Non è un paese per la Green Economy

di Mario Agostinelli – 30 gennaio 2013

Come abbiamo affermato nel post precedente, l’energia non è un tema di questa campagna elettorale. Sarebbe comunque utile discuterne, poiché è a partire da una piattaforma energetica che un Paese costruisce la propria economia e l’Italia ha una bilancia dei pagamenti fortemente appesantita dalla bolletta energetica. Inoltre, da quanto e da cosa brucia un Paese dipende la qualità dell’ariache respirano i suoi abitanti.

Il governo uscente, purtroppo, ha lasciato i suoi segni sulle energie rinnovabili ma nessuno apre un dibattito su un bilancio negativo che andrebbe urgentemente corretto. In questi giorni l’Enea hafornito dati molto accurati che dimostrano che dal 1990 il livello di efficienza energetica in Italia è diminuito in tutti i settori. Intanto i prospetti del Gse dicono che nel 2012 la quantità dipannelli installati è crollata rispetto al 2011 (si stimano 4 GW rispetto ai 9 allacciati alla rete nel 2011).

Il decreto del 6 luglio 2012 che incentiva eolico, idroelettrico, geotermoelettrico e biomasse ha introdotto limiti alla capacità installata e una pesante burocratizzazione per il sistema delle richieste. Le domande sono state così scarse da essere tutte accettate. Per quanto riguarda l’eolico sono stati ammessi 442 MW, (la quantità disponibile era di 500 MW), per quello sul mare è giunta una sola richiesta per un impianto di 30 MW a Taranto, a fronte di un contingente di 650 MW! Per la fonte eolica si è così passati da una media di installazioni da 1.000 a 250 MW annui.

L’occupazione in tutti questi settori appare seriamente minacciata. D’altra parte il governo dei tecnici ha trattato le rinnovabili considerandole solo una spesa e come tale l’ha tagliata. Nel caso delle rinnovabili, averle considerate solo un costo ha significato ignorare il numero di imprese e posti di lavoro creati, la quantità di energia prodotta, il corrispondente calo dell’import di gas, la riduzione delle emissioni e il calo del prezzo all’ingrosso della corrente. Questo significa aver prodotto un effetto recessivo sull’economia già in drammatico rallentamento. Nel 2011, il solo fotovoltaico aveva generato, a fronte di 4 miliardi di incentivi, 39 miliardi di euro di prodotto interno lordo e 40 miliardi di investimenti. Al contrario degli investimenti tossici delle banche, questi investimenti hanno prodotto energia, lavoro e migliorato l’ambiente.

La situazione è resa ancor più critica dal cappio al collo messo ai Comuni con il patto di stabilità. Nei Comuni non si fa più niente se non riscuotere tasse da inviare a Roma. Dopo l’Imu arriva la Tares, dove lo Stato impone ai Comuni di conteggiare oltre alle spese per l’igiene ambientale anche quelle per l’illuminazione pubblica e la manutenzione delle strade. Inoltre lo Stato preleverà dai Comuni 38 centesimi per ogni mq di superficie tassabile ai fini della tassa rifiuti.

Cambia così la natura dei Comuni che da erogatori di servizi pubblici diventano gabellieri tout court visto che col patto di stabilità si tagliano i servizi. Questa situazione potrebbe stimolare i Comuni a ricercare nuove risposte per ridurre i costi di gestione dei servizi a rete (elettricità e calore in particolare) ma come si fa a modificare le tecnologie oggi utilizzate ad esempio nell’illuminazione pubblica o nel solare se non si possono fare investimenti? Allora non sarebbe male discutere di come incentivare un’economia verde. Anche con l’introduzione di una “fiscalità taglia-emissioni” che regoli, per esempio, l’Imu sulla base della classe energetica della casa, il bollo dell’auto sulle emissioni inquinanti anziché sui KW del veicolo, e che sostituisca, come propone intelligentemente il Wwf, l’Iva sui prodotti con l’Imposta di Carbonio Emesso (ICE), in altre parole la tassa sulla loro produzione di CO2 nelle varie fasi di lavorazione.

Sulla mobilità il fotovoltaico batte gli agrocarburanti

Nei giorni scorsi sono arrivate diverse buone notizie dallaricerca sul fotovoltaico. Nei laboratori svizzeri dell’Empa, l’ente federale per la ricerca sui materiali, è stata prodotta unacella flessibile a film sottile (con semiconduttore di diseleniuro di rame-indio-gallio) con un’efficienza record: 20,4%, ormai a ridosso delle migliori celle in silicio cristallino. All’estremo opposto della gamma commerciale, le costosissime celle a tripla giunzione in grado di sfruttare gran parte della luce solare, i Naval Research Laboratory americani hanno annunciato di aver progettato un nuovo tipo di cella, composta da ben 11 strati diversi di semiconduttori “tarati” su diverse lunghezze d’onda, che dovrebbe superare il 50% di efficienza (il massimo teorico, però, è ancora lontano: 87%).

Infine ricercatori della Lund University, in Svezia, hanno annunciato su Science di aver costruito celle composte di nanotubi di fosfuro di indio (4 milioni per millimetro quadro di cella), con un’efficienza del 13,8%, battendo ogni record precedente per questa tecnologia. In futuro, combinando nella stessa cella nano tubi di diverso spessore, questa tecnologia promette di catturare una porzione molto più vasta dello spettro solare di quanto possano le celle in silicio, ma a costi molto inferiori delle celle a giunzione multipla.

Ma forse, la notizia scientifica recente di maggior interesse è meno futuribile, ma molto più concreta: se veramente vogliamo un sistema energetico sostenibile,abbandoniamo il motore a scoppio a biocombustibili, concentrandoci invece suauto elettriche alimentate con il fotovoltaico. A sostenerlo è una ricerca condotta daRoland Geyer, professore di ingegneria ambientale all’Università della California a Santa Barbara. Geyer si è chiesto quale sia il migliore uso che si possa fare dell’energia solare per alimentare i trasporti: farla trasformare dalle piante in biocarburanti (biodiesel, bioetanolo, biometano, ecc.) e poi bruciarla nei motori a scoppio, oppure trasformarla in elettricità, e utilizzarla in veicoli elettrici?

La risposta l’ha data con un articolo apparso su Environmental Science & Technologyil 26 dicembre scorso, e può essere sintetizzata con le sue parole: «Il fotovoltaico è di ordini di grandezza una scelta migliore dei biocarburanti». La prima ragione è che la fotosintesi, la serie di reazioni che usano le piante per trasformare acqua e CO2 in zuccheri o oli usando l’energia solare,  è un processo molto inefficiente: solo l’1% circa della luce solare finisce immagazzinata nel prodotto finale, contro il 10-20% di quella convertita in elettricità dai pannelli solari.  Ma non basta, mentre l’elettricità può essere poi trasportata dalla rete e immagazzinata nelle batterie di un’auto con una perdita minima,  le piante vanno seminate in campi lavorati, concimate, trattate con pesticidi, raccolte, spremute e processate, prima che il loro contenuto energetico sia utilizzabile nei veicoli.

Questa lunghissima serie di trattamenti, ognuno dei quali consuma una parte dell’energia o ne richiede di esterna, spesso sotto forma di combustibili fossili, fa sì che in alcuni casi particolarmente sfavorevoli il bilancio energetico finale sia addirittura negativo: serve più energia esterna di quella che si ricava dalla pianta, così che solo i sussidi pubblici giustificano alla fine queste produzioni. Ma anche senza arrivare a tali estremi, si calcola che le perdite di processo per i biocombustibili varino fra il 90% per l’etanolo da mais americano al 15% di quello da canna da zucchero brasiliana, passando per 30% del biodiesel europei, al 20% per il biodiesel da olio di palma e il 25% dell’etanolo da cellulosa.

Ma non è ancora finita: mentre i motori elettrici hanno rendimenti superiori anche al 90%, i biocarburanti finiscono in motori a scoppio che ne buttano via non meno di tre quarti come calore di scarto. Una follia che poteva, forse, essere giustificata quando si usava petrolio che sgorgava da solo da sotto terra, ma non è tollerabile per risorse faticosamente prodotte con procedimenti complicati ed energivori.

Secondo Geyer, è addirittura meglio bruciare i biocombustibili in centrali elettriche e con queste alimentare auto a batteria che utilizzarli direttamente nei motori a scoppio. In questo quadro, quindi, non sorprendono le sue conclusioni: «A secondo del tipo di coltivazione, negli Usa i biocombustibili richiedono da 30 a 200 volte più terreno per produrre energia, rispetto al fotovoltaico. E questo si ripete anche per quanto riguarda le emissioni di CO2».

Per non parlare del fatto che il fotovoltaico non richiede acqua e può usare anche terreno non agricolo, non entrando così in competizione con la produzione di cibo e non provocando, basti pensare all’olio di palma, distruzione di biodiversità. Secondo il ricercatore californiano, quindi: «Insistere con i biocombustibili per le auto è una strada del tutto sbagliata. Questi prodotti non hanno alcuna chance di migliorare in modo decisivo in futuro, a causa del collo di bottiglia iniziale costituito dall’inefficienza della fotosintesi. Mentre il solare fotovoltaico si sa già che andrà incontro ancora per molti anni a una continua diminuzione di costo».

Sarebbe meglio quindi investire le enormi risorse spese dagli Stati per incentivare la produzione di biocombustibili, nel miglioramento e incentivazione delle auto elettriche che, se alimentate con elettricità solare, consentiranno riduzioni delle emissioni di CO2 enormemente migliori.

di Alessandro Codegoni, 24 gennaio 2013

Energie rinnovabili: si allontanano gli obiettivi al 2030?

Birol (Iea): «Contributi ai combustibili fossili nemico pubblico numero uno della la lotta al cambiamento climatico»

 

 

Negli ultimi 10 anni la quota delle fonti rinnovabili nel mix energetico mondiale è aumentata di più del 15%, ma aumentano i dubbi sulle possibilità di raggiungere a livello mondiale l’obiettivo del 30% entro il 2030. A dirlo è il Ren21 Renewables global report futures (Gfr), presentato al World future energy summit 2013 (Wfes) di Abu Dhabi.

Il rapporto, che integra il  Renewables Global status report del Renewable energy policy Network for the 21st century (Ren21) è stato realizzato insieme all’Institute for sustainable energy policies (Isep) giapponese  e sottolinea che «I combustibili fossili rappresentano ancora l’80% consumo energetico mondiale, minacciando gli sforzi per ridurre le emissioni di gas serra che sono responsabili del global warming».

Intervenendo al Wfes la segretaria esecutiva della United Nations framework convention on climate change (Unfccc), Christina Figueres, ha ricordato che «Il passaggio verso l’energia low carbon è iniziato, ma non sta avvenendo al livello od alla velocità necessari».

Il segretario generale dell’ International renewable energy agency (Irena), Adnan Amin ha detto ai delegati di Abu Dhabi riferendosi al Piano d’azione presentato dall’Irena il 14 gennaio: «Se non si fa nulla, avremo un 9% di gap sul target 2030. Dobbiamo e possiamo colmare questa lacuna».

Il rapporto di Ren21 ed Isep si basa su interviste con 170 specialisti di alto livello, presenta 50 scenari sull’utilizzo futuro delle energie rinnovabili. Secondo l’Outlook for Energy A view to 2040 di Exxon Mobil (che non ha nessuna simpatia per le energie pulite), nel 2040  la quota dell’energia rinnovabile nella produzione di elettricità dovrebbe attestarsi ad un misero 16%; per il Bp energy outlook 2030, fra 17 anni la quota delle rinnovabili sarà al 25%, mentre dei rapporti Iea la portano al 31-48% nel 2035 ed Energy (R)evolution di Greenpeace già al 65% nel 2030.

La proiezione più prudente contenuta nel Gfr Ren 21 è che entro il 2050 la quota delle energie rinnovabili non superi il 20%. Altre proiezioni portano questa quota tra il 30 e il 45%, quelle più ottimiste vanno dal 57% – 71% dell’Iea energy tecnology perspective al 94% di Energy (R)evolution di Greenpeace, al 100% dell’Ecofys energy scenario del Wwf.

Secondo il Gfr dell’agenzia globale parigina Ren21, «L’energia rinnovabile rappresenta oggi circa il 17 – 18% del mix energetico mondiale. I combustibili fossili – petrolio, gas naturale e carbone – contano ancora per un enorme 80%, mentre l’energia nucleare per circa il 2 o 3%». La buona notizia è che il nucleare varrebbe quasi la metà di quanto affermavano alcune stime precedenti, la cattiva è che gli idrocarburi la fanno ancora da padroni.

Quello che è certo è che, attualmente, le fonti rinnovabili rappresentano almeno il 20% del mix energetico in almeno 30 Paesi e che circa 120 Paesi del mondo si sono dati obiettivi politici per incrementare la produzione ed il consumo di energie rinnovabili.

Secondo l’ultimo rapporto Bloomberg New Energy Finance, nel 2012 gli investimenti nelle energie rinnovabili sono calati dell’11% a 268 miliardi di dollari. Nel 2011 avevano raggiunto i 302 miliardi dollari, con un aumento di oltre il 30% rispetto al 2010.  Anche per questo Fatih Birol, economista capo e direttore global energy economics dell’International energy agency (Iea) ha detto ad Abu Dhabi: «Non sono ottimista sul fatto che gli obiettivi del 2030 saranno raggiunti. Ho molti punti interrogativi. Il prezzo medio del petrolio nel 2012 è stato di 112 dollari al barile, uno dei livelli più alti di tutti i tempi, ma i contributi ai combustibili fossili sono il nemico pubblico numero uno della la lotta al cambiamento climatico. I contributi ai combustibili fossili nel 2011 hanno raggiunto i 523 miliardi dollari, in crescita di oltre il 30% rispetto all’anno precedente. Questo rende i combustibili fossili a buon mercato e ne incoraggia, piuttosto che scoraggiarne, l’uso. Abbiamo sicuramente bisogno di energie rinnovabili, ma se non abbiamo un quadro affidabile che renda gli investimenti nelle energie rinnovabili redditizi, non raggiungeremo l’obiettivo».

Come dar torto al presidente francese François Hollande che, aprendo il Wfes negli Emirati Arabi Uniti ha detto «Se non spendiamo… avremo una catastrofe»?

La FIOM per la green economy

“Non si tratta di sperare in una generica ripresa dopo la prolungata crisi che è tuttora in corso, ma si può immaginare un futuro per l’industria solo ripensando in chiave ecocompatibile il concetto stesso di produzione industriale”. Ad affermarlo Maurizio Landini, segretario generale della Fiom. Il sindacato dei metalmeccanici Cgil crede fermamente nella green economy come unica via per far ripartire la realtà industriale italiana. E sta portando avanti un proficuo dialogo con ambientalisti e mondo delle rinnovabili, che ha avuto una tappa importante nel seminario tenutosi ieri a Roma, dal titolo “Strategie energetiche nazionali: l’industria delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica”. “Un’alleanza –  ha sintetizzato Maria Grazia Midulla del WWF, intervenendo al seminario – in cui ognuno, ambientalisti e sindacati, assume un po’ del punto di vista dell’altro”.

La crisi verrà vinta con il superamento definitivo dello storico conflitto ambiente-lavoro? “Il caso Ilva insegna. Occorre chiedersi cosa si produce, come lo si produce e perché”, risponde indirettamente Eliana Como del centro studi Fiom. “Troppe merci, prodotte male e con poco lavoro: questo ha portato alla crisi, che è una crisi di paradigma. Il sistema non può ripartire com’era. Non si tratta più di rendere compatibile ambiente e lavoro, ma di mettere l’ambiente al centro dell’attività produttiva”, spiega Danilo Barbi, della segreteria nazionale Cgil.

Una ripartenza – è stato il filo conduttore del convegno – che non può avvenire senza una politica energetica e industriale lungimirante e stabile, della quale si sente fortemente la mancanza. Cosa abbia portato l’incertezza normativa e il tentativo di ostacolare le rinnovabili di questi ultimi anni lo sanno bene i metalmeccanici che lavorano nelle rinnovabili. Come hanno ricordato diversi delegati RSU di aziende del settore intervenuti, la politica ondivaga in materia di energia pulita ha esacerbato la piaga del precariato.

Degli effetti sull’occupazione nel comparto, d’altra parte, su queste pagine abbiamo parlato più volte: solo per fare l’esempio del fotovoltaico, in un anno di incertezza normativa terminato con lo sconvolgimento del quinto conto energia si sono persi circa 6mila posti di lavoro su 18.500 (indotto escluso), ha ricordato il presidente del GIFI Valerio Natalizia, intervenendo all’incontro.

“Non è l’eccesso di diritti dei lavoratori che ostacola la realtà produttiva italiana, ma una politica industriale che non c’è”, ha sottolineato Landini. Interessante da questo punto di vista la testimonianza di Paolo Mutti, a.d. di Solsonica, importante produttore italiano di celle e moduli FV sulla competizione con la Cina: il costo del lavoro, ha spiegato, èun fattore trascurabile in un prodotto come le celle e i moduli fotovoltaici, a rendere più competitivi i cinesi è la politica di Pechino che, avendo deciso di puntare sulle rinnovabili, li sostiene anche nei periodi difficili, garantendo l’accesso al credito tramite le banche nazionali.

In Italia invece un indirizzo politico che promuova con una certa stabilità uno sviluppogreen manca. Preoccupa l’assenza del tema della politica industriale nella campagna elettorale, mentre il governo uscente, come ha sottolineato il responsabile delle politiche ambientali Fiom Maurizio Marcelli, guarda al passato riproponendo un modello basato sulle fonti fossili.

Nel nostro paese, mentre si taglia il sostegno alle rinnovabili  e si pensa a nuove trivellazioni, da 3 anni gli investimenti industriali sono in declino e l’innovazione langue, tanto che abbiamo un quarto dei brevetti per abitante che ci sono in Germania, come ha ricordato Carlo Buttarelli, rappresentante sindacale Flc all’Enea, ente che dovrebbe promuovere ricerca e sviluppo, ma che è “commissariato e in cui ogni 5 ricercatori pensionati se ne assume uno, così che si è raggiunta l’anzianità media di 53 anni”.

di Giulio Meneghello – 18 gennaio 2013

“Servirebbe un programma di sostegno alla ricerca e alle filiere industriali innovative come era stato ‘Industria 2015’ introdotto dal governo Prodi e cancellato dal successivo: il nuovo governo dovrebbe mettere in piedi un programma ‘Industria 2020’” ha suggerito Gianni Silvestrini, illustrando le varie possibilità di riconversione verde della nostra economia puntando su rinnovabili, efficienza energetica in edilizia e mobilità sostenibile. Una riconversione, ha suggerito, che “potrebbe essere finanziata spostando gradualmente quei 60 miliardi l’anno che il nostro paese spende per importare dall’estero combustibili fossili”.

Un’idea, quella della riconversione verde, che sembra piacere a Landini, che ha ricordato come ad esempio la Fiom da tempo sostenga l’eolico galleggiante come attività per la riconversione di Fincantieri. “Per uscire dalla crisi occorre una politica energetica, dei trasporti, delle infrastrutture che guardi al futuro – ha concluso – Bisognerà confrontarsi con il nuovo governo su una nuova politica industriale”.