera italiana sull’energia solare, e parallelamente a Milano, nella presentazione dei dati sul settore siderurgico da parte di Federacciai, assieme a dati e a considerazioni condivisibili su entrambi i settori, vi sono state alcune opposte dichiarazioni sulle questioni energetiche che richiedono alcune precisazioni.

Per il Ministro Clini, non sono le fonti rinnovabili quelle che alzano il costo della bolletta energetica, ma piuttosto settori della vecchia economia degli anni ’70, come l’acciaio e alluminio, che non dovrebbero avere vantaggi sulle tariffe. Per Federacciai, viceversa, il Governo non fa scelte per abbassare il costo dell’energia e del gas, ‘favorendo invece le lobby delle rinnovabili che hanno goduto di forti incentivi che solo ora vengono tagliati’. Se effettivamente l’intenzione di questi illustri dichiaranti era quella di imputare alla siderurgia, o viceversa alle rinnovabili, il costo di una bolletta energetica più alta che in altri paesi europei, dissentiamo profondamente.

Come è stato dimostrato più volte, infatti, la causa di questa onerosa bolletta sta nell’inefficienza del sistema energetico italiano, nella sovracapacità produttiva e negli alti margini di profitto dei grandi produttori da fonti fossili che, chissà perché, hanno contratti di fornitura del gas legati al petrolio e più alti che altrove. Si tratta di aziende oligopolistiche – in questo caso si che si possono definire lobby – che, per di più, nel caso di Enel e di Eni hanno una partecipazione pubblica che ne dovrebbe indirizzare le strategie.

Per quanto riguarda le rinnovabili, proprio ieri a Verona il GSE (il Gestore dei Servizi Energetici) ne ha spiegato gli effetti: prima dell’esplosione del fotovoltaico dell’ultimo anno alla Borsa elettrica c’erano due picchi di prezzo, uno di giorno, verso le 11 di mattina, e uno di sera, verso le 18-20. Ora il picco delle 11 di mattina è praticamente scomparso (anche se quello serale è stranamente aumentato di molto). La spiegazione è che il fotovoltaico, assieme alle altre rinnovabili, producendo a costi marginali nulli (non serve più combustibile per dare un kWh in più), di giorno fa concorrenza alle centrali tradizionali e riesce a contenere il prezzo dell’energia. Si tratta dell’effetto peak shaving che nel 2011 ha fatto risparmiare 400 milioni di euro.

Mettere in contrapposizione le rinnovabili e la siderurgia è sbagliato da molti punti di vista. Un modello energetico efficiente e sostenibile deve aumentare razionalmente tutte le fonti rinnovabili e deve progressivamente diminuire quelle fossili, garantendo dei costi compatibili, nel rispetto delle regole comunitarie, a tutti i settori produttivi, ivi compresi quelli energivori e di base, che servono per mantenere un sistema industriale moderno.

Lo sviluppo della cosiddetta green economy e gli stessi settori delle energie rinnovabili hanno bisogno di molti prodotti siderurgici. Si può verificare quanto alluminio serva in un impianto solare, quanto acciaio di qualità serva per una pala eolica, in una caldaia a condensazione, o nel solare termico? Perché questi materiali dovrebbero essere importati, visto che in Italia li stiamo producendo?

Certo queste produzioni devono essere efficienti e compatibili con l’ambiente e, a questo proposito, dissentiamo da un’altra affermazione fatta da Pasini, assieme al suo vice Nicola Riva, quando hanno chiesto alla Unione Europea di ‘non esagerare con le norme di tutela ambientale’. A dimostrazione di questa nostra impostazione, che non intende essere un improbabile tentativo di ‘quadratura del cerchio’, vorremmo ricordare che la Germania è il primo produttore di acciaio in Europa e, contemporaneamente, il primo al mondo per MW solari installati (24.700).

In Italia siamo i secondi per la siderurgia e anche per le installazione del solare (a maggio 13.160 MW), ma la differenza non è solo questa. La differenza vera è che in Italia non c’è una politica industriale che dica in quali settori e come si debba riavviare uno sviluppo sostenibile, mentre si tagliano i diritti e la spesa anche in settori che crescono, come le energie rinnovabili.