Se è vero – come ha sottolineato all’indomani del summit il premier britannico Boris Johnson – che “il carbone è condannato a morte”, la domanda giusta da porsi è: sì, ma quando? Per il gas, addirittura nuova vita e per il nucleare un rinascimento in nuove forme, tutte da mettere in cantiere.
Il discrimine su cui si sono dissolte le aspettative della Cop26 si è mostrato nella sua inconsistenza nella forma di chiacchiere sulla decarbonizzazione; di ostinata finalizzazione al business finanziario e delle multinazionali; di un imprevisto recupero del nucleare quale presunto alleato delle rinnovabili e mallevadore dell’impiego “in via transitoria” del gas fossile.
India, Cina e Stati Uniti, (tutte e tre potenze militari nucleari), con una complicità tacita, eppure questa volta clamorosa, dell’Ue, hanno alla fine stabilito che la ripresa “dopo pandemia” debba rifarsi ai canoni del “prima” e che il paradigma energetico debba rimanere sostanzialmente centralizzato, ad alto tasso di capitale e di emissioni di climalteranti e, in definitiva, nelle mani delle corporation, accorse in massa a Glasgow con oltre 500 delegati: più i colpevoli che le vittime.
L’aver “mantenuto vivo l’obiettivo di contenere le temperature globali al di sotto di 1,5°C – unico significativo avanzamento, a disposizione anche dell’immaginario popolare e perciò difficilmente disgiungibile dal brusco comportamento anomalo della biosfera cui ci stiamo assuefacendo – sarà l’appiglio dei movimenti più vasti e delle alleanze per il clima la terra e la giustizia sociale che si costituiranno anche a livello locale. Tuttavia, non si consegue una meta così impegnativa senza strumenti di verifica internazionalmente riconosciuti, solleciti investimenti solo nelle filiere rinnovabili, convergenze di risorse finanziarie verso i Paesi poveri, cura del vivente in tutte le sue manifestazioni. Da Glasgow esce un mondo incamminato verso un aumento di 2,7 °C a fine secolo.
Dopo Cop26, deve preoccuparci il fallimento del multilateralismo nei negoziati per ridurre le emissioni di gas serra (siamo passati da 350ppm nel 2001 a 417 ppm nel 2021), o, quanto meno, la sua inadeguatezza nel determinare risultati con una tempistica plausibile, riducendosi a dichiarazioni d’intenti fuori tempo massimo.
C’è da chiedersi se dobbiamo continuare a contare su un meccanismo del genere, sostanzialmente utile ai governi per procrastinare gli obblighi di svolta temporalmente indifferibili.
Al contrario che nella “Laudato Sì” – dove l’approccio è contemporaneamente di riconversione strutturale, di ripensamento del rapporto uomo natura, di conversione anche individuale, il meccanismo della Cop non prende in considerazione l’autonomia delle leggi fisiche planetarie e presume che le classi sociali ricche o le economie più forti debbano autopreservarsi lungo cammini propri, che non escludono indifferenza e nemmeno che il tempo stia venendo a mancare.
Credo che la Ue sia l’ambito su cui dirigere un grande movimento ed una lotta che raccordi vari territori con una piattaforma che faccia della giustizia climatica e sociale lo slancio che colleghi alto e basso e, insieme, faccia della svolta culturale e sociale che ne nasce una base per il rinnovamento della rappresentanza politica. I risultati si diffonderebbero per osmosi: la storia umana delle transizioni tecnologiche e delle rivoluzioni sociali lo dimostra, in particolare quando partecipano le nuove generazioni.
Il Foglio del 14 novembre così commentava l’esito della Cop26: “Meno isterismo, più gradualità. Meno ideologia, più spazio ai privati. La transizione del futuro è tutta qui”! Non più, quindi, volgare negazionismo climatico, ma un affidamento all’impresa, alla tecnologia, ai tempi del mercato, incompatibili, come constatiamo, con la sopravvivenza. Non sarà facile “rimontare”. Nessuno verrà a salvarci, se non noi stessi, promuovendo innanzitutto nella scuola e nell’organizzazione del lavoro la conoscenza scientifica, rigorosa e interdisciplinare del capitale naturale che stiamo distruggendo.
Se è dall’Europa che vogliamo ripartire, allora l’inopinata torsione all’indietro di Ursula von der Leyen e Timmermans sulla tassonomia verde, aperta inopinatamente a gas e nucleare proprio in concomitanza coi cedimenti di Glasgow, va decisamente isolata e sconfitta.
In Italia si è già aperta una falla: non a caso Cingolani e Draghi non hanno sottoscritto la presa di posizione di Germania, Austria, Lussemburgo, Spagna Portogallo e Danimarca in una dichiarazione contro l’inserimento del nucleare nella tassonomia Ue, dopo che la Francia ha lavorato dietro le quinte per forgiare un compromesso che soddisferebbe i sostenitori sia del gas che dell’energia nucleare ai fini di ottenere i fondi europei del Next Generation EU.
Mentre il governo italiano è latitante e Scholz, il leader dell’Spd impegnato per le trattative per il nuovo governo tedesco, tace, i legislatori progressisti in Germania e in Parlamento europeo hanno rilasciato una dichiarazione congiunta per intervenire sul dibattito: “La Commissione UE ora vorrebbe catalogare sotto la voce ‘sostenibili’ gli investimenti in nuove centrali nucleari e a gas e questa è un’impertinenza e una inaffidabilità davanti alla comunità mondiale”, afferma Lisa Badum, portavoce di lunga data della politica climatica dei Verdi nel parlamento tedesco. Il 15 novembre 129 ong per il clima di tutta Europa hanno firmato una lettera aperta e lanciato una raccolta di firme, bollando come “vergogna scientifica” la classificazione di sostenibilità del nucleare e del gas “qualificato come attività transitoria fino al 2030 nel caso in cui le emissioni non superino i 100 grammi di CO2 equivalente per chilowattora”. C’è da capire chi ha stabilito e chi certificherà le emissioni per non essere preda di una burla clamorosa: 100gCO2/kWh è un livello entro il quale nessuna tecnologia a gas riuscirebbe a stare, e che secondo certi studi sfora pure il nucleare.
Intanto, stanno partendo le prime sensibilizzazioni di massa che preparano mobilitazioni intransigenti. In Germania un appello contro gas e nucleare ha raggiunto già 80.000 firme in due settimane, mentre in Italia si può siglare un analogo documento su change.org, che ha raccolto in brevissimo tempo oltre 2500 consensi.
L’aria che tira richiede un’attenzione sui punti critici che sono in corso: a Civitavecchia è stato richiesto un nuovo consiglio comunale aperto per tornare a chieder conto del del progetto alternativo al turbogas.
Nel frattempo, nel silenzio svelato dall’editoriale del 17 novembre di Domani, Eni sta ricevendo l’ok del governo nella legge finanziaria per 150 milioni pubblici per la cattura di CO2 a Ravenna. Possibile che tocca protestare solo agli ambientalisti e non ai cittadini delusi e, in particolare, a lavoratrici e lavoratori che si vedono dimezzata l’occupazione e ammalorato l’ambiente in cui vivono, senza svolte significative all’orizzonte?
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