Abbiamo delle soluzioni. Leggi le nostre richieste “Energie pulite per l’Italia”.
Chi ci sta a fermare l’avanzata di petrolio e carbone e a sostenere l’energia pulita? Leggi cosa risponde la politica…
Abbiamo delle soluzioni. Leggi le nostre richieste “Energie pulite per l’Italia”.
Intervista a cura di Luca Aterini – www.greenreport.it
Gli ultimi dati Istat rivelano per l’Italia un tasso di disoccupazione record, registrato al 10,8% (35% negli under25): ufficialmente, sono 2,8 milioni gli italiani senza un lavoro. Un incremento del 25% in 12 mesi, e il peggior dato da 20 anni. E le previsioni per il 2013 sono ancora più nere. Nel frattempo, ampie parti del Paese crollano sotto il peso crescente del dissesto idrogeologico e della mancanza di cure per il fragile territorio dello Stivale. Molto fragile: nella Toscana Felix la percentuale di comuni a rischio idrogeologico raggiunge addirittura il 98%, e le ultime alluvioni hanno dato ampia e triste prova di cosa questo significhi. Il territorio devastato appare uno specchio del tessuto sociale italiano che si disfa, sotto i colpi pesanti di una crisi economica che continua da troppo tempo. Né la cronica disoccupazione né la mancanza di prevenzione e tutela del territorio (davanti al mutevole scenario dettato dal cambiamento climatico) sono fatalità ineluttabili. È nostro dovere prendere coscienza di questa realtà, e agire di conseguenza per porvi rimedio. Come? Il sociologo Luciano Gallino ha qualcosa da dire, in merito.
Ritiene lecito affermare che le conseguenze delle bombe d’acqua che hanno colpito l’Italia e l’aumento del termometro della disoccupazione siano legati da uno stesso filo rosso? Quello dell’inazione, della mancanza di pianificazione.
«Le alluvioni che hanno recentemente colpito il nostro Paese sono in parte un risvolto del cambiamento climatico, che ne aumenta frequenza e intensità. Non dobbiamo dimenticare che questo fenomeno dipende anche dalla nostra attività economica, con l’immissione in atmosfera di gas climalteranti. A loro volta, le conseguenze delle alluvioni sono amplificate dalle mancate contromisure: non abbiamo agito per tutelare il nostro territorio dal dissesto idrogeologico, spingendoci spesso in tutt’altra direzione. E anche per quanto riguarda la disoccupazione, non abbiamo messo in campo politiche efficaci per contrastarla».
Un grosso aiuto, per tentare di dare una riposta ad entrambi i problemi, potrebbe essere comune. Mi riferisco alla sua proposta di un’Agenzia per l’occupazione, lanciata ormai mesi fa. Potrebbe riassumerne le fondamenta, e i costi?
«Quella di un’agenzia per l’occupazione è una proposta che fa riferimento ad una vasta letteratura e a precedenti concretamente realizzati, come negli Stati Uniti durante il New Deal, quando tre agenzie statali – la Federal emergency relief administration, la Civil works administration e la Works progress administration – riuscirono a creare molti milioni di posti di lavoro. Nel contesto in cui ci troviamo, raggiungere numeri enormi sarebbe impossibile, ma creare 1 milione di nuovi posti di lavoro sarebbe l’obiettivo minimo a cui tendere.
Tramite un’agenzia per l’occupazione, declinata in vari centri a livello degli enti locali, lo Stato dovrebbe assumere direttamente disoccupati e precari, impiegandoli nei molti lavori ad alta intensità di lavoro – anche qualificato – di cui il nostro Paese ha bisogno. Tra questi sarebbero sicuramente da annoverare interventi per il riassetto idrogeologico del territorio, ma anche quelli inerenti la ristrutturazione dell’edilizia scolastica, o della tutela dei beni culturali, spesso abbandonati in modo delittuoso, e altri ancora.
A proposito dei costi, l’agenzia dovrebbe offrire un salario medio, e comprendere il costo dei contributi sociali. Ipotizzando una cifra pari a 25mila euro a occupato, per un milione di disoccupati avremmo un totale di 25 miliardi. Questa cifra non sarebbe però un costo, ma creerebbe anzi ricchezza: andrebbe nelle tasche di cittadini altrimenti disoccupati, intervenendo a favore della loro capacità di spesa e dunque alleviando quel deficit di domanda che è il grande freno a fermare la ripresa dalla crisi economica. Inoltre, molte aziende private sarebbero felici di partecipare dei costi, assumendo una parte dei disoccupati a fronte del pagamento di una parte dello stipendio da parte dello Stato. Un ulteriore risparmio verrebbe poi, ad esempio, dalla cessazione dei sussidi di disoccupazione per i neoassunti».
I detrattori sarebbero pronti a ribattere: non ci sono i soldi per realizzarla; non possiamo, abbiamo firmato il fiscal compact richiesto dai nostri partner europei; lo Stato non può assumersi un tale ruolo ed è già un datore di lavoro, spesso cattivo. Cosa risponderebbe loro?
«Innanzitutto, che la firma del fiscal compact è stata una forma di suicidio economico, e si rivelerà inattuabile. Per rispettarne i dettami, dovremmo portare avanti tagli alla spesa pubblica enormemente maggiori rispetto agli attuali (per i quali comunque già si parla di lacrime e sangue), nell’ordine dei 50 miliardi di euro l’anno. Soltanto prospettando per l’Italia un futuro di miseria nei prossimi 20 o 30 anni saremmo forse in grado di farvi fronte.
Riguardo il resto delle obiezioni, rispondo che l’ostacolo più serio all’implementazione di un’agenzia per l’occupazione non sono i fondi, ma le idee attualmente dominanti degli economisti e assimilate da nove politici su dieci. La visione neoliberista dell’economia e delle risposte alla crisi è un’ideologia – quella dell’affamare la bestia, lo Stato, per allargare i margini dell’interesse privato – è una visione del mondo che non ammette risposte alternative. Le risorse economiche, al contrario, volendo si potrebbero trovare. Con più di 7 milioni di persone che non hanno uno stipendio o lo hanno troppo basso e precario, in Italia, crede che sia opportuno acquistare 90 cacciabombardieri F35, per una spesa di circa 15 miliardi di euro? Oppure investire una cifra che oscilla attorno ai 20 miliardi di euro per ridurre di mezz’ora il tempo di percorrenza Torino-Lione, realizzando la Tav? Non sono questi gli interventi di cui ha bisogno il Paese».
La sua proposta per sanare almeno in parte la ferita economica e sociale della disoccupazione sembra molto distante da un’altra ipotesi molto in voga di questi tempi, la flexicurity rilanciata da Pietro Ichino e Matteo Renzi…
«Direi che si tratta di cose completamente diverse tra loro. È necessario concentrasi sulla difesa del lavoro, non del singolo posto di lavoro. Ma le politiche attive per l’occupazione proposte sono paragonabili ad una corsa di una folla di persone alla caccia di un posto a sedere su di un aeroplano che ha una capienza di cento posti. Se ad attendere al gate ci sono cinquecento persone, si promette un posto di lavoro solo ai primi cento. Gli altri rimangono a terra, non si crea nuovo lavoro».
Secondo l’Ilo, il passaggio verso una economia più verde potrebbe generare tra i 15 e i 60 milioni di nuovi posti di lavoro nel mondo nei prossimi vent’anni. Lasciarci la crisi alle spalle riconvertendo in chiave ecologica l’economia: condivide questa prospettiva?
«Dipende a quale economia verde si fa riferimento. Fare riferimento a pannelli fotovoltaici e pale eoliche, piuttosto che ad altro, non è un grande passo avanti se le dimensioni energivore della nostra economia rimangono immutate. Lo stesso vale per le risorse materiali, oltre che energetiche. Oltre al nostro, non abbiamo un altro pianeta dal quale attingerne. Non auspico certo una vita ascetica o di rinunce, ma credo che la riconversione ecologica dell’economia debba mettere al centro la riduzione dei consumi per spostare l’attenzione sulla qualità della vita. È impensabile sperare di tornare a produrre e consumare come in passato. Abbiamo davvero bisogno della moltitudine di beni non durevoli – come un telefonino da cambiare dopo pochi mesi dall’acquisto – o di suppellettili dai quali siamo circondati?
Un’inversione di rotta in questo campo presuppone una chiara scelta politica, ma non vedo in giro politici che abbiano il coraggio di farsene carico. Anche i cittadini hanno le loro responsabilità in merito, certo, ma occorre osservare come vengano spesi 600 miliardi di dollari l’anno in pubblicità, per indurre bisogni che probabilmente altrimenti non sarebbero percepiti come tali».
Per perseguire questo obiettivo sono necessarie chiare scelte politiche. Nel frattempo, qualcos’altro cresce senza controllo: nonostante la crisi, il Financial stability board riferisce che – dati 2011 – il sistema bancario ombra vale ormai 67mila miliardi di dollari, con un +6mila miliardi l’anno. È ancora possibile controllare la finanza?
«È un obiettivo fondamentale da perseguire. Non è il primo rapporto che il Financial stability board pubblica su questi toni, ma arriva comunque molto in ritardo. Dall’inizio della crisi, ancora non è stata portata avanti alcuna vera riforma del sistema finanziario. Sono statti compiuti dei tentativi, come nel 2010 negli Usa, col Dodd-Frank Act. Un progetto che si è rivelato eccessivamente farraginoso, e si è arenato. Per non lasciarci andare completamente ad un nero pessimismo, possiamo dire anche in Europa qualche passo avanti è stato compiuto, ma è ancora troppo poco. Alla progressiva liberalizzazione del sistema finanziario ha contribuito la politica stessa a partire dagli ’80, e adesso una forte attività di lobbying neoliberale – dalla produzione di think tank fino a pressioni vere e proprie – combatte strenuamente qualsiasi riforma».
Dal Manifesto per un soggetto politico nuovo a Cambiare si può – che si riunirà il 1° dicembre – passando per A.l.b.a.: c’è la volontà di costruire una proposta politica che si cristallizzi attorno a questi temi?
«Nell’appello Cambiare si può! Noi ci siamo si ritrovano molti elementi fatti propri da A.l.b.a. Dopotutto, molte le firme che hanno aderito all’uno si ritrovano anche nell’altra. A.l.b.a. si configura però come una proposta politica per il futuro, con un orizzonte a lungo termine. “Cambiare si può” guarda ad una lista civica per le prossime elezioni politiche, che si terranno tra pochi mesi. È una prospettiva difficile, ma penso che entrambe queste realtà portino avanti una proposta – confrontata col documento programmatico del Pd, ma anche con quegli elementi fatti propri dal Movimento 5 Stelle – più attenta ai problemi reali del Paese e, se posso dirlo, anche più di sinistra. L’appello ha già registrato migliaia di firme: il 1° dicembre si terrà la prima Assemblea nazionale, al teatro Vittoria di Roma. Vedremo come andrà, ma sono convinto che ci sarà un’adesione importante, soprattutto da parte dei giovani».
di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano
In queste note propongo e rielaboro le interessanti riflessioni di Samuele Giacometti, inviatemi in relazione ad un mio post di due settimane fa. Allora venivano discussi i costi sociali delle emissioni di CO2, non limitandosi al caso più eclatante delle combustioni di petrolio, gas e carbone, ma spingendosi a considerare anche il contributo delle biomasse al cambiamento climatico. La domanda posta dal signor Giacometti è la seguente: “È possibile quantificare il costo a carico della società per ogni tonnellata di CO2 comunque prodotta?”.
Il cosiddetto “Social cost of carbon” (SCC), il cui studio è stato addirittura richiesto dall’Amministrazione americana Bush prima e Obama poi, è considerata una misura di strategica importanza, perché quantifica il vantaggio economico qualora si riducessero le emissioni di CO2. Per calcolarla sono stati considerati gli effetti sulla salute, le ripercussioni economiche e altri effetti che i cambiamenti climatici possono causare all’umanità. Nel 2009, l’agenzia intergovernativa Usa aveva fissato il valore di riferimento a 21$ per tonnellata di CO2 mentre il Regno Unito a 83$. Due studiosi americani da me citati nel post precedente fanno oscillare il valore SCC da 55 a 266$. Come si vede, le differenze sono enormi e dipendono dagli effetti presi in considerazione.
Il signor Giacometti è un ingegnere meccanico che nel 2005, per motivi di lavoro, si è trasferito da Bologna a Prato Carnico (Ud) sulle Dolomiti Pesarine e ha progettato una casa interamente di legno. La casa è costruita con un metodo certificato, illustrato durante i lavori di Rio+20,come esempio di reale sostenibilità ambientale, sociale ed economica. L’esperienza ha tratto origine dall’impiego meticolosamente documentato da 43legno-pianta dei boschi gestiti dall’Amministrazione Frazionale di Pesariis.
Il fatturato generato fra le imprese e gli artigiani protagonisti dell’intera filiera di trasformazione del legno da pianta a casa è stato pari a 90.000 euro, arredamento compreso. Tutti questi operatori vivono e operano fra la Val Pesarina e il Comune di Sauris (UD) in un anello di soli 12 km. La buona riuscita dell’impresa, valutata nell’ambito dell’intero Ciclo di Vita (Life Cycle Assessment), è stata certificata e premiata come caso esemplare sulla base di dati quantitativi, confrontati con quelli di altre abitazioni similari secondo un approccio rigorosamente scientifico certificato dall’Enea. Un successo, quello della casa di Sauris, riconducibile all’origine locale del legname utilizzato per la costruzione e all’assenza di trattamenti chimici applicati su di esso.
Dallo studio è emerso che la trasformazione delle 43 legno-pianta in legno-casa, ha generato un effetto di cambiamento climatico pari solo a 52 tonnellate di CO2eq. Il costo sociale della costruzione ammonterebbe a 14.000$ considerando l’ipotesi peggiore (52t x 266$, con il valore di SCC massimo). Attraverso vari scenari di confronto è stato dimostrato che lo stesso legname, trasportato su strada per 1000 km (come accade per gran parte del legname di origine industriale), avrebbe incrementato del 23% gli effetti sui cambiamenti climatici e di circa 3.000$ i costi sociali.
Le conclusioni di questo esame sono interessanti: un oggetto non si può definire “ecosostenibile” solo perché fatto di legno. Occorre sapere da dove viene, in che periodo della sua vita è avvenuto l’abbattimento della pianta di origine e che tipo di trattamenti chimici sono stati adottati.
In definitiva, anche nel caso delle biomasse e delle loro applicazioni residenziali, l’analisi dell’intero ciclo premia le soluzioni a chilometro zero, il mantenimento dell’habitat forestale, il rifiuto di impiegare sostanze derivate dal petrolio. Interessante davvero questo spunto, che si rifà a un’esperienza locale e personale, che fa riflettere come ciascuno possa contribuire a ridurre i 2.300 milioni di tonnellate di CO2 all’anno immesse nell’atmosfera in Italia, pari a un costo sociale minimo di 48,3 miliardi di dollari (SCCUSA=21$) o, più realisticamente, di 610 miliardi (SCCMAX=266).
di Giovanni Carrosio
Molto è già stato scritto sulla Strategia Energetica Nazionale. Si vedano l’intervento di Agostinelli su Pubblico e l’editoriale di Silvestrini sul numero di settembre/ottobre della rivista Qualenergia, che mettono in luce le criticità di una strategia improntata principalmente sul gas e sull’intensificazione di estrazioni petrolifere nel nostro paese. Condividendo nel merito gli interventi citati, preme fare qualche considerazione sulla parte del documento che intende intervenire sugli aspetti di governance, nel quale si paventa una modifica della Costituzione per ri-centralizzare la programmazione energetica nelle mani dei ministeri competenti, al fine di ridurre il potere delle autonomie locali sia nelle fasi di programmazione, che di intervento nelle procedure di valutazione ambientale delle infrastrutture energetiche.
La “modernizzazione del sistema di governance” prevede una serie di interventi importanti: la modifica del titolo V della Costituzione; l’adozione di procedure di coinvolgimento degli enti locali; l’introduzione di procedure autorizzative semplificate per le infrastrutture energetiche strategiche e l’accorciamento degli iter autorizzativi in generale.
Intanto un dato politico che denota una involuzione della capacità della classe dirigente di intervenire in termini di programmazione con una visione di lungo periodo: dopo anni di retorica sull’integrazione europea, sull’Europa delle regioni e delle autonomie locali, con la modifica dell’articolo V della Costituzione si ritorna all’interesse Nazionale, che deve prevalere sui sistemi territoriali locali e sulle dinamiche transfrontaliere. In secondo luogo, nel documento si afferma come sulla modifica della Costituzione vi sia un largo e trasversale consenso in parlamento. Sarebbe bene capire che cosa ne pensano le forze politiche e a questo punto che il dibattito sulla SEN entri con forza nelle primarie di entrambi gli schieramenti.
Bisogna cogliere la filosofia generale della revisione dei meccanismi di regolazione e dei livelli di governo del comparto energetico: la strategia energetica nazionale individua nell’accentramento il sistema di governance migliore per depotenziare la diffusione delle rinnovabili e salvaguardare il tradizionale oligopolio legato alle fonti convenzionali. Ai territori non spetta più la facoltà di programmare, ma soltanto un potere consultivo, perché il piano Passera ha sostanzialmente due obiettivi: combattere il decentramento energetico in atto, che vede interi territori diventare energeticamente autonomi e sovrani grazie alla straordinaria diffusione delle rinnovabili, ed evitare che le autonomie locali intralcino lo sviluppo delle grandi infrastrutture energetiche. Si prevede un passaggio da una governance prevalentemente orizzontale ad un sistema di governo gerarchico, dove il centro decide e le periferie si adeguano.
Il ruolo dei territori diverrebbe così marginale: essi andrebbero coinvolti soltanto al fine di ratificare le scelte prese ai piani alti dei ministeri, attraverso strumenti capaci di prevenire proteste a priori dovute ad una “cattiva informazione”. Si cita persino uno strumento partecipativo, il “dibattito pubblico informativo” (ben diverso dal dibattito pubblico alla francese), come marchingegno di governo funzionale a favorire l’inserimento delle grandi infrastrutture energetiche (metanodotti, rigassificatori, trivelle, impianti di raffinazione) nel territorio. Dopo anni di studi sui fenomeni partecipativi e sui movimenti territoriali, francamente stupisce una visione così grezza della partecipazione, banalizzata nell’adozione di strumenti di coinvolgimento volti a superare “la mancanza di informazioni affidabili e concrete”. Come se i movimenti di protesta fossero mossi da ignoranza e non da approfondita conoscenza. Come se bastasse indottrinare, e non coinvolgere realmente nella formazione delle politiche.
Del resto la filosofia che emerge dalla lettura del documento è questa: il centro progetta grandi infrastrutture energetiche, individua i territori destinati ad ospitarle, tenta di inserirli sui territori in modo consensuale, illustrando i benefici per le popolazioni locali, e “in caso di mancata intesa della Regione, la decisione sia rimessa al Consiglio dei Ministri”.
Siamo di fronte ad una vera e propria offensiva, che vede le procedure autorizzative e le autonomie locali come intralci alla modernizzazione del paese. Francamente non si capisce se vi sia della cattiva fede o una mancata percezione dei fenomeni realmente in atto: calano i consumi di energia, diminuisce progressivamente l’intensità dei picchi di domanda, crescono le energie rinnovabili e decresce il ruolo strategico delle centrali convenzionali. Migliaia di piccole imprese e cittadini diventano produttori di energia, grazie alla installazione diffusa di piccoli dispositivi energetici. Si diffondono progetti di integrazione territoriale delle energie rinnovabili, con l’obiettivo di conquistare spazi di sovranità energetica. Nuove imprese investono in ricerca e sviluppo, creando lavoro e conquistando importanti quote di mercato anche all’estero. È certo che questa esplosione delle rinnovabili fa paura alle grandi lobby dell’energia, delle quali il ministro Passera si presenta come uno strenuo garante. Ma non sono proprio i riformisti di ogni colore ad averci ribadito in questi anni che i processi vanno accompagnati? E sull’energia cosa facciamo, tentiamo di congelare il corso della storia con una modifica delle Costituzione? Per fortuna la costruzione dell’alternativa energetica è un processo che è partito dal basso, che è radicato nei territori e si sta diffondendo a macchia di leopardo formando tanti presidi di democrazia reale – perché produrre energia sui territori significa accrescere la democrazia locale distribuendo il potere economico – che poco badano alle macchinazioni ministeriali.
di Gianni Silvestrini – Qualenergia 19 novembre 2012
La settimana prossima inizia a Doha, nel Qatar, la 18° Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici – COP 18, un passaggio del percorso a ostacoli che entro il 2015 dovrebbe consentire di trovare un accordo globale per contenere le emissioni climalteranti al 2020.
Ma intanto qual è il panorama globale? La Cina, che alla firma del Protocollo di Kyoto nel 1997 aveva emissioni pari alla metà degli Usa, l’anno scorso è stata responsabile del 29% della produzione mondiale di anidride carbonica, più di Europa e Stati Uniti messi insieme. Nel grafico le emissioni in milioni di tonnellate di CO2 dal 1990 al 2010. Impressionante il boom della Cina: l’incremento dell’ultimo decennio supera da solo le emissioni totali degli Usa o dell’Europa (fonte: JRC, European Commission).
Principale imputato il carbone. La superpotenza asiatica lo scorso anno ha consumato 3,7 miliardi di tonnellate, circa la metà della produzione mondiale. Sempre in Cina nei prossimi quattro anni dovrebbero essere realizzate 160 nuove centrali a carbone. Nel grafico il consumo di carbone nel mondo (in miliardi di tonnellate, fonte EIA).
Uno scenario dunque tutto nero? In realtà questo sistema sta scricchiolando. Non solo per i 2.500 minatori che muoiono ogni anno o per le terribili conseguenze sanitarie che stanno provocando vere ribellioni, come quando lo scorso dicembre 30.000 residenti hanno bloccato la costruzione di una nuova centrale nella provincia di Guandong. In discussione sono i profitti. Il rallentamento dell’economia e il blocco delle tariffe stanno infatti provocando grosse perdite ai produttori elettrici cinesi. Così, gli investimenti in nuove centrali a carbone nel 2011 si sono dimezzati rispetto al 2005 e le centrali che verranno completate nel 2012 sono la metà rispetto allo scorso anno.
Nel frattempo continua la corsa delle rinnovabili. Con 63 GW installati alla fine dello scorso anno la Cina ha rafforzato la sua leadership mondiale nella potenza eolica installata e dovrebbe raggiungere 2-300 GW al 2020. Nel fotovoltaico, comparto che vede il Paese asiatico dominare la produzione internazionale di celle e moduli, il mercato interno è appena decollato, 3,5-4 GW installati nel 2012, ma la potenza potrebbe raggiungere 100 GW prima della fine del decennio. Secondo i programmi governativi, nel 2015 il 30% della potenza elettrica dovrebbe essere costituita da rinnovabili e da nucleare (nel 2011 erano stati prodotti 87 TWh atomici e 67 eolici). Nel grafico l’elettricità generata dal nucleare e dal vento in Cina tra il 2000 e il 2011 (fonte Schneider).
Dunque, il sistema energetico cinese è in fase di rapido cambiamento. L’accordo mondiale sul clima dipenderà molto dalla forza che acquisiranno all’interno della potenza asiatica i settori della green economy (rinnovabili, efficienza, mobilità sostenibile) rispetto a quelli dominanti legati al carbone.