È possibile scaricare la traduzione di questo importante documento ufficiale in italiano, a cura di Mario Agostinelli.
Ne raccomandiamo la lettura. (PDF, 2.16 MB)
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di Mario Agostinelli e Paolo Cacciari
D’ora in poi chiameremo il nostro ministro alla finzione ecologica Atomino. Forse qualcuno si ricorderà il Pioniere, l’inserto del giovedì per i piccoli dell’Unità nei primi anni ’60. Uno dei personaggi principali dei fumetti era Atomino, l’atomo di pace che veniva dal freddo per dare prosperità e felicità a tutto il mondo.
La riorganizzazione del ministero alla Transizione ecologica preparata dall’agenzia privata di consulenza Ernst & Young – 21 pagine ponderose tradotte dall’inglese e consultabili al sito del ministero – prevede tra le competenze del Dipartimento Energia gli “impieghi pacifici dell’energia nucleare”. Ohibò! Per fortuna che gli impieghi militari non sono consentiti all’Italia. Ma forse con Draghi si può sperare.
Per ora il nostro simpatico Atomino si accontenta degli Small Modular Reactors (come quelli installati su navi e sommergibili da guerra degli Usa e della Russia) sponsorizzati dalla Francia che sta bloccando da un anno le trattative in Europa sulla applicazione della “tassonomia” degli investimenti verdi (atti delegati del Regolamento 2020/852) che serve ad individuare le tecnologie considerate utili al fine di raggiungere gli obiettivi climatici del Green Deal (riduzione del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030 e “neutralità” entro il 2050) e quindi finanziabili anche con i denari della Banca Europea e del Next Generation UE.
Il nostro Atomino non solo appoggia la Francia nell’includere il nucleare tra gli investimenti “verdi”, ma chiede un trattamento di favore anche per il metano se impiegato per produrre idrogeno (Blue Hydrogen) e se le relative emissioni di anidride carbonica dovessero essere catturate, concentrate, liquefatte, pompate e scaricate nelle viscere della Terra. Tra le competenze previste dal nuovo Regolamento del Ministero c’è quella di autorizzare gli “stoccaggi di CO2 nel sottosuolo”. Insomma, una tecnologia all’avanguardia, come quella della scopa che fa sparire la polvere sotto il tappeto.
Ma basta leggere gli allarmi dell’Iea (Agenzia Internazionale per l’energia .-non certo un circolo di vegani) o dare un’occhiata al mare di Fukushima o alle brughiere di Chernobyl: il metano sfugge dalle infrastrutture di trasporto e rende ancor più letale il mix di climalteranti in atmosfera; i prodotti della fissione nucleare sono per sempre! Ci vuole una buona dose di arroganza e imprevidenza per considerare metano e nucleare “combustibili di transizione”. Intanto i consumi energetici crescono e la quota di energie rinnovabili ristagna.
L’articolo Transizione ecologica con metano e nucleare? Ci vuole una buona dose di arroganza proviene da Il Fatto Quotidiano.
I movimenti giovanili e Papa Francesco hanno già comunicato l’essenziale: in un mondo malato deperisce l’intera natura, la vita si rigenera a fatica e non possono esserci umani sani!
Si richiede una iniziativa straordinaria e perciò collettiva, che spazzi via gli incredibili ritardi dei governi. Siamo un gruppo di associazioni e comitati che, sia a livello locale che nazionale, intendono contrastare una riconversione energetica dettata dalle convenienze di grandi aziende, a dispetto della salute e della drammatica mancanza di tempo per la rigenerazione del Pianeta.
Nel dramma in corso non bastano certo soluzioni tecnocratiche, ma autentica partecipazione e alternative praticabili nei territori, nelle città, finalmente in armonia con la natura.
Nel documento che trovate qui allegato (PDF, 148 Kb) usiamo la “lente” dell’acqua, per individuare un passaggio fecondo alle rinnovabili, lasciandoci alle spalle un mondo progettato come un nostro smisurato manufatto.
Non partiamo da zero: illustriamo casi aperti come Civitavecchia o altri certamente criticabili, come l’idrogeno blu su cui insiste ENI. Siamo certi che cittadini, attivisti ambientalisti e lavoratrici e lavoratori informati sapranno farsi ascoltare.
Magari, come chiediamo, attraverso una audizione pubblica istruita in Parlamento con gli enti del settore energetico partecipati dallo stato.
È impossibile separare l’immaginario collettivo elaborato a 20 anni dal G8 genovese dall’esperienza diretta di una giornata splendente e “pura” di primo mattino, colma di speranza e come sbocciata dopo una notte di smarrimento impresso dall’uccisione di Carlo “ragazzo”. I pullman che a Boccadasse – fianco mare – srotolavano fiumi di persone che si aggrumavano in corteo dietro molteplici striscioni e bandiere colorate alimentavano la convinzione che il rifiuto della violenza avrebbe finito per avvolgere una città magica per la sua storia e la memoria antifascista.
Una moltitudine determinata procedeva infatti ordinata con la sensazione che la “Zona Rossa” dei potenti della Terra fosse un loro autoisolamento, timoroso del contatto con sudditi in avanscoperta di un mondo desiderabile. Nonostante sparute incursioni di qualche “black-bloc”, difficilmente distinguibile dalle divise speciali dei poliziotti in formazioni compatte, c’era una calma familiarità in quel popolo che proveniva da tutta Europa. La consapevolezza di una forza di massa che pretendeva “un altro mondo possibile” sarebbe stata però presto ammorbata e sfregiata dai gas e dai pestaggi in pieno giorno e, infine, precipitata nei massacri della serata e di quella terribile notte.
Provo – probabilmente in uno sforzo inadeguato e forse pretenzioso – ad estendere da testimone alcune considerazioni che “tengono” ancor oggi in prospettiva, ben consapevole che a Genova 2001 si è scientemente fatta implodere una occasione di convergenze a dimensione popolare, democratica e globale, che avrebbe forse dato tempo alla maturazione di un sistema adatto al progredire della storia umana, già allora incompatibile con una continuità inaccettabile di predazione della biosfera e di incessante crescita delle disuguaglianze.
In altre occasioni (vedi Genova con noi ed. Punto Rosso) ho estesamente raccontato lo svolgersi della giornata, che è arricchita e documentata da mille voci, immagini, video: qui mi preme riprendere solo le considerazioni che a distanza potrebbero essere andate sorprendentemente in ombra.
C’era ed era forte, combattivo, organizzato e in forma di presenza popolare il mondo del lavoro: in particolare la Fiom nazionale, la Cgil della Lombardia (37 pullman stipati, da Milano, Brescia, Brianza, Lodi ed altre province), diverse Camere del Lavoro liguri, emiliane e del Sud, tutte allertate per un energico servizio d’ordine e per servire una manifestazione condivisa, dovuta, in linea con Seattle e Porto Alegre, nonostante non avesse l’avallo dalle segreterie confederali nazionali. Una presenza assai significativa, perché andava dritta alla difesa dei diritti sociali, era folta di ragazze e ragazzi ed aspirava ad un “senso del lavoro”, che da Genova in poi resisterà come fulcro contro il disprezzo di cui si è fregiata la globalizzazione capitalista.
Il mondo del 2001 era un mondo molto diverso da quello attuale. Si veniva dalla sbornia dei successi della new-economy informatica e le varie leadership europee di centro-sinistra degli anni 90, dopo aver messo in soffitta conflitto di classe ed anche solo sincere prospettive socialdemocratiche, ripetevano senza interruzioni i nuovi dogmi. Cercavano di convincerci che il libero mercato e la globalizzazione ci avrebbero accompagnati verso un futuro di benessere e libertà; che il welfare e i diritti del lavoro erano un orpello novecentesco e che la flessibilità era una opportunità per una vita avventurosa e dinamica. Il corteo metteva a nudo le menzogne più infide, ma lasciava lacunoso un aspetto fondamentale: mancava la coscienza che la riduzione di natura amica e il suo degrado fossero il frutto della crescita dominante e che una nuova ingiustizia, quella climatica, avrebbe scortato l’ingiustizia sociale. La marcia dei migranti il 19 luglio 2001 a Genova, ad esempio, esternava il massimo di fraternità interna, ma incontrava una insipida collateralità del mondo sindacale.
Credo che tra gli obbiettivi della repressione e della mattanza organizzate e premeditate nei giorni genovesi ci fosse quello di avvisare, in particolare le nuove generazioni, che tra occupazione e ambiente, agricoltura industriale e cura della natura, speculazione immobiliare e biodiversità, i secondi termini dovessero essere oscurati per essere funzionali alla crescita e ai profitti. Nel 2001 eravamo ancora nel campo della geopolitica, prima che gli anticipatori dell’ecologia integrale e poi Francesco e Greta ci portassero in quello della biosfera. Era – di fatto – ancora una cultura antropocentrica e patriarcale ad alimentare il potere in economia e politica.
Quando portammo le foto di Genova (Berlusconi-Fini) al Forum Sociale di Porto Alegre del 2002 (Lula) i brasiliani mostravano verso quelle immagini lo stesso orrore con cui noi guardiamo oggi le foto dei seppellimenti dei morti di Covid a Manaus (Bolsonaro). In pochi decenni i cambiamenti sono insospettabili e sempre marchiati dalla violenza, che tuttavia non può che stemperarsi se si pensa alla sopravvivenza come chiave del futuro. Il cartello del Genoa Social Forum teneva insieme ben 1.187 soggetti politici, sociali e associativi i più diversi l’uno dall’altro. Un fronte ampio e composito, mai più ricostituitosi a quelle dimensioni, ma sedimentatore del metodo della convergenza e che, dopo aver retto in qualche modo la repressione del G8, nei due anni seguenti sarebbe stato capace di portare in piazza milioni di persone nelle battaglie sociali come quella per la difesa dell’articolo 18.
Solo 53 giorni dopo il G8, l’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York ci porterà diritti allo scenario della guerra globale permanente. E in effetti va a compimento una “contronarrazione” da parte dei media del potere che già si era avviata nei giorni di Genova: i disordini anziché l’enorme e pacifico corteo che l’ha attraversata; il crollo delle Torri stipate di vita, di commercio, di relazioni e di benessere anziché l’attacco al simulacro della potenza militare del Pentagono; le immagini arroganti e demoniache, prese dagli archivi, di Bin Laden e di Mohamman Omar anziché le riprese in diretta di Al Jazeera dei derelitti civili morti a Kabul; e, in accompagnamento i talk show sempre regolati dalle stesse maschere, anziché le trecentomila persone che a Perugia marceranno due mesi dopo Genova contro la guerra.
Contrapponendo sapientemente immagini a contrasto, si vuole imporre al ragionamento critico di non posarsi con la sua autonomia sull’impressionante concatenamento dei fatti e farne memoria critica. Eppure, non si può affatto trascurare che a Genova si consolida e nasce una narrazione che oggi, di fronte alle emergenze del cambiamento climatico e dell’estrema ingiustizia sociale, riprende il suo corso con accenti diversi ma con lo stesso sapore di sfida campale ai governi del pianeta. Ora sono tempi nuovi e quei semi stanno faticosamente riapparendo.
Il G8 rimane un punto di svolta. Un annuncio di un cambiamento strutturale che sta diventando maturo anche dopo la pandemia. Ed esserci ora, come allora, quando la posta è alta e non tirarsi indietro è, comunque, lasciarci dietro un germoglio da curare per chi verrà e non farsi strappare da chi le gemme le fa bruciare in una stagione in cui il clima ormai colpisce inesorabile.
L’articolo Il G8 di Genova è stata un’occasione che si è scientemente fatta implodere proviene da Il Fatto Quotidiano.
In due giorni successivi sono uscite due comunicazioni su giornali nazionali che non potrebbero essere meglio rappresentative di un conflitto che finalmente giunge fino ai piani alti dei decisori e che ha al centro il mantenimento o l’esclusione del gas come risorsa strategica nella transizione. Da una parte (7 luglio) una banale esposizione di un giornalista del quotidiano confindustriale (Sole 24 ore) sulla decisione di Eni di produrre a Ravenna energia da metano con sequestro della CO2. Dall’altra (8 luglio) un’intervista sulla Nuova Sardegna dell’ad di Enel Francesco Starace sulla emancipazione dai fossili della Sardegna, per farla diventare territorio ad esclusiva fruizione di energia da vento, sole, acqua. Le posizioni dei due enti energetici multinazionali italiani non potrebbero essere più distanti.
Vediamone le implicazioni, pur tenendo conto che le decisioni finali dovrebbero dipendere dalla politica e dal governo, tutt’ora molto confusi e reticenti.
Difficile a mio parere imbattersi in articoli più imbarazzanti di quello apparso sul Sole 24 Ore del 7 luglio 2021 a firma di Jacopo Giliberto. Si racconta di come sia inevitabile ed anche conveniente sequestrare CO2 prodotta da metano per riempire caverne sottomarine svuotate precedentemente del gas che contenevano. E’ talmente irriducibile la convinzione degli ispiratori dell’articolo di dire “verità” inoppugnabili, da suggerire nel sottotitolo un tempo di lettura senza respiro né confutazioni: 4 minuti… e via andare!
Il linguaggio è militaresco e in alcuni dettagli evoca sigle da controspionaggio: “guerra contro il clima”, “sfida della cattura dell’anidride carbonica, il gas accusato di riscaldare il clima”, “stoccaggio geologico di anidride carbonica nella concessione di coltivazione (dall’apparenza misteriosa n.d.r.) A.C 26.EA”.
In sostanza, Eni ha richiesto la licenza per sotterrare CO2 in un vecchio giacimento vuoto di metano sotto il fondo dell’Adriatico al largo di Ravenna. Si ammette, tuttavia, che i finanziamenti europei previsti nel Pnrr verrebbero esclusi e che, anzi, l’Ue ha in previsione di far lievitare i costi delle emissioni climalteranti con pesanti costi per le aziende ed “il rischio di farle uscire dal mercato fino a portarle al fallimento”. Naturalmente, non si spiega perché le combustioni di gas fossile vadano irreversibilmente eliminate, non nell’interesse delle imprese, ma in quello dei cittadini e dei lavoratori. La cattiva fama del CCS è “colpa dei comitati Nimby e di alcuni ecologisti che ritengono il pompaggio di CO2 nel sottosuolo un palliativo costosissimo destinato a mantenere in vita un modello di produzione e di consumo da loro disprezzato”. Da tempo non leggevamo argomentazioni così grossolane e offensive rispetto all’informazione cui i cittadini e le generazioni che verranno avrebbero diritto.
In sostanza, ci si chiede di svuotare prima i giacimenti di metano per produrre energia attraverso la combustione e, successivamente, riempire quelle stesse caverne, magari sottomarine, con un gas velenoso e più pesante dell’aria, secondo un ciclo a bassa efficienza ed alti costi, che crea rischi alla salute e alla stabilità dei suoli, pur di consumare riserve fossili che dovrebbero – quelle sì – rimanere sottoterra!
Ci metteremmo così alla pari – dice il Sole – con le licenze che Eni sta già avanzando nel Regno Unito, in Australia e a Timor Est.
Sorprendente invece, ma non inaspettata, l’intervista a Starace su Nuova Sardegna: “Enel farà della Sardegna un polo verde, incrementando l’elettricità, rinunciando al carbone e puntando su rinnovabili ed accumuli. Anticiperemo – dice l’ad della multinazionale italiana – i tempi della decarbonizzazione con progetti fattibili, credibili, sostenibili sia ambientalmente, che economicamente e con nuove assunzioni e nessuna trasformazione delle centrali a carbone con metano”. E questo da subito, cioè da qui al 2030. Alla domanda: perché niente gas, la risposta è inequivocabile: “Non ha senso investire nel gas, quando si pensa che servirà a stabilizzare il sistema solo per un breve arco di anni. Si tratta di cambiare per sempre i paradigmi ambientali locali e creare una filiera con un indotto più che doppio e una occupazione tra i 10mila e i 15mila addetti qualificati e specializzati.”
Credo che le due comunicazioni, a distanza di due giorni, suonino come musica alle orecchie di tutto quanto si è mosso a Civitavecchia contro la destinazione del sito oggi a carbone verso nuove combustioni di gas fossile. In fondo, la riconversione energetica di quel polo in riva al Tirreno ha molte analogie con la situazione sarda e gode, soprattutto, di un movimento vivo con un rapporto con l’intera società e le sue istituzioni, che rappresenta una vera e propria coalizione sociale, con comitati locali, sindacati, associazioni ambientaliste, apporti di esperti e ricercatori, che concordemente hanno già formulato un progetto alternativo al turbogas, con eolico sul porto, fotovoltaico galleggiante al largo e accumuli in base a pompaggi e storage di idrogeno.
Ovviamente, l’attesa è che si dica qualcosa anche dalle parti dei ministeri e del governo, dopo che la Regione Lazio e il Comune si sono fatti interpreti di quello che Starace – in piena sintonia con il Next Generation UE – ha definito un cambio dei paradigmi ambientali locali.
L’articolo Eni per il gas, Enel per l’elettrico: i due enti energetici non potrebbero essere più distanti proviene da Il Fatto Quotidiano.