Transizione energetica, ripartiamo da Civitavecchia o dai bilanci delle multinazionali?

È impressionante la rincorsa di Eni, Enel, Edison e A2A a tappare con impianti di combustione a metano tutti i buchi lasciati liberi dall’evanescenza e dalle ambiguità della programmazione energetica del Pnrr italiano, a conferma delle deficienze già riscontrate nel Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima). Tuttavia, mentre nel caso del piano energetico nazionale le aziende energetiche decidevano sui loro tavoli e con la complicità di qualche ministro, questa volta possiamo attestare che “c’è pure un giudice a… Bruxelles!” cui intestare, senza troppe illusioni, almeno una coscienza ecologica popolare, spinta dalla brusca sterzata del clima che ad ogni estate si veste di temperature e incendi impensabili.

Tra clima e settori fossili non corre buon sangue ed è per questo che ogni nuovo investimento in metanodotti e centrali va fatto in fretta e in sordina. In un batter d’occhio il nuovo MiTE ha autorizzato la riattivazione di quattro gruppi a gas da 150 MW a Montalto di Castro, mentre per Tavazzano e Marghera è già previsto l’ammodernamento dell’impianto a metano esistente con le nuove turbine di Ansaldo, annunciate anche per Fiumesanto in Sardegna. Analoga storia per Presenzano, dove verrebbe attivata una nuova centrale a gas (760 MW), che Edison ha in progetto di costruire con inizio lavori già a gennaio 2020 e da mettere in esercizio entro 30 mesi.

In compenso per Civitavecchia, sebbene una vasta coalizione sociale, gruppi di ricercatori e ampie rappresentanze politiche avanzino responsabilmente progetti alternativi e vantaggiosi di fotovoltaico, eolico galleggiante, storage in pompaggi e idrogeno, non arriva il minimo sentore di reazione dai tavoli ministeriali di Cingolani (rinnovabili) e Giovannini (accesso ai corridoi marini). Lo stesso Mario Draghi, omaggiato da Ursula von der Leyen per aver predisposto nel tempo previsto l’accesso ai fondi europei, sembra non sentire la necessità di sottrarre agli enti energetici la libertà di sforare i limiti europei per eccesso di emissioni di climalteranti.

È come se il Presidente del Consiglio non si sentisse in dovere di dar seguito alla transizione energetica che ha annunciato all’atto del suo insediamento. Contribuisce così, nella colpevole svagatezza della stampa e delle forze al governo, a depotenziare l’occasione straordinaria offerta dal Next Generation Eu di decarbonizzare una delle economie più in crisi nel continente. Non solo sul fronte del bilancio, ma anche su quello dell’occupazione, dell’innovazione e delle politiche industriali da proiettare quanto prima verso l’orizzonte della neutralità climatica.

Non si vuole riconoscere che un Programma con i caratteri strutturali di una Ripresa e di un nuovo Sviluppo debba contare, non tanto per l’effetto sui bilanci degli enti energetici, quanto per la realizzazione di progetti concreti, vantaggiosi e puntuali, anche nei valori finanziari previsti, assunti da soggetti attuatori trasparenti come dovrebbero essere Ministeri, Regioni, Province, Città. Soggetti che selezionano bandi secondo procedure pubbliche, sostenute – e se occorre contestate – da una campagna che preveda un percorso di auditing e consultazione dei territori, come luoghi di una pianificazione integrata, verificabile in termini di bilancio energetico e climatico ex ante ed ex post.

Se non si promuove una mobilitazione vera e costruttiva dei tanti soggetti istituzionali associativi, sindacali, imprenditoriali, culturali e scientifici interessati e delle istituzioni del territorio “in parallelo” allo Stato, non ci sarà integrazione fra i progetti e prevarrà anche questa volta, con una emergenza incombente sotto gli occhi, una separazione tra politica e società.

La nota emessa dalla Ue a proposito dei trucchi messi in atto da Eni per ottenere finanziamenti per l’idrogeno da metano è sconsolante, come è scoraggiante la pretesa dei nostri “cugini” francesi, che vorrebbero classificare “verde” il nucleare. Si cammina con la testa voltata all’indietro. A riprova, nel documento che si può recuperare al punto 4.4 di “Doc. All.: SWD (2021)165 final”, sotto il titolo “Non arrecare un danno significativo”, l’Ue avverte che “gli investimenti nell’idrogeno saranno limitati all’idrogeno verde e non conterranno idrogeno blu né coinvolgeranno il gas naturale”.

Quindi, Ravenna con Ccs (Carbon capture and storage), Taranto con idrogeno blu e i progetti di elettrolizzatori funzionanti con corrente da centrali fossili non avranno sostegno né finanziario né politico dall’Europa. Non solo, ma anche la quota residua di produzione elettrica da metano al 2030 prevista da Eni, che non assicura il 55% di riduzione di gas serra, non s’ha da fare. Ad ulteriore ostacolo va considerata la notizia data da Reuters il 25 giugno 2021 e ripresa da Euractiv di una rilevante infiltrazione in atmosfera in siti petroliferi e metaniferi italiani.

Dopo che un tribunale olandese ha intimato alla Shell di ridurre del 45% le emissioni di CO2 al 2030, anche il Consiglio di Stato francese concede al governo 9 soli mesi per adeguarsi agli obiettivi climatici dell’accordo di Parigi. In questi stessi giorni in Italia un gruppo di docenti universitari, ricercatori ed esponenti di associazioni ha promosso una diffida legale nei confronti di Eni. “Mentre le grandi compagnie mondiali nel 2020 hanno ridotto i loro investimenti nel settore Oil&Gas di ben 87 miliardi di dollari, Eni, grande Società energetica italiana partecipata dallo Stato, continua a ignorare il recente rapporto Iea che ammonisce che nel percorso della neutralità climatica al 2050 non c’è più spazio per nuovi investimenti su petrolio e metano”. Della diffida sono stati notiziati il Presidente del Consiglio e i ministri competenti.

Ripartiamo da Civitavecchia o dai bilanci delle nostre multinazionali energetiche che solo all’estero, senza il capacity market, espandono il loro portafoglio di rinnovabili?

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Intervista Mario Agostinelli a Vatican News

 VATICAN NEWS

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-06/caldo-record-in-canada-g20-neutralita-climatica-entro-2050.html

Agostinelli (Associazione Laudato Sì): poveri più colpiti dai cambiamenti climatici

“Il Papa lo dice chiaramente nell’Enciclica Laudato sì , questi cambiamenti non riguardano solo l’uomo ma tutta la biosfera, al punto tale da mettere in discussione la vita; non si pensa che una variazione di due gradi può essere letale e i luoghi dove si abbatte maggiormente questo fenomeno sono quelli affollati di poveri”, spiega a VaticanNews  Mario Agostinelli, presidente dell’Associazione ‘Laudato Sì – un’alleanza per il clima, la terra e la giustizia sociale’, con sede a Milano presso la Casa della Carità.

Aumento temperature alimenta le migrazioni

Le popolazioni più povere non hanno mezzi per attenuare ed adattarsi ai cambiamenti climatici, per questo motivo Agostinelli prevede “migrazioni ancora più intense e concentrate”. “Clima, migrazioni e difesa della vita sono tre temi connessi”, prosegue Agostinelli, “l’emigrazione è il tentativo di superare le avversità della natura, che è diventata materia di scambio e speculazione”, “dobbiamo quindi cercare di consumare in modo diverso e minori quantità di risorse”.

Cambiare la produzione e le relazioni

Secondo il presidente dell’Associazione Laudato Sì è possibile raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050, fissato dal G20, “a patto che non sia un alibi per non cambiare da subito il sistema produttivo” con una riconversione energetica in direzione delle rinnovabili: “Noi stiamo chiedendo che il gas rimanga sottoterra”. Agostinelli sottolinea che l’agricoltura e la pesca subiscono un‘accelerazione del mutare dei cicli naturali ancora più impattante, a questo si aggiungono eventi climatici sempre più estremi: “Se non si interviene con un contrasto a livello globale a breve potremmo parlare di sopravvivenza al posto di sviluppo e questo non è mai successo nella storia dell’umanità”. “Ecologia integrale – spiega infine Agostinelli – significa portare un cambiamento non solo della produzione ma nelle relazioni dell’essere umano, basta pensare alle emissioni prodotte dalle guerre”.

Acqua, nucleare, beni comuni – Indietro non si torna

A DIECI ANNI dalla grande vittoria del REFERENDUM dobbiamo continuare a lottare per dire no alla mercificazione della vita, per respingere le mani delle multinazionali che puntano al profitto. VOGLIAMO un Recovery plan diverso, fondato sui diritti, sul rispetto degli equilibri naturali, con una transizione ecologica vera che garantisca il nostro futuro insieme a quello di tutti i viventi.

Transizione ecologica: la gestione del ministro Cingolani non appare convincente

Roberto Cingolani ogni giorno descrive la sua missione con varie suggestioni (“fusione nucleare, idrogeno verde, impresa ciclopica”) ma con al fondo un tratto ben distinguibile e non accettabile. Il ministro non interviene nelle scelte con la drammaticità imposta dall’urgenza della crisi climatica: al contrario, confida in una chiave esclusivamente tecnologica per affrontare la “compromissione della termodinamica del pianeta” (parole sue).

L’assetto accentratore con cui l’esecutivo Draghi descrive e imposta la ripresa post pandemica gli offre un palcoscenico dal quale detta le sue formule magiche, visto che i progetti di rilancio del Paese non contemplano il coinvolgimento della società o una dialettica tra punti di vista, ma sono ispirati dai grandi gruppi, con agganci internazionali e sensibili alle lobby multinazionali, talvolta in contrasto con le direttive europee, soprattutto in materia ambientale.

Il ministro, partendo dall’affermazione che entro il 2030 l’Italia dovrà installare 70 GW di rinnovabili (moltiplicando per 10 gli attuali investimenti), ha collocato successivamente al 2030 la vera decarbonizzazione della produzione elettrica e dell’industria. In sostanza, si tratta dell’avallo alle resistenze conservatrici dei gruppi energetici nazionali ed internazionali, mentre occorre una svolta e un cambiamento drastico di paradigma entro il 2025. Così si copre il più banale passaggio dal carbone al gas, come richiesto in ogni sede dai vertici di Eni e di Enel. Quando poi si afferma che dopo il 2030 avremo altri 25 anni per uscire dalle fonti fossili si “buca” il 2050, la “dead line” posta dalla Ue.

Che questo percorso sia quello che paventiamo, lo dimostra in alcune pieghe il “decreto semplificazioni” appena varato: il nostro Paese non vuole prepararsi alle rinnovabili senza l’ausilio dei combustibili fossili e, quindi, ci si lamenta dei ritardi nei processi autorizzativi per le rinnovabili, ma si allentano le regole di controllo e di protezione dell’ambiente e della salute nel caso specifico di nuove centrali (art.18). Perfino sul nucleare, pur sapendo che la questione in Italia è stata chiusa da ben due referendum, il ministro è stato molto blando nei confronti del tentativo della Francia e di altri paesi di far passare a livello europeo la fissione dell’atomo come fonte “a basso tenore di carbonio”, trascurando la letalità del suo impiego pur di farla accettare, al pari del Ccs, come fonte per produrre idrogeno blu anziché verde. Cingolani avrebbe dovuto dire semplicemente che l’Italia porrà il veto a qualunque tentativo di alimentare un futuro altroché residuale per il nucleare in Europa.

Intanto, c’è un inspiegabile ritardo del Governo Draghi nell’approvare (doveva essere inviato a Bruxelles il 31 marzo scorso) il piano per decidere dove installare l’eolico off-shore, mentre lo stesso fotovoltaico richiede una accelerazione nelle autorizzazioni, con la collocazione prioritaria su superfici esistenti e in aree industriali dismesse. In realtà, si coprono le resistenze al superamento dell’uso di tutte le fonti fossili il prima possibile. I gruppi pubblici, che dovrebbero essere i primi ad adeguarsi alle direttive di un governo che fa riferimento al Green Deal Europeo, tentano di eluderne l’indirizzo entro i confini nazionali, mentre al di fuori di essi, dove risulta forse più complicato fare “greenwashing”, investono solo in rinnovabili!

Così, per le centrali elettriche a carbone, dove il “phase out” è obbligato, si pensa al rimpiazzo di potenza con metano anziché passare direttamente a rinnovabili, pompaggi o idrogeno verde, ridisegnando così consumi, produzioni e buona occupazione in territori a lungo vulnerati dalla combustione dei fossili. Il gas naturale ha chiuso il suo ciclo: insistere con nuove infrastrutture, come si vorrebbe fare con i turbogas a Civitavecchia, clamorosamente in contrasto con la popolazione, le istanze sociali e le istituzioni, significherebbe pregiudicare una riconversione ecologica, laddove è già matura, a partire dal mondo del lavoro.

Le politiche industriali stesse non possono aspettare il 2030 per cambiare. Pensiamo all’Ilva di Taranto: dopo la recente sentenza occorre decidere il suo futuro, contemporaneamente occupazionale ed ambientale. Lo Stato è già entrato in Ilva con una partecipazione azionaria rilevante e presto sarà un’azienda pubblica a tutti gli effetti che potrà riprendere un’attività solo se compatibile con la salute. In questo caso, l’uso delle rinnovabili e dell’idrogeno è forse l’unico asse di fondo su cui provare a riprogettare una destinazione, lungo l’intero ciclo che tocca l’acqua, i gas in atmosfera, la bonifica del suolo.

La gestione della transizione ecologica che si sta evidenziando non appare convincente. Il ministro Cingolani ha il dovere di esplicitare come verranno impiegati oltre 50 milioni al giorno per 5 anni previsti dal Pnrr. La velocizzazione non può risolversi in un favore ai colossi energetici che oggi svolgono un ruolo di resistenza verso il cambiamento, la difesa del clima e l’innovazione, frustrando il ruolo delle istituzioni territoriali e la presa di coscienza delle collettività.

Scritto in collaborazione con Alfiero Grandi

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